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Verona nella storia e nell’arte

Verona nella storia e nell’arte

V E R O N A 

NELLA   S T O R I A   E   NELL’ A R T E

(a cura di Bruno Silvestrini)

ORIGINI

Marco Juniano Giustino, storico del II secolo, nella sua Storia universale, sostenne che i Galli, cacciati dagli Etruschi, fondarono, tra le altre, anche Verona. Il poeta latino C. Valerio Catullo, molto prima assicurò l’origine gallica della sua Verona, e anche Livio, citando la spedizione dei Cenomani nel V secolo racconta che da questi fu fondata Verona.

La fondazione gallica della città è pure riferita dal geografo Tolomeo e solo Plinio, tra gli antichi, pose la sua fondazione ai Reti e agli Euganei. Sulla base di considerazioni maggiormente critiche, quindi moderne, è collocata l’origine di Verona tra il V e il IV secolo, già centro importante della popolazione veneta e già in intenso contatto con quelle retiche ed etrusche del nord. I Galli, sebbene giunti più tardi, contribuirono certamente allo sviluppo di Verona, tanto che, come riportano gli antichi, se ne credettero i fondatori.

Sull’etimo di Verona, toponimo rimasto immutato nei secoli, si sono fatte tante ipotesi. Il prefisso VER è sempre stato accostato alla radice gallica, quantunque insigni linguisti contemporanei intravedano in VERU la radice etrusca e nella desinenza NA una lecita parola etrusca. L’etimo, dunque, è, secondo un’opinione comune, più vicino alle lingue retica ed etrusca.

COLLE SAN PIETRO

Sul piano geografico il primo nucleo insediativo di Verona è stato individuato nel Colle San Pietro, alle cui falde e al riparo dalle piene, nacque l’originaria stazione neolitica. Le correnti migratorie dei popoli primitivi, siano state esse di Euganei, di Etruschi, di Reti, o di Galli Cenomani, furono trattenute sul colle, detto poi San Pietro, per la bellezza del paesaggio e per il fiume maestoso. Le erranti tribù preistoriche dovevano cercare località che non fossero, come quelle montane, invase dai ghiacciai, dalle nevi o troppo dense di intricate boscaglie, o come quelle in pianura, coperte da troppo paludi, o soggette ad estesissimi allagamenti in conseguenza delle frequenti inondazioni dei fiumi. Una ipotesi, fondata su una citazione di Plinio, fa apparire il primo centro di vita veronese formato da due popoli: sul colle, alla sinistra dell’Adige, gli Euganei; di fronte, sull’opposta riva del fiume, (fra ponte Garibaldi e ponte Nuovo), i Reti, risaliti dall’Italia centrale verso le zone alpine. Scriveva Carlo Cipolla: “Nell’età più lontane, per quanto puossi presumere, la città si riduceva ad un nucleo di capanne sul colle detto ora di S. Pietro…”.

Nel 1851 il demanio militare austriaco deliberò l’edificazione di una fortezza proprio sul colle. Durante i lavori vennero rinvenuti tre capitelli che, insieme al rinvenimento della statua di Giove Serapide, avvenuto un secolo prima, legittimarono l’ipotesi che vi fosse un tempio dedicato alla stessa divinità.

VERONA MUNICIPIO

Fu Giulio Cesare, proconsole delle Gallie, che in Verona fu ospite di Caio Valerio Catullo ad accelerare il processo d’integrazione politico – amministrativa dei latini. Con la lex Roscia (dal nome del tribuno della plebe Lucio Roscio), egli concedeva nel 49 la dignità municipale alla città ed ai suoi cittadini i pieni diritti elettorali nei comizi romani. Ascritta alla tribù Poblilia Verona si preparava a divenire parte importante del territorio romano.

Fu in questi anni che si tracciò la prima cinta muraria, sorta a perimetro d’un impianto urbano che comprendeva l’area fra l’Adige e le attuali vie Diaz, Cantore, S. Nicolò, Filzi, Leoncino, Amanti, assorbendo così il villaggio preromano alla destra del fiume ed includendo l’arce (rocca, cittadella, acropoli, sommità di un monte) di S. Pietro.

Il decumano massimo era costituito dalla via Postumia che incrociandosi col cardo tracciava il Foro, nell’area dell’attuale Piazza delle Erbe. Sulla base di queste strade si formerà, poi, il reticolo, strumento di diffusione urbanistica dell’Augusta Verona.

PONTE PIETRA (Pons Lapideus)

La prima opera monumentale d’età romana in Verona. Fu eretta verosimilmente in epoca anteriore all’impianto urbanistico tardo-repubblicano, a guado dell’Athesis sul luogo ove era il ponte ligneo, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Detto Pons Lapideus, durante i lunghi secoli del Medioevo o meglio Pons Lapideus Sancto Stephano, non è dato sapere il suo eponimo in età romana. Si vuole, per memoria storica, che almeno tre fossero i ponti in epoca romana: oltre al Lapideo ed al Postumius (che era in chiara direttrice con il decumano massimo e scomparso nel XII secolo, il terzo ponte sarebbe sorto sul luogo ove oggi è quello di Castelvecchio, ad agio dei collegamenti con la Via Claudia Augusta. Il Ponte della Pietra era verosimilmente composto di cinque arcate sostenute da quattro piloni di pietra in un sistema ad arco a tutto sesto. Il Ponte della Pietra, di cui rimangono due arcate originarie, fu ricostruito nelle forme che oggi non è dato conoscere in epoca romana, quelle attuali datano al XVI secolo. Subì danni a seguito d’una piena dell’Adige, poi nel XIII secolo, quando fu profondamente ristrutturato, e ancora nel ‘500 quando se ne ricomposero le arcate centrali. Minato e parzialmente distrutto dai tedeschi sul finire della Seconda guerra mondiale, (crollò la parte antica) il ponte solo nel 1957 fu sottoposto a radicali lavori di ricostruzione, che si conclusero due anni dopo.

CINTA MURARIA

verona-04La Verona augustea, la magna Verona dell’età flavia, ancora fiorente nei primi secoli dell’Era cristiana, subirà, già nel III secolo, le conseguenze delle contraddizioni cui l’impero fu soggetto. Più declinavano i suoi confini, più aumentava l’importanza di Verona, città destinata a baluardo contro le invasioni dal Nord. Fu per queste ragioni che l’imperatore Gallieno (218-268) stabilì in Verona un ragguardevole comando, ordinando nel contempo il rinforzo della cinta muraria la quale avrebbe compreso anche l’area dell’anfiteatro che veniva cosi incluso nel sistema difensivo. Publio Licino Egnazio Gallieno fu imperatore romano dal 253. Figlio di Valeriano, associato al padre nell’impero, rimase a governare da solo quando Valeriano cadde prigioniero del re di Persia (260). Nel 268 Gallieno fu ucciso a Milano da ufficiali illirici, dov’era accorso per reprimere la rivolta di Aureliano. Ma l’edificazione delle prime mura di Verona, si vuole coeva alla costituzione della città, ebbe luogo in età repubblicana, intorno alla metà del I secolo a.C. La prima cinta di Verona, alta una dozzina di metri, aveva la muraglia a spessore differenziato. È verosimile, infine, che in ogni tratto si elevassero torri e forse un fossato corresse lungo la cerchia. Nelle porte della prima cerchia, che taluni studiosi hanno congetturato fossero almeno quattro, s’aprivano in ciascuna due fornici ed ai lati s’alzavano delle torri, cosi da rendere le costruzioni dei veri e propri fortilizi. Ma oltre ai compiti di difesa avevano anche la funzione di ornamento della cinta.

PORTA BORSARI

verona-34Costruite in mattoni, con rinforzi di tufo, si ergevano in quell’epoca due porte, quelle che nel Medioevo si nominavano Porta dei Borsari (anticamente era chiamata Porta Jovia, per la sua vicinanza al tempio di Giove Lustrale) e Porta dei Leoni. Sorta sul decumano massimo la principale arteria urbana dell’impianto romano probabilmente nel I secolo a. C. e rinnovata nel I secolo d.C., il segmento cittadino della Postumia, Porta Borsari era il più importante punto d’accesso alla Civitas, quello che conduceva al Foro. Edificata in pietra bianca della Valpantena si ergeva maestosa su tre livelli, nel primo dei quali si aprivano due ampi fornici (l’apertura di un arco o di una porta monumentale) inseriti in edicole circoscritte da semicolonne scanalate a capitello corinzio. Sull’architrave sopra i fornici l’imperatore Gallieno fece incidere un’iscrizione che ricordasse la ricostruzione nel 265 d.C. della cinta muraria urbana che fu eretta in brevissimo tempo; dal 3 aprile al 4 dicembre 265: (in realtà il suo fu un intervento di ripristino e ampliamento, non di ricostruzione). COLONIA AUGUSTA VERONA NOVA GALLIENIANA VALERIANO II ET LUCILLO CONS. MURI VERONENSIUM etc. così tradotta: “Verona Colonia Augusta Nuova Gallieniana essendo consoli Valeriano II e Lucillo le mura di Verona innalzate dal terzo giorno di aprile e dedicate il quarto giorno di dicembre per ordine di Gallieno Augusto sotto la direzione di Aurelio Marcellino duce ducenario con l’assistenza di Giulio Marcellino”. Al fianco di Porta Borsari si devono supporre le due torri di guardia e i passaggi di ronda che, congiungendo i due fronti, permettevano un controllo su chi entrava e chi usciva: un vero e proprio fortilizio. L’altezza originale complessiva è di m. 13,56, e larghezza di m. 12,93; lo spessore di m. 0,88 nella parte inferiore e di m. 0,50 nella parte superiore.

PORTA DEI LEONI

Contemporanea alla Porta dei Borsari è quella cosiddetta dei Leoni, eretta sul punto in cui il cardo massimo entrava nella Civitas, ampi resti sono visibili oggi tra via Cappello e il vicolo Leoncino. Nel Medioevo era detta Porta San Fermo, dalla vicina chiesa e poi Porta del Foro Giudiziale, ma secondo anche l’iscrizione dell’epistilio era questa porta Arcus Tiberii Flavii. L’iscrizione murata tra i due fornici, venuta alla luce nei restauri eseguiti nel 1959, riporta i nomi dei quattuorviri che ordinarono l’edificazione delle mura in epoca repubblicana: P. VALERIUS, Q. CAECILIUS, Q. SERVILIUS E P. CORNELIUS, nel tempo in cui la cittadinanza romana veniva estesa a tutta la Cispadana (49-42 a.C.). Edificata in epoca imperiale, completamente con pietra bianca dei Lessini, la Porta Leoni si sviluppava su tre piani. Alla base si aprivano due fornici, la cui base era uguale a quelli più antichi; inquadrati in edicole delimitate da semicolonne scanalate poggianti su plinti a base quadrangolare. I relativi cappitelli, d’ordine corinzio, sostenevano l’architrave, la cui divisione in tre fasce è rispettata solo su corpi aggettanti. Sopra le semicolonne, è incisa l’iscrizione: TI. FLAVIS S.P. MORICUS IIII VIR I.D. . Al secondo piano, alta tre metri, si apriva una serie di luci minori, tre delle quali sono giunte a noi, inquadrate da pilastri scanalati di tipo corinzio, reggenti una trabeazione. Il terzo piano, di mirabile monumentalità, era costituito da un’esedra sulla cui base era un podio da cui si alzavano quattro colonne tortili con capitelli corinzi una delle quali si può ancor oggi integralmente vedere.

L’ARENA

L’Anfiteatro (dal greco che indica continuità, che si svolge tutt’intorno, edificio a pianta circolare o ellittica) costruito nel I secolo d.C. . La pianta ellittica del monumento (situazione attuale) è lunga m. 138,77 e larga m. 109,72; l’ovale interno, escluse le gradinate, misura m. 73,78 x 44,43; quelli dell’edificio quando era completo della sua cinta esterna, sono di m. 152 x 123.

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Il perimetro della platea è di metri 188; quello della cinta esterna della platea attuale è di 391metri; quello della cinta dell’Ala è di 435 metri. Era alta complessivamente dall’esterno circa 30 m., aveva 72 arcate per ogni piano. Con l’Ala ne sono rimaste quattro: quelle del primo piano alte circa 7 m., quelle del secondo 6,30 m. e quelle del terzo 4,50 m. Gli scalini, di marmo veronese, sono alti in media m. 0,41 e larghi da 0,63 a 0,71. La cavea era divisa in origine non a settori, ma ad anelli, e ciascuno anello aveva ingressi separati. Il primo, detto podio, era per le autorità ed i personaggi di riguardo: comprendeva cinque gradini e vi si accedeva dalla galleria più interna per dodici vomitori. Le gradinate, che hanno alla base un alto zoccolo (pòdio) non corrispondono più, oggi, a quelle antiche, originali, che erano divise in tre settori concentrici (meniani) ai quali si accedeva, come adesso, da numerosissime aperture (vomitòri) collegate a scale interne, oltre che alla fascia anulare esterna oggi quasi interamente distrutta, ad eccezione dell’Ala (nel vallo esterno dell’Anfiteatro una serie di lastre di pietra bianca segna opportunamente il luogo già occupato dai pilastri dell'”anello” scomparso). Il tutto era coronato, probabilmente, da un loggiato monumentale di grande effetto. Molto suggestivi i corridoi interni, gli ambulacri, i passaggi, quasi intatti, i 73 muri “radiali” che in diagonale sostengono le gradinate.

Nel suo interno succedeva pressappoco quello che avveniva in tutti gli altri anfiteatri romani: vi combattevano i gladiatori, vi si facevano cacce, giochi, ecc.. Plinio il Giovane scriveva all’amico Massimo che era stata una bella idea quella di offrire ai veronesi nell’Anfiteatro, in memoria della moglie defunta, dei ludi, o spettacoli gladiatori.

Nel Medioevo, e anche successivamente, vi si correvano giostre, gualdàne, tornei, e si organizzavano altre feste cavalleresche (rimasta famosa quella del 29 maggio 1662); poi vi si improvvisarono spettacoli teatrali, ad uno dei quali prese parte il celebre commediografo Carlo Goldoni, e per lungo tempo vi fu una baracca di legno, il “Teatro Diurno”, che andò a fuoco nel 1885: più tardi, in una memorabile sera di maggio, la grande Eleonora Duse impersonò in Arena la Giulietta di Shakespeare. Poi concerti, manifestazioni ginnico-sportive e corali, concorsi ippici, mostre, fiere, raduni incontri, adunate, partenze di mongolfiere e palloni aereostatici (vi fu organizzata, in tempi non lontanissimi, anche una corrida, e finì miseramente sotto una valanga di fischi.

Dall’ottobre al dicembre del 1822 Verona ospitò il Congresso della Santa Alleanza delle nazioni che dopo la caduta di Napoleone si credevano in diritto di decidere a loro uso e consumo della storia e della geografia d’Europa. Siccome Verona, da ormai otto anni, apparteneva all’Austria, il governo di questo Paese invitò qui tutti i capi di Stato europei, zar e zarine, imperatori e imperatrici, re e regine, arciduchi e arciduchesse, principi e principesse (le teste coronate) con ministri, ciambellani, ambasciatori, generali, ecc. Oltre a far politica, tutta questa gente se la spassò con feste, balli, gite e spettacoli: naturalmente ci furono anche spettacoli in Arena. Nel 1913, grazie all’intuizione e all’iniziativa del tenore Zenatello, l’Arena ha scoperto la sua vera vocazione, ed è diventata, in virtù anche della sua perfetta acustica, il più grande teatro lirico del mondo con il più grande palcoscenico, le più grandi scene, il più imponente esercito di comparse, ecc. Su questo “palcoscenico”, sono state rappresentate tutte le più belle opere, più frequente di tutte “Aida” di Verdi, con i più celebri cantanti, registi, scenografi, ballerini, ecc. di fronte a un grande pubblico (fino a 20.000 persone).

TEATRO ROMANO

La costruzione del Teatro romano è riconducibile alla fine del I secolo d.C., in piena età augustea. È verosimile che per la sua realizzazione furono operati grandi lavori di arginatura del fiume, a valle del colle S. Pietro, con l’erezione di una muraglia in parallelo vicino alla quale si ricaverà la scena. Un residuo di questa antica protezione è individuabile attraverso le cinque arcatelle aperte nel muro laterizio, sotto la strada fiancheggiante. Venne riportato alla luce solo nel 1834 dagli scavi fatti a proprie spese da un benemerito cittadino: Andrea Monga che acquistò le case e i terreni dell’area interessata che fece demolire e sterrare per ampliare la ricognizione di scavo. Del Teatro, purtroppo, erano spariti il rivestimento architettonico e la solenne facciata sull’Adige; si ritrovarono invece buona parte delle gradinate appartenenti alla càvea semicircolare, scavata in parte nella roccia, l’orchestra (il breve spazio destinato ai movimenti del coro) elementi della scena stessa e, su questa, grandiosi avanzi dei parascèni (corrispondenti alle quinte dei moderni palcoscenici). Sopra l’ultima gradinata, a sinistra, si vede una fila di archetti di marmo già facenti parte della loggia superiore; ed è un elemento di grande interesse e di sicuro effetto, a quello stesso livello, la enorme intercapedine (una fossa profonda 14 metri e lunga 80) scavata nella roccia per separare il Teatro dal fianco del monte (isolante termico). La cavea inferiore, costituita da venticinque gradoni in pietra bianca, era divisa in sei settori e cinque scale in pregiato marmo. La cavea superiore non è stata ricostruita e oggi è individuabile solo da un terrapieno.

ARCO DEI GAVI

Il composito e solenne Arco dei Gavi si ergeva sulla via Postumia a poco più di cinquecento metri dalla Porta Jovia (Porta Borsari). Edificato nel I secolo d.C. dalle gens Gavia, potente famiglia patrizia di Verona, esso fu eretto quale porta ornamentale al di fuori della cinta muraria, in un punto che oggi è possibile individuare di fronte alla torre di Castelvecchio. Le dediche a Caio Gavio Strabone e Marco Gavio Macro furono scolpite sotto le nicchie laterali che davano verso l’agro, entro le quali erano le statue dei due patrizi. L’insigne edificio romano godette di grande fama per la maestosità e ricchezza delle sue linee classiche, ma anche per il prestigio dell’architetto che lo disegnò, Lucio Vitruvio Cedrone, allievo e discepolo di Marco Vitruvio Pollione, autore del celeberrimo De architectura che scrisse in dieci libri, dopo il 27 a.C., il pilastro anteriore e quello posteriore recano la sua firma: L. Vitruvius L.L. Cerdo /architestus, fatto non comune che conferma il prestigio dell’opera e del suo autore. L’elevato del monumento ha un’altezza totale di m. 12,69; di cui 2,46 per il piedistallo; m. 6,72 per il colonnato; m. 1,45 per la trabeazione; m. 2,06 per l’attico; la larghezza nei lati maggiori e di m. 8,40 x 3,48, il minore di m. 5,50 x 2,65; le nicchie, m. 2,50 x 0,98 x 0,68; le finestre, m. 2,12 x 1,19.Demolito dai francesi forse per ragioni militari nel 1805, fu riedificato nel 1932 sulla piazzetta adiacente Castelvecchio.

VERONA CRISTIANA

Il cristianesimo nacque quale limitata setta ebraica riunita attorno agli apostoli. Suo protomartire fu Santo Stefano, lapidato dai suoi correligionari ebrei (35?). Già nel I secolo la religione cristiana ebbe a diffondersi con l’opera del suo primo predicatore, Paolo di Tarso (44 – 58). Le persecuzioni cominciarono sotto Nerone, quando furono giustiziati Pietro e Paolo, cui seguirono quelle di Traiano, di Marco Aurelio, di Messio Decio, il quale nel 250 intese ottenere l’unificazione dei romani sotto l’antica religione, combattendo violentemente il cristianesimo e favorendo anche l’apostasia. Poi anche quelle di Valeriano (257) e di Diocleziano, certamente la più aspra quest’ultima, durata dieci anni (303) e che avrebbe colpito anche Verona.

SAN FERMO MAGGIORE

Gli atti del martirio dei santi Fermo e Rustico, due soldati bergamaschi giustiziati sulla riva dell’Adige, a Verona, indicano la loro soppressione nel 304, sotto l’imperatore Massimiano Ercole (240-310); le loro spoglie saranno raccolte dal vescovo Ammone e conservate nella primitiva chiesa di San Fermo Maggiore, nei pressi del Ponte Navi (755). Il documento cita il quarto vescovo di Verona, Procolo e il suo rifugio, poco lontano dalle mura urbane che, secondo la tradizione era nelle grotte scavate nelle colline di Verona (si vuole che i luoghi di rifugio furono scavati nel tufo del Colle S. Pietro), nelle quali viveva nascosto con alcuni cristiani. Al giungere dei due martiri volle parlare loro e confortarli ma fu arrestato, percosso e mandato sotto processo. Il consigliere imperiale Anolino volle liberare il pastore, forse per la sua vecchiaia, dopo aver fatto bruciare le scritture cristiane con l’antico martirologio che conteneva i nomi di quaranta vittime. Con la suddivisione dell’impero tra augusti e cesari si conseguirono molti e determinanti risultati sia in politica estere che in politica interna, come l’attuazione di notevoli riforme amministrative, fiscali ed economiche, tra cui l’istituzione delle diocesi e l’editto del prezzo delle merci (De Pretiis Rerum Venalium) del 301. In questo periodo i cristiani tornarono a godere d’una certa tolleranza che venne meno nel 303, quando Diocleziano, istigato da Galerio, governatore dell’Illiria, scatenò la violenta persecuzione contro la Chiesa che sarebbe durata dieci anni, fino all’editto di Costantino. Verona, importantissima roccaforte del Veneto e luogo di sicuro soggiorno d’imperatori, nel 312 fu difesa da Ruricio Pompeiano, prefetto pretorio di Massenzio, quando Costantino calando dalle Alpi ne pose l’assedio. Le naturali difese delle turbolente e profonde acque dell’Adige non furono sufficienti, tuttavia a trattenere l’esercito assediante se dopo alcuni tentativi, e violentissimi scontri, la città s’apri a Costantino, l’imperatore romano che proseguendo la marcia verso Roma avrebbe avuto la celebre visione della croce (alle porte di Roma si concluse la campagna di Costantino in Italia. A Ponte Milvio ebbe luogo la battaglia decisiva nella quale trovò la morte Massenzio il 28 ottobre 312).

SANTO STEFANO

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L’ETA’ BARBARICA

Nel 403 Verona fu teatro di una violenta battaglia combattuta tra i Visigoti, comandati dal loro re Alarico, e l’esercito imperiale di Flavio Stilicone. Alarico occupata Verona vi si asserragliò sotto la pressione di Stilicone che pose l’assedio. Ne seguì una cruenta sortita dalla quale il re barbaro ed il grosso del suo esercito riuscirono a salvarsi aprendosi il passo nelle vicine montagne, poi riparando in Illiria da dove patteggerà la pace con l’imperatore Onorio.

Nel 451 un nuovo esercito barbaro s’affacciò al di qua delle Alpi: erano gli Unni guidati dal loro re Attila (395 ?- 453, un popolo guerriero e feroce stanziati nei territori danubiani della Pannonia. L’anno successivo, dopo le scorrerie nel Veneto, le devastazioni di Aquileia, invece di dirigersi verso Roma, Attila ripiegò verso oriente e, sul Mincio, nel punto attraversato dalla via Postunia, o nei pressi di Peschiera ove passa la via Gallica, (sul luogo dello storico incontro si sono fatte varie ipotesi. Le località probabili sono, Salionza, Ponte Molino e Governolo dove il Mincio confluisce con un ramo del Tartaro, alcuni ad Arilica, l’attuale Peschiera), gli mosse incontro papa Leone I inviato dal senato e dall’imperatore.

Alle preghiere del pontefice Attila desistette e tornò ai suoi territori. Ad un abitante dell’imperodovette sembrare strano che Attila dopo aver devastato le pianure dell’Italia settentrionale non avesse varcato gli Appennini e saccheggiare la stessa Roma, come aveva fatto Alarico, prima di lui. Secondo questa storia egli in realtà si propose dapprima di marciare sull’antica capitale, ma i suoi seguaci lo avevano dissuaso da ciò rammentandogli dello stesso Alarico e come fosse morto quasi immediatamente dopo aver messo a sacco la grande città. Essi ammonirono Attila che il suo destino avrebbe ben presto potuto essere simile. Ma in realtà potrebbe essere facile comprendere perché il re unno si ritirò dall’Italia senza neppure passare gli Appennini; il sentimento non entrò affatto sui suoi calcoli.

(Ezio, generale romano, visse come ostaggio presso gli Unni; nel 432 fu nominato console e patrizio romano (433) e per altri vent’anni, fino alla morte esercitò un notevole potere sull’impero, che riuscì a difendere contro i barbari, sconfiggendo successivamente i Visigoti, i Burgundi e i Franchi. Nel 451, al tempo dell’invasione di Attila, seppe riunire i Gallo-romani e i Germani stabilitisi in Gallia, contro Attila, il cui esercito sbaragliò ai campi Catalavnici, presso Chalous. Valentiniano II, geloso della sua gloria e popolarità lo fece assassinare, privandosi ,così, dell’unico generale capace di opporsi validamente alle invasioni barbariche).

Ezio decise di chiedere la pace agli Unni; l’ambasceria aveva per capo nientemeno che papa Leone I. Non è chiaro perché venisse inviato il papa, perché come si esprime lo storico Bury “è assurdo supporre che a questo re pagano potesse importare dei fulmini e delle blandizie della Chiesa”. Giova, a questo proposito, ricordare che quando Ezio stava per andare in Gallia l’anno precedente, l’Italia era devastata da una carestia. Le messi non erano adesso maggiori e le devastazioni causate dall’invasione degli Unni non avevano migliorato il raccolto. Di conseguenza le campagne attraverso le quali gli invasori calavano nell’estate del 452, erano campagne devastate dalla carestia e dalla sua compagna inseparabile, la pestilenza. In tali circostanze sarebbe stata una follia valicare gli Appennini.

Verona ancora nel periodo barbarico fu ragguardevole centro di vicende storiche nazionali, ponendosi quale base militare ai confini settentrionali e, dopo la distruzione da parte degli Unni di Aquileia, (452), a quelli orientali. La fine dell’impero romano d’occidente coincise con le gravi sedizioni degli eserciti barbari stanziati in Italia, alle quali seguirono la soppressione del generale Oreste, un romano barbarizzato, la deposizione di Romolo Augustolo (476) e la proclamazione a re dello sciro Odoacre (generale barbaro al servizio dei romani). Sotto il dominio di Odoacre Verona ed il suo territorio non ebbero mutate le leggi e le istituzioni e, quantunque egli stesso ariano, non avversò i cattolici. Temperante, non poté evitare l’astio del latifondo quando fece applicare le leggi delle requisizioni terrene a favore delle milizie barbariche e le agevolazioni per l’affrancamento degli schiavi. Preoccupata per la potenza del suo delegato la corte di Zenone decise una prima spedizione contro Odoacre. L’armata fu sbaragliata nel Norico, tra il 487 ed il 488. L’assemblea generale dei Goti (la corte di Costantinopoli), determinò l’invio di una seconda spedizione alla volta dell’Italia, formata in maggioranza di Ostrogoti al comando di Teodorico.

Nell’autunno del 488 la spedizione mosse alla volta dell’Italia. Attraversate le Alpi Giulie nell’agosto dello stesso anno Teodorico raggiunse l’Isonzo sulle cui rive s’era attestato l’esercito di Odoacre. Il 28 agosto ebbe luogo la celebre battaglia, sanguinosa ma non decisiva. A San Martino Buonalbergo, fra le colline veronesi e l’Adige si svolse la seconda battaglia: era il 30 settembre. L’esercito di Odoacre fu sbaragliato ma non vinto e riuscì poco dopo a recuperare Milano. La terza e definitiva battaglia s’ebbe l’anno successivo, sul fiume Adda, dove Odoacre operò una poderosa controffensiva con un esercito che oltre ai suoi Eruli comprendeva Sciri, Rugi e Turcilingi.

Teodorico con i suoi Ostrogoti sconfissero Odoacre che ripiegò verso Ravenna dove si asserragliò, ben presto assediato fino alla capitolazione che avvenne il 27 febbraio 493 e qui morì il 15 marzo per volere di Teodorico. Verona fu così conquistata. Circondato dall’alone di queste vittorie Teodorico divenne padrone d’Italia cui si aggiunsero la Rethia, la Pannonia e l’Illiria. Progettò la rinascita dell’impero d’occidente riuscendo a realizzare una perfetta convivenza fra Goti e Romani. Si attorniò di una corte di tipo imperiale, facendo rivivere le antiche istituzioni di Roma, quali il senato, il prefetto pretorio e le gerarchie, e seppe equilibrare le funzioni politiche fra Goti e Romani.

I più saggi ed eruditi personaggi gli facevano corona, tra cui Cassiodoro, Boezio, Simmaco. Il regno di Teoderico durerà trentotto anni, nei quali l’Italia ritroverà la dimenticata prosperità. In Verona si eresse il suo palazzo, si restaurarono gli antichi edifici e l’acquedotto, e si eressero nuove mura delle quali, tuttavia, quasi nulla è rimasto. Fra i motivi di predilezione per Verona va ricordata la passione del re per i vini veronesi, i cui pregi scrisse verbosamente Cassiodoro nelle sue “Varie”. Teodorico apprezzava questi vini e li considerava superiori a quelli greci; le sue cantine ne erano sempre fornite. “Era un vino fatto rosso o bianco, fatto con uva lasciata sospesa a riposare fino a dicembre e spremuta senza calci. La dolcezza in esso si sente con soavità incredibile, si corrobora la densità per non so qual fermezza, e si ingrossa al tatto in modo che diresti essere un liquido carnoso, una bevanda da mangiare”.

Teodorico, re degli Ostrogoti (454 circa – 526). Figlio di un capo ostrogoto della stirpe degli Amali, fu educato a Costantinopoli. Nel 477 aiutò l’imperatore bizantino Zenone a sconfiggere il ribelle Basilisco. Solo nel 488 però ebbe l’assenso a “liberare” l’Italia dominata allora da Odoacre. Soltanto nel 494 la lotta poté risolversi con l’ingresso di Teodorico in Ravenna e l’uccisione di Odoacre. Negli ultimi anni, temendo un’alleanza tra l’aristocrazia romana, il papa e Costantinopoli, fece condannare a morte Albino, Simmaco e Boezio. Lo stesso papa Giovanni I morì in carcere dietro suo ordine. Teodorico si spense a Ravenna dove fu sepolto nel celebre mausoleo che porta il suo nome.

Anicio Manlio Torquato Boezio (480-524), fu filosofo e politico. D’inclita (nobile, illustre) famiglia senatoria, compiuti gli studi in Atene sposò Rusticiana, la figlia del senatore Simmaco, uno degli uomini più potenti del suo tempo. Quale ministro di Teodorico si fece esecutore della sua politica di convivenza tra goti e latini. Console nel 510.

La sua stella cadde quando a seguito di intrighi di corte egli accettò la difesa del senatore Albino in un appassionato discorso pronunciato a Verona. Supposto complice fu imprigionato nella torre del battistero di Pavia dove compose il suo libro più celebre, Il De Consolatione Filosophiae. Nel 524 saranno entrambi giustiziati quando da Bisanzio giunse l’editto imperiale contro gli eretici che consacrò le chiese ariane al culto cattolico. Secondo la iconografia Rateriana la dimora reale si ergeva in riva all’Adige, alle falde del Colle, ma nessun elemento consente di suffragarne l’ubicazione.

Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, proveniente da inclita famiglia, fu devoto a Teodorico divenendo suo consigliere, poi console (514), quindi prefetto del Pretorio che servì anche sotto altri sovrani goti fino al 540. Compose opere di grande erudizione, di grammatica e di teologia che servirono a modello di studio per tutto il Medioevo; celebri furono le sue Istitutiones divinarum et humanarum letterarum. Morì nel 580 nel monastero di cui era abate, a novantatreanni.

VERONA LONGOBARDA

Neppure quindici anni dopo la devastante guerra gotico-bizantina valicò le Alpi un popolo barbaro che ebbe fama di coraggio e di crudeltà: erano i Longobardi, guidati dal loro re Alboino. Re dei Longobardi (? – Verona, 572). Succeduto al padre Audoino tra il 560 e il 565, combatté contro i Gepidi e li distrusse con l’aiuto degli Avari. Lasciata la nativa Pannonia nel 568, valicò le Alpi e l’anno successivo conquistò Milano. Fattosi proclamare re d’Italia, stabilì la sua residenza a Verona e cinse d’assedio Pavia, che cadde nel 572. Pare che sia stato fatto assassinare dalla moglie Rosmunda, che egli aveva umiliato costringendola a bere nel teschio del padre, il re Cunimondo. Il maggior punto di connessione tra la città di Verona e il dominio longobardo è costituito dalla mitica vicenda del convivio. Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum non ha dubbi sulla veridicità dell’episodio perché egli ne fu testimone storico. “Ciò non sembri impossibile perché in nome di Cristo dico il vero”.

La congiura di palazzo maturata nella reggia che fu di Teodorico, ebbe il suo culmine il 28 giugno del 572. Nell’area del palazzo di Teodorico si ricavò la tomba di re Alboino il cui corpo, alto di statura scrive Paolo Diacono, “fu sepolto sotto il declivio di una scalea che era vicina al palazzo”. Nel 774 Gisalberto, già duca di Verona, fece aprire il sepolcro da cui trasse l’augusta spada ed i regali ornamenti, nulla lasciando sull’ubicazione della sepoltura.

A settentrione di Verona, addì 15 maggio 589 furono celebrate le nozze di re Autari con la principessa bavarese Teodolinda, figlia di Garibaldo re dei Bavari. Ad un anno dal matrimonio la regina rimase vedova e sposò Agilulfo, duca di Torino che così poté cingere la corona reale e assecondare la moglie nella diffusione del cattolicesimo.

In quel (589) Verona sopportò uno dei più gravi disastri della sua storia; tutta l’Italia settentrionale fu devastata da gravissime inondazioni. La rotta dell’Adige sommerse Verona e demolì parte della sua cinta muraria, causò enormi distruzioni ma, racconta Gregorio Magno, rimase integra la Basilica di San Zeno. Un gigantesco incendio che distrusse gran parte della città, concluse il 589. Il veronese fu battuto poi da altre calamità: una diffusissima epidemia e le scorrerie dei Franchi che devastarono e saccheggiarono il provato territorio.

L’esercito dei Franchi era in pratica alleato dei Bizantini e da questi inviato in azioni di guerra contro Verona ed i Longobardi che miravano a dominare una penisola unificata ma ancora in gran parte sotto i Bizantini. Nella seconda metà del VII secolo i Longobardi ripresero l’antico sogno dell’unificazione dell’Italia, politica della quale re Astolfo non seppe valutare la portata allorquando la Chiesa riuscì a coinvolgere l’altro grande protagonista della storia europea, il popolo Franco. La politica ereditata da Desiderio, ultimo re longobardo, non lasciava possibilità di soluzione, tanto avanzata era la situazione militare dopo l’intervento dei Franchi.

Egli pensò che un matrimonio politico avrebbe potuto appianare e pacificare due popoli e salvare l’uno da un disastro politico ancorché militare, e l’altro da un’alleanza assai vincolante: Ermegonda, figlia del re longobardo andò in sposa al re dei Franchi, Carlo, il futuro Carlo Magno. Il conflitto si rese inevitabile quando la Chiesa costrinse i Franchi a muovere guerra ai Longobardi e venne da sé il ripudio della sposa da parte di Carlo Magno.

Desiderio e suo figlio Adelchi, i cui eserciti furono travolti dalla furia dei franchi, si rifugiarono l’uno a Pavia e l’altro a Verona. Nel settembre del 773 Carlo, il futuro Carlo Magno, pose l’assedio a Pavia e successivamente a Verona, difesa da Adelchi. Dopo alcuni mesi di resistenza le due città caddero. Il re longobardo con sua moglie Ansa, furono relegati nel monastero di Corbie, vicino Liegi, in Belgio ove attesero la fine dei loro giorni. Il figlio Adelchi ch’era riuscito a fuggire a Pisa e da qui a Costantinopoli (774) sognò la riconquista del suo popolo longobardo e 755 tentò di realizzarla con l’aiuto di alcuni duchi che re Carlo aveva lasciato nei loro domini. Dopo un altro tentativo compiuto anni dopo, da cui riuscì a salvarsi a stento, Adelchi si rifugiò a Costantinopoli dove morì.

CHIESE D’ETA’ LONGOBARDA

SANTA MARIA IN ORGANO

La chiesa di Santa Maria in Organo fu edificata in età longobarda presso la consolare Postumia, la via che conduceva verso il Veneto orientale e che si congiungeva alla città attraverso lo scomparso Ponte Postumio. La fondazione sarebbe avvenuta ad opera del duca Lupone e di Ermenelinda, sua moglie, i quali sono citati in coevi documenti quali fondatori di un altro monastero (752). Nel 755 il duca longobardo Lupone, poi Carlo Magno (804), Berengario (889) e altri regnanti concessero privilegi all’abbazia che era soggetta al patriarca di Aquileia Paolo fin dall’VIII secolo. La facciata, incompiuta, connota l’intervento rinascimentale attribuito al Sanmicheli. L’abbazia di Santa Maria in Organo, una delle più potenti di Verona era soggetta al patriarca di Aquileia, cui spettava la nomina degli abati i quali erano generalmente tedeschi per gli stretti rapporti tra Aquileia e le autorità monastiche bavaresi. Il patriarca di Aquileia continuò ad avere giurisdizione su questo complesso monastico fino al 1762, quando se n’ebbe la soppressione. A quest’epoca nella quale la cattedrale di Verona era in Santo Stefano poiché la basilica di San Zeno era inagibile, risale l’edificazione di due chiese destinate al culto: San Giovanni in Valle, che fu eretta sotto il castrum, nell’antico terreno sacro e santa Maria in Organo.

SAN GIOVANNI IN VALLE

San Giovanni in Valle è una chiesa di antichissima origine, edificata nel VI secolo sopra un’area sepolcrale romana divenuta cimitero paleocristiano, che durante i regni dei Goti e dei Longobardi divenne una sorta di seconda cattedrale cittadina. Durante il 1117 uno sciame sismico di eccezionale intensità colpì il nord Italia, e Verona porta ancora oggi i segni delle devastazioni: l’anfiteatro perse il terzo anello, molte chiese e monumenti furono distrutti “eliminando dalla città i ricordi alto-medievali e creando una forte presenza del romanico, lo stile della ricostruzione”. Anche la chiesa di San Giovanni in Valle venne rasa al suolo ma nel 1120 fu la prima ad essere ricostruita, con le forme attuali. In origine era stata edificata nel VI secolo sopra un’area sepolcrale di epoca romana divenuta cimitero paleocristiano, divenendo una sorta di seconda cattedrale cittadina quando Goti e Longobardi dominavano la città. Nel XII secolo venne realizzata anche La Collegiata, una sorta di seminario che ospitava gli aspiranti sacerdoti e che oggi funge da canonica della chiesa; un edificio semplice e anonimo a vedersi che però, con i suoi 900 anni, è la casa abitata più antica della città. La facciata della chiesa è in tufo, divisa verticalmente in tre sezioni che corrispondono alle navate interne. E’ semplice e quasi priva di decorazioni: solo un fine ricamo con archetti pensili, una bifora e due piccole finestre laterali circondano il leggero protiro pensile che poggia su minute colonne in marmo rosso e protegge una Madonna affrescata (opera di Stefano da Verona: Madonna con il Bambino, attorniata dai Santi Bartolomeo e Antonio Abate).

Sul fianco destro della chiesa sono visibili il Chiostro Romanico, con archi a tutto sesto e colonnine in marmo abbinate, ed il piccolo campanile quadrato, romanico nella parte inferiore e settecentesco in quella superiore. L’interno è basilicale, con tre navate absidate divise da un’alternanza di pilastri ed esili colonne di marmo rosso con capitelli corinzi; sulle pareti lacerti di affreschi del XII-XIV secolo e un bel tabernacolo del tardo quattrocento. Particolare attenzione meritano il Battistero ottagonale in marmo greco, il settecentesco Altare Maggiore in stile barocco e il San Giovanni Battista dipinto da Felice Brusasorzi che è conservato nella sacrestia. Notevole la cripta presente nei sotterranei della chiesa ed accessibile da due ingressi posti ai lati della scala che conduce al presbiterio. E’ divisa in due parti, che corrispondono a differenti epoche di realizzazione: la parte anteriore è a pianta quadrata e contiene otto colonne reimpiegate del IX secolo, mentre la parte posteriore è romanica (XII secolo) con le tradizionali tre navate. In questa parte del tempio sono custoditi due sarcofaghi in marmo greco di pregevole fattura: quello sulla sinistra è un Sarcofago paleocristiano del IV secolo scolpito con scene di ispirazione biblica, che secondo la tradizione ospita le reliquie dei santi Simone e Giuda Taddeo; quello di destra è pagano (III secolo) ed era la tomba di una coppia di sposi, raffigurati al centro di una elaborata conchiglia sotto cui è rappresentata una scena agreste.

SAN ZENO

I primi otto Vescovi di Verona:

  1. Euprepio         –   (72?-112?)
  2. Dimidriano     –  (112?-173?)
  3. Simplicio         –  (173?-234?)
  4. Procolo            –  (235?-304?)
  5. Saturnino        –  (304-330)
  6. Lucilio              –  (330-356)
  7. Cricino             –  (357-362)
  8. Zeno                 –  (362-380)

La terra d’origine di S. Zeno non è mai stata accertata. Per il Versus de Verona, l’antico documento di storia cittadina, S. Zeno era di origine africana. Secondo la liturgia veronese l’8 dicembre del 362 è la data dell’ordinazione episcopale di Zeno. San Cricino, dottore e settimo vescovo, era morto e infuriava la persecuzione di Giuliano l’Apostata. La circostanza suggeriva l’urgenza della nomina. Sulla via dei sepolcri, nel pomerium, dunque, e non lontano dall’Adige, sul luogo ove morì l’ottavo vescovo di Verona, fu eretta nei primi secoli cristiani una chiesa, o meglio, un modesto oratorio. Per quanti anni esso avesse servito i fedeli non è dato sapere, forse neppure lo spazio di un secolo, certo è che la chiesa fu ricostruita e ampliata. Sulle fondamenta di questa chiesa, quella che Gregorio Magno ricorda salvata per evento miracoloso durante l’inondazione del 589, quando tutta la città fu sommersa dalle acque e i suoi edifici in gran parte distrutti, su questi resti, promossa dal vescovo Raterio, tra l’804 e l’806 si edificò la nuova basilica di San Zeno, auspice il re dei Franchi, Pipino ed esecutore l’arcidiacono Ireneo Pacifico, figura poliedrica versata nell’architettura, scultura, lettere, etc. (a 25 anni fu nominato arcidiacono e diresse la Schola sacerdotum, il più importante centro culturale della regione (la sua opera si individua anche nell’edificazione o riedificazione di fabbriche come S. Procolo, S. Pietro in Castello, S. Lorenzo, S. Vito, la Capitolare di S. Giorgio e S. Elena; morì il 23 novembre dell’844).

La prima chiesa fu eretta poco dopo la morte del patrono avvenuta il 12 aprile del 380; la seconda è documentata nel VI secolo; la terza chiesa è la celebre fabbrica sorta con gli auspici di re Pipino, progettata dall’arcidiacono Pacifico; la quarta si può definire l’attuale iniziata nel X secolo dal vescovo Ratoldo e terminata tardivamente dopo due distinti momenti.

L’8 dicembre dell’806 ebbe luogo la cerimonia della consacrazione della basilica, re Pipino, figlio di Carlo Magno il più grande sovrano del Medioevo, volle dotare l’abbazia di cospicui beni, tra cui l’evangelario scritto e ornato d’oro e di pietre preziose (tesoro della cattedrale di Nancy). Il 21 maggio 807 ebbe luogo la traslatio (traslazione) del corpo di San Zeno fatta dai santi eremiti Benigno e Caro, dove le spoglie del patrono di Verona furono trasportate nella nuova basilica consacrata a S. Zeno. A questo evento partecipò una gran folla, il re Pipino (morto a Milano nell’810), i vescovi di Verona Ratoldo, di Cremona e di Salisburgo.

Fra l’anno 893 e 906 gli Ungheri invasero Verona e rovinarono le chiese dei sobborghi della città fra cui S. Zeno. Sconfitti da Ottone I, nel 955, gli Ungheri si ritirarono nella pianura danubiana che prenderà il nome di Ungheria dove si insedieranno definitivamente dopo il Mille. L’edificio di mole grandiosa fu compiuto nell’arco di due secoli, sovvenzionato da devoti, da regnanti come Rodolfo re d’Italia (924) ed Ugo re d’Italia (926) e particolarmente da Ottone I che lasciando nel 967 Verona, di cui era stato a lungo ospite, lasciò al vescovo Raterio una cospicua somma di denaro per il completamento della basilica di San Zeno. Ma all’epoca la costruzione non fu terminata. Verosimilmente con l’intervento del vescovo Raterio, che concluse il suo episcopato nel 968, ebbe termine la prima fase dell’edificazione di S. Zeno. Secondo alcuni studiosi questa prima fase sarebbe terminata solo nel XII secolo, quando la basilica fu abbellita di superbi lavori scultorei e pittorici. Il protiro e i riquadri attorno al celebre portale sono del XII secolo, la parte superiore della facciata è successiva giacché vi lavorarono Brioloto de Balneo nel 1275 e Adamino. Fra il 1386 e il 1398 Giovanni e Nicolò da Ferrara progettarono e diressero la riedificazione dell’abside maggiore che assunse forme gotiche. Il grande rosone romanico è opera dello stesso Brioloto.

Il campanile che si erge alto e slanciato sul lato meridionale della basilica, con i suoi due ordini di eleganti trifore, con la sua grande pigna che ha attorno quattro pinnacoletti, fu iniziato, cosi dice una iscrizione alla base, nel 1045 dall’abate Alberico.

Sul portale le famosissime formelle di bronzo fuse in epoche diverse, tra l’VIII ed il IX secolo; in tutto 48 (24 su ciascun battente) e rappresentano scene dell’Antico Testamento (10 formelle) e (17 formelle) del Nuovo Testamento, i Miracoli di San Zeno e Pròtome (busti) umane e leonine. Il tutto collegato da cordonature finemente decorate, con borchie a forma di testine. Sul bordo del battente destro compaiono sei figure di Santi e quella di uno scultore; su quello del battente sinistro, invece, sono visibili 17 formelline con immagini di Re, Imperatori e Virtù. La rappresentazione dei bronzi è incompleta poiché alcune formelle sono andate perdute verosimilmente durante la seconda metà del XVIII secolo, quando il complesso monastico cadde in abbandono. A causa del terremoto del 1117, che distrusse la chiesa, molte formelle vennero rimosse dalla loro posizione originale per far spazio ad altre provenienti da un altro portale. L’integrazione venne completata da uno scultore della cerchia del Brioloto operante in San Zeno nella seconda metà del XII secolo. Le quattro formelle con gli episodi della vita di San Zeno sono di questo periodo. Le formelle più antiche sono infisse sul battente di sinistra. La lunetta del portale di S. Zeno, opera di Niccolò (XII sec. ) è un’allegoria che indica la nascita del Comune ed il suo antico vessillo, la croce d’oro in campo azzurro.

Interpretazione del Portale di San Zeno

Battente di Sinistra – (ordine di lettura dall’alto verso destra)

1) Annunciazione
2) Natale – Epifania
3) Fuga in Egitto
4) Cacciata dal Tempio
5) Battesimo – Adultera
6) Gesù tra i dottori
7) Ingresso in Gerusalemme
8) Lavanda dei piedi
9) Ultima cena
10) Arresto di Gesù
11) Via crucis
12) Gesù davanti a Pilato
13) Flagellazione
14) Crocifissione – deposizione
15) Maria al Sepolcro
16) Discesa all’inferno
17) Gloria di Cristo
18) Mascherone
19) Decapitazione di Giovanni
20) Danza di Salomè
21) Salomè porta la testa del Battista a Erodiade
22) Le due madri
23) Cacciata dall’Eden
24) Primi lavori – fratricidio

Battente di Destra – (ordine di lettura: dall’alto verso destra)

25) Creazione – tentazione
26) Condanna
27) Cacciata dall’Eden
28) Caino e Abele – fratricidio
29) Arca di Noè
30) Ebbrezza di Noè condanna di Cam
31) Promessa di Dio a Abramo
32) Abramo e i tre angeli: Agar – Sara e Abramo
33) Sacrificio di Isacco
34) Tavole della legge – Verga fiorita di Aronne
35) Morte dei primogeniti – Mosè e il faraone
36) Serpente di bronzo
37) Balaam
38) Stirpe di Jesse
39) Salomone
40) Mascherone
41) San Zeno e Gallieno
42) Liberazione dell’ossessa
43) Nabucodonosor
44) Il carrettiere salvato
45) San Zeno e Gallieno
46 Sacrificio di Isacco
47) Arca di Noè
48) L’arcangelo Michele vince il drago

La cripta della basilica di San Zeno, ampia quanto la navata maggiore, ultimo avanzo della fabbrica di età franca, è coperta da volte sostenute da 49 colonne con capitelli d’epoca romana e romanici. Nel 1446 ebbe luogo il suo restauro e la modificazione delle strutture murarie, con la ricostruzione con volte a crociera della copertura del sotterraneo. In un sarcofago della cripta si conservano le spoglie dell’ottavo vescovo di Verona, cui sono affiancate le are con le reliquie di S. Euprepio, primo vescovo di Verona, di Procolo, Lucillo e Cirino, di S. Agabito, di S. Lupicino ed un’urna dedicata ai santi Cosma e Damiano.

Il Chiostro di San Zeno, senza dubbio il più bello di Verona, è romanico, del XII secolo (probabilmente rimaneggiato nel XIV), di forme armoniose, fra le più perfette di quest’epoca. Accanto al chiostro si erge la massiccia torre dai merli ghibellini, eretta nel 1145.

Il campanile che si erge alto e slanciato sul lato meridionale della basilica, con i suoi due ordini di eleganti trifore, con la sua grande pigna che ha attorno quattro pinnacoletti, fu iniziato, cosi dice una iscrizione alla base, nel 1045 dall’abate Alberico.

L’abbazia di San Zeno ebbe ospiti illustri per quasi dieci secoli, fino a quando il senato della Dominante nel 1770 ne decise la soppressione. Nel 961 fu tenuto un Concilio provinciale con il patriarca di Aquileia per dare norme alla disciplina del clero. Ottone II qui nel 983 radunò la grande Dieta di principi italiani e stranieri e si sancirono delle Costituzioni denominate Decreti dei Comizi veronesi. Qui alloggiarono papi, vescovi, imperatori e re. Ottone I, il Grande, nel 961 ci albergò con la sua sposa Adelaide, la già prigioniera della Rocca di Garda. L’imperatore Enrico II con Cunegonda sua sposa qui sostò il 21 maggio 1014 e il 6 dicembre 1021. Dalla sua torre uscì, nel 1164, il carroccio della Lega veronese per andare coi veronesi alla vittoria di Vaccaldo. Qui il Barbarossa nel 1184 conclusa la pace di Costanza, tenne assemblea. Ben quattro volte qui venne Federico II con il suo ministro Pier della Vigna, nel 1236 solennemente accolto da Ezzelino da Romano, a cui sposò nel 1238 sua figlia Selvaggia.

Qua vennero di certo a pregare i papi Leone IX, che reduce dalla Baviera celebrò il Natale a Verona. Lucio III, poi sepolto in Duomo, e Urbano III che eletto da un conclave tenutosi a Verona nel 1185 rimase pacificatore d’anime per oltre venti mesi nella città. Qui Dante venne e colse ispirazioni dai bronzi, da scritte, da tombe per le sue composizioni.

PIAZZA ERBE

Nell’attuale Piazza delle Erbe e nelle sue adiacenze, per un’area di quindicimila metri quadrati, già in età repubblicana era il Foro di Verona. L’attuale lunghezza della piazza corrisponde a quella antica che era di centoquaranta metri. La larghezza è andata riducendosi per l’erezione di edifici in epoca moderna, che conferiscono all’area una forma irregolare, quando sappiamo che il Foro costituiva un rettangolo. Non è dato sapere quando i templi pagani furono eretti intorno ad esso ma è accertato che qui sorgeva il luogo sacro della città romana. Nel Foro si ergevano monumentali edifici di rito e pubblici tra i quali il Capitolium, privilegio di poche città del mondo romano, col tempio dedicato alla triade capitolina, Giove, Giunone e Minerva. L’area del Foro era certamente attorniata da imponenti edifici tra i quali primeggiava, per sontuosità, il suddetto Capitolium, ove si veneravano le divinità tutelari dello stato romano. Considerando le analogie con altri importanti città romane, sul lato opposto dovevano erigersi il Comitium ove avevano luogo le adunanze del popolo e la Curia, luogo questo di riunioni del consiglio municipale, poi gli archi ornamentali del Foro che come riportato nel Versus Veronensis, erano posti in quator cantus.

Piazza Erbe è una delle piazze più famose del mondo per la sua originalità, per la sua varietà, per il suo smagliante colore. Cominciando a guardarla dal punto migliore, dalla parte cioè di via Cappello, a sinistra alte e un po’ cupe, le case del vecchio “Ghetto” degli ebrei cui segue la facciata di mattoni con portico, finestre bifore e merli “ghibellini” della “Casa dei Mercanti” (l’antica Domus Mercatorum) costruita nel 1301, riveduta e corretta in epoca rinascimentale, e malamente impasticciata nell’Ottocento da qualche maniaco del “falso medioevo). Nel successivo “slargo”, la Piazzetta XIV Novembre, con il monumento che ricorda la brutta mattina del 1915, quando piovvero le bombe austriache, facendo qui una strage. La piazza, da questo punto, tende a restringersi seguendo la leggera curva delineata da una fila di simpaticissime case tutte diverse tra loro, con lunghi balconi, altane, ecc. In fondo, una torre rossa con copertura a campana, merli e orologio: è la “Torre del Gardello”, che venne costruita prima dell’avvento della signoria scaligera, fatta poi restaurare da Cansignorio della Scala nel 1363 e nel 1370 vi venne collocata una campana, che rintoccava ogni ora: andava a battere le ore un orologio a campana, posto internamente.

Nel 1421 iniziò la costruzione del quadrante esterno e di tutto il meccanismo per il movimento delle sfere. La campana venne fusa da un importante mastro veronese nel 1370. Si allinea con essa la fastosa e pomposa facciata del “Palazzo Maffei” del 1668, cosi “barocca” da lasciar intuire che si tratta di cosa venuta da fuori (il progetto, infatti, giunse da Roma); Bello perché vario, chissà com’era nei primi tempi, quando sopra il tetto c’era addirittura un magnifico giardino pensile con piante rare e fontane, il che spiega la presenza della balaustra di pietra con le statue di antiche divinità: Ercole, Giove, Venere, Mercurio, Apollo, Minerva (quella di Ercole è la più bianca di tutte perché fu scolpita in un marmo greco, il “pario”). Anche il cortile interno del Palazzo Maffei è molto bello, anche se trascurato; ma la cosa più interessante è il grande e originale scalone a chiocciola.

CASE MAZZANTI

Dall’altro lato le pittoresche “Case Mazzanti” con il lunghissimo terrazzo fiorito, e, sotto, i portichetti; purtroppo, quelli che furono i grandi affreschi cinquecenteschi commissionati da Matteo Mazzanti all’artista mantovano Alberto Cavalli con enormi figure allegoriche, lotte di Giganti, ecc., quasi del tutto scomparsi, sono stati recentemente restaurati . Un vicoletto coperto (un sottoportico) conduce di qua direttamente in Piazza dei Signori: fu chiamato il Vòlto Barbaro dal nome di un capitano veneto, e in quei paraggi era stato ucciso, il 26 ottobre 1277, Mastino della Scala. Continuando sul lato destro il Palazzo del Comune, che però da questa parte ha una facciata moderna, costruita nell’Ottocento dall’architetto Giuseppe Barbieri. Di qui balza in alto, forte, agile, orgogliosa dei suoi 83 metri, la Torre dei Lamberti. Questo lato della piazza è chiuso solennemente da un gigantesco torrione quadrato in mattoni sull’angolo del palazzo. Sul “marciapiedone” di pietra chiara della piazza, dalla parte di via Cappello, c’è un’agile colonna, o pilastro, di marmo veronese (la Colonna antica) con sopra una piccola edicola (casetta con colonnine e copertura a piramide); pare che sia del 1410, ed è molto graziosa e decorativa. Al centro della piazza una specie di gran baldacchino quadrangolare di pietra erroneamente chiamato Berlina (la berlina vera era dove si esponevano al pubblico i malviventi, era da un’altra parte); questo invece è il cosiddetto Capitello, dove di tanto in tanto mettevano in mostra le teste tagliate dei banditi ma che serviva soprattutto per la proclamazione dei Podestà e dei Magistrati: ancora oggi vi si conservano i campioni delle antiche “misure” veronesi (quelle cioè che indicano il peso, la larghezza, la lunghezza, la forma di certi tipi di merci in vendita). Accanto c’è l’Antenna veneta, quella che i Veneziani usavano piantare sulle piazze delle città a loro soggette per innalzarvi il gonfalone di San Marco. Ecco ora la “Signora del Mercato”, Madonna Verona. Una volta “madonna” voleva dire “signora”; e il significato di signora fu dato con questo nome anche alla statua romana posta in cima alla bella fontana che Cansignorio fece costruire in mezzo alla piazza nel 1368, quando inaugurò il nuovo acquedotto. La statua ebbe in seguito quella curiosa corona di ferro a punte aguzze, come si conviene a una regina. E da allora Madonna Verona fu veramente la regina della piazza, e un po’ anche della città, della quale è divenuta il simbolo e la personificazione.

Ha visto ore tristi e ore liete, e le sono fiorite attorno le più belle tradizioni popolari nel tempo in cui la gente, più semplice, si contentava di poco, e qui in piazza si accendevano luminarie, si cantava, si suonava e si ballava. Un poeta veronese dei nostri giorni, Giacomo Muraro scrisse questi versi:

“Madonna Verona la torna parona del nostro Marcà!
Regina de rassa, in mezo a la Piassa regnando la stà!”

Da ultimo il Leone, sulla grande colonna in fondo, fatta erigere in omaggio a Venezia nel 1553. Il primo Leone di San Marco era stato abbattuto dai “giacobini” al tempo dei francesi, nel 1797; ne fu rifatto un altro nel 1886, e rimesso solennemente al suo posto. In questa piazza c’era anticamente il centro della città romana, e precisamente il Foro. Da qui partivano a scacchiera le strade, disposte geometricamente attorno a due assi principali che nel Foro si incrociavano: il Decumano massimo (sulla linea degli attuali Corso porta Borsari e Corso Santa Anastasia) e il Cardo massimo (sulla linea delle attuali Via Sant’Egidio, Piazza Erbe, fino alla Porta dei Leoni). Attorno si estendeva ordinatissimo il reticolo, o scacchiera, di tutte le altre strade della città, secondo uno schema che riproduceva la pianta degli accampamenti militari dei romani. La scacchiera delle antiche strade romane è anche oggi in gran parte conservata e riconoscibile nella disposizione delle vie centrali di Verona: la quale, anche per questo, è una delle città più “romane” che esistano.

PIAZZA DEI SIGNORI

verona-17Questa splendida piazza era considerata un tempo il “salotto ” di Verona, qualcuno la chiama ancora cosi, per la sua nobiltà architettonica, per la sua aria raccolta, intima. Per entrare in questa piazza dalle strade che vi convergono si passa sotto cinque grandi archi; su quattro di essi sono poste le statue di grandi veronesi del passato: Scipione Maffei, Enrico Noris, Onofrio Panvinio e su quello di via Fogge (strada che ricorda col suo nome le botteghe dei sarti che qui stavano anticamente), c’è il grande medico e letterato Girolamo Fracastoro, con in mano un globo, “la bala“, una palla da tirare in testa, dice la tradizione, al primo galantuomo che passa li sotto. In mezzo alla piazza c’è la bella statua di Dante Alighieri, opera dello scultore Ugo Zannoni, inaugurata nel 1865 quasi a dispetto degli austriaci che ancora occupavano la città (Dante è sempre stato considerato un simbolo di italianità).

PALAZZO DEL COMUNE

Entrando in Piazza dei Signori da Piazza Erbe passando sotto l’arco della Costa (“còsta“, probabilmente una costola di una balena), sulla destra si trova il “Palazzo del Comune” o “del Podestà” che occupa tutto il “quadrilatero”. Un edificio massiccio iniziato nel 1193 e caratterizzato da file alternate di mattoni e di tufo, con belle finestre trifore al piano superiore. La facciata mostra le trasformazioni avvenute nei secoli e si nota il “Leone di San Marco” scalpellato, semi distrutto dai francesi perché la repubblica veneta aveva osato opporsi a Napoleone. Il motivo della facciata si ripete identico, con l’aggiunta di grandi loggiati dai potenti archi romanici, all’interno del “Cortile del mercato Vecchio”, uno dei più splendidi cortili del Medioevo italiano (vi si teneva il mercato dei grani). È un insieme, per armonia di forme e di colori che si può definire perfetto, con le sue strisce chiare e scure sui muri (zebratura). Un insieme dominato dalla superba visione, dal basso, della Torre dei Lamberti.

TORRE DEI LAMBERTI

Iniziata nel 1172, innalzata poi in fasi successive, come mostrano i vari sistemi di muratura (dalla zebra gialla e rossa , al mattone e al marmo), è alta 83 metri. Prima che fosse completata la cella campanaria ottagonale, si arrivò al 1464. Vi sono due famose campane che accompagnano la vita dei veronesi con i loro rintocchi: il Rengo che anticamente chiamava a consiglio o alle armi i cittadini; la Marangona, per chiamarli al lavoro. Il grande orologio fu collocato sulla torre nel 1779, quando smise di funzionare quello del Gardello. Questo lato della piazza è chiuso solennemente da un gigantesco torrione quadrato in mattoni sull’angolo del palazzo.

SCALA DELLA RAGIONE

verona-20Scala della Ragione

All’interno del cortile una scala di marmo, originale ed elegante fatta costruire dai governanti veneziani fra il 1446 e il 1450, porta al primo piano del palazzo dove una volta c’erano anche le prigioni e fino a qualche anno fa aveva sede la Pretura.

PALAZZO CANSIGNORIO O DEL CAPITANIO

verona-21Un arco collega l’edificio col vicino Palazzo del Capitano. Sull’angolo del palazzo un alto torrione merlato fatto costruire, sembra da Cansignorio della Scala. La facciata del palazzo è Cinquecentesca, anche se l’edificio è molto più antico; anche il cortile interno ha un aspetto diverso da quello che doveva avere in origine. Di età successiva è la stranissima Porta Bombardiera, il più singolare dei monumenti barocchi esistenti a Verona.
Fu costruita nel 1687 per conto del Corpo dei Bombardieri accasermati vicino, da un tal Miglioranzi. Nel portico che segue vi è posta una iscrizione che ricorda una spaventosa invasione di cavallette: “1542 adì 28 de Avosto vene le chavalete in queste paese, maro (mangiarono) tutte le erbe, el meio (miglio) et panico.Vene tate (vennero tante) che scurea el sole“.

LOGGIA DI FRA’ GIOCONDO O DEL CONSIGLIO

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È il gioiello di Piazza dei Signori. Detta anche Loggia di Fra’ Giocondo perché un’antica tradizione attribuisce il disegno di questo elegantissimo edificio al “padre dell’architettura veneta”, l’architetto – umanista Fra’ Giocondo. Si conoscono altri artisti che lavoravano, fra il 1476 e il 1495, alla costruzione e alla finissima decorazione della Loggia (Domenico da Lugo, Matteo Pànteo, Maestro Modesto), nonché dello scultore Alberto da Milano che eseguì le statue di grandi veronesi in piedi sul cornicione; da sinistra: Catullo, Plinio, Macro, Vitruvio, Cornelio Nepote (in verità non tutti sono veronesi). Più che il nome degli autori, resta il miracolo di queste linee armoniose, della grazia e della leggiadria dell’insieme e dei particolari, della musicale successione degli archi, delle proporzioni perfette che fanno di questa Loggia l’edificio più toscano dell’Italia Settentrionale. In più c’è il colore raffinato, prezioso, che brilla nei medaglioni, nei riquadri, nei marmi veri e finti che ornano la facciata. Sulla porta d’ingresso è incisa la frase latina che consacra la fedeltà di Verona a Venezia, che è poi divenuta il motto del Comune di Verona: “Pro summa fide summus amor. MDXCII – Alla più grande fedeltà corrisponde il più grande amore. 1592“.

REGGIA SCALIGERA

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Questo Palazzo degli Scaligeri, oggi sede della Prefettura, fu iniziato sul finire del Duecento ma ripetutamente mutato nei secoli; la facciata principale sulla piazza, in particolare, deve in buona parte il suo aspetto attuale a restauri abbastanza recenti. Qui fiorì la splendida Corte degli Scaligeri che ebbe il suo momento più felice durante il breve ma fortunato regno di Cangrande I. La dinastia degli Scaligeri ha inizio con Mastino della Scala, eletto podestà di Verona da Ezzelino da Romano nel gennaio 1259.
La Signoria della Scala, una delle maggiori d’Italia durerà fino al 1387 (128 anni), quando Antonio della Scala, sconfitto da Gian Galeazzo Visconti, abbandona Verona (18 ottobre 1387) per rifugiarsi a Venezia. Sotto il vasto e severo loggiato all’angolo del palazzo, è posta una lapide con incisi alcuni famosissimi versi:

“Lo primo tuo refugio, il primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che ‘n su la scala porta il santo uccello”.
(Paradiso – Canto XVII)

Sono i versi del sommo poeta Dante quando immagina che un suo antenato, Cacciaguida, gli annunci profeticamente l’esilio, e poi il conforto e l’aiuto che gli saranno dati dal principe scaligero (il “gran Lombardo” che ha come stemma la scala, sormontata dall’aquila imperiale, appunto il “santo uccello”). Dante riconoscente dedicò a Cangrande “magnifico e vittorioso signore” la terza Cantica del Paradiso. Vi sono anche aneddoti popolari che circondano il soggiorno di Dante alla corte scaligera, uno dei quali è sintetizzato in poesia da Massimo Spiritini:

“Per goder qualche replica piccante,
Can Grande, un giorno, comandò a un valletto
che, occultamente, l’ossa del banchetto
fosser tutte ammucchiate ai pié di Dante.
Riser, tolte le mense, i Cortigiani.
Non rise Dante, e commentò ispirato:
“C’è da stupir se i Cani
tutte que l’ossa non han mangiato?…
ma io “cane ” non sono”.

Comunque Cangrande, il temuto e glorioso condottiero, conquistatore di Vicenza, Padova e Treviso, fu veramente amico di Dante e protettore di letterati e di artisti; la sua Corte, famosa in Europa, era divenuta luogo d’incontro di personaggi illustri d’ogni Paese. Il bel portone cinquecentesco è opera del famoso architetto veronese Michele Sanmicheli (1484 -1559), autore di altre opere monumentali della città (Porta Nuova, Porta Palio, e gli splendidi palazzi Canossa, Pompei, Bevilacqua). Il Leone di San Marco posto sopra il portone, invece, è moderno, posto a ricordo di un altro abbattuto nel 1797 durante l’occupazione francese; francesi che in quel periodo cambiarono anche il nome alla piazza, da Piazza dei Signori a Piazza Nazionale.

LE ARCHE SCALIGERE

verona-24Uno dei monumenti più caratteristici di Verona e, in assoluto, una delle espressioni più elevate e singolari dell’architettura e scultura gotiche. Qui dentro, nel piccolo cimitero di marmo, è sistemata per l’eternità tutta la discendenza scaligera, i grandi e i meno grandi, i buoni e i cattivi, nei sarcofagi a terra e nelle spettacolose e fantastiche tombe “aeree”. Meno uno, il più grande e valoroso: Cangrande I della Scala, morto per una banale malattia alle porte di Treviso il 22 luglio 1329. Un recinto dalla preziosa cancellata di ferro battuto racchiude il cimitero degli scaligeri, sovrastato dalle tre arche di Cangrande (sulla fiancata della chiesetta romana di Santa Maria Antica), adorna di preziose sculture illustranti le sue vittorie, con su quell’altissimo baldacchino a piramide che regge la statua (l’originale è in Castelvecchio); quella di Mastino II (morto a 44 anni il 3 giugno 1351, che si fece costruire in vita il suo sepolcro, e, morente, lascia il dominio ai tre figli Cangrande II, Cansignorio e Paolo Alboino); poi quella di Cansignorio (morto a 36 anni il 19 ottobre 1375). La tomba di Mastino II viene eretta nel 1340-1350, è sollevata dal suolo mediante quattro robuste colonne; il sarcofago finemente scolpito a rilievo e recante l’immagine del defunto è fiancheggiata da quattro angeli e protetto da un baldacchino a tronco di piramide con cimàse (cornice sporgente) anch’esse scolpite. Le tombe sono sormontate dalle statue equestri, in tal modo i principi sonno innalzati al di sopra della vita terrena e dei comuni mortali. L’arca di Cansignorio, eretta nel 1370 circa, benché simile alle altre due, è la più ricca e fastosa, per l’esuberante e quasi eccessiva decorazione marmorea. Cansignorio, un principe ambizioso, crudele e sanguinario; il 14 dicembre 1359 uccide il fratello Cangrande II presso S. Eufemia.

SANTA MARIA ANTICA

Nella piazzetta sulla sinistra, angolo tra i più suggestivi della città, sono presenti le monumentali tombe degli Scaligeri. Qui un massiccio recinto in pietra veronese sovrastato da una trecentesca cancellata in ferro battuto racchiude un sepolcro privato, gotico e scenografico, che conserva i sarcofagi di Alberto I, Alboino, Bartolomeo, Mastino I, Cangrande II e le due tombe marmoree a baldacchino di Cansignorio e Mastino II. L’interno della chiesa è BASICALE e AUSTERO, ripartito su tre navate, divise da due serie di sette colonne in pietra rossa con capitelli squadrati e archi a sesto rialzato, che terminano in altrettante piccole absidi ricavate nello spessore del muro. Le absidi laterali sono decorate con fasce alternate di mattoni rossi e tufo, mentre nell’abside centrale rimango alcuni pregevoli lacerti di affreschi trecenteschi. Pur scevre di particolari opere d’arte, le nude pareti conservano due interessanti lapidi marmoree: accanto alla porta che conduce alla sacrestia una lapide del XII secolo ricorda la consacrazione della chiesa ad opera del patriarca Gotifredo (A. MCLXXXV INDICIT. DIE SABATI IX INTRANTE NOVEMB DOM. PTRIARCA GOTIFREDUS QUILE-IENSIS DEDICAVIT ECCLESIAM – SANCTE MARIE ANTIQUE). Sulla parete di sinistra una lapide del quattrocento elenca le incredibili reliquie che sarebbero conservate nell’altare maggiore e celebra la presunta consacrazione dello stesso ad opera di papa Alessandro III. Accanto all’altare una piccola botola protegge un frammento della antica pavimentazione a tessere bianche e nere che apparteneva alla preesistente chiesa di epoca longobarda.

CASTELVECCHIO

Al centro svetta l’alta torre principale (la Torre del Mastio) da cui si slancia sul fiume il ponte Scaligero, a tre arcate, fortificato e merlato, che integra il sistema difensivo del castello, costituendo un magnifico esempio di ingegneria trecentesca. Sul lato destro della struttura è presente un grande cortile di pianta rettangolare, originariamente destinato a piazza d’armi; al centro è situata una curiosa fontanella a forma di cane, simbolo scaligero di fedeltà. Varie ed alterne furono le vicissitudini del castello, spesso impiegato come fortezza. Sotto la dominazione veneziana fu destinato ad arsenale e guarnigione; durante l’occupazione napoleonica venne modificata la struttura e costruito il corpo di fabbrica lungo il fiume; con gli austriaci fu utilizzato come caserma per le truppe di occupazione. Nel 1923 divenne museo, sede delle civiche raccolte d’arte, al tempo ospitate a Palazzo Pompei, e sottoposto a un primo restauro. Nel 1943 ospitò il Processo di Verona con il quale vennero condannati a morte Galeazzo Ciano e i gerarchi fascisti che avevano fatto deporre Benito Mussolini, e sul finire della guerra venne danneggiato dai bombardamenti degli angloamericani. Dal 1958 al 1964 la fortezza di Castelvecchio è stata oggetto di un nuovo restauro e di un riallestimento museale curato dal grande architetto veneziano Carlo Scarpa, che con il suo intervento ha portato alla luce le strutture originarie ovunque fosse possibile, liberandole dalle aggiunte ed evidenziando le stratificazioni successive. Un’opera di recupero in cui i materiali tipici della tradizione veronese, come le lastre in pietra di Prun, si alternano ai moderni acciaio e cemento, che sostengono e suturano le parti antiche. Il risultato è un “capolavoro della museografia italiana, con soluzioni validissime e imitate a oltre trent’anni di distanza”. Oggi Castelvecchio ospita anche la sede del Museo Civico di Verona con una pinacoteca, una galleria di sculture e una biblioteca d’arte, aperte al pubblico. Si tratta di una delle più importanti raccolte d’arte italiane.

CASA DI GIULIETTA

verona-28In via Cappello, che è una strada signorile con case e palazzi di mole e altezza diverse. Fra queste case ce n’è una famosa, molto alta e tutta mattoni, antichissima: è quella che la tradizione indica come la casa di Giulietta (cioè dei Capuleti: anche il nome della strada, è forse in relazione col nome di questa famiglia: Capuleti, Cappelletti, Cappello…). Sulla facciata c’è una lapide dell’Ottocento, molto romantica, la quale dice che da questa casa “uscì la Giulietta, per la quale piansero i cuori gentili ed i poeti cantarono”. Si entra in un bel cortile un po’ “addomesticato”, ma comunque molto suggestivo, probabilmente fatto ad arte per renderlo più “convincente”. In ogni caso quel balcone, vero o no, è soprattutto un simbolo: il simbolo di una delle più belle leggende, delle più poetiche storie che mai siano state scritte. E la poesia è sempre verità! Ciò non toglie che Verona sia universalmente conosciuta come “la città di Giulietta”, che anche nella nostra epoca disincantata arrivino una moltitudine di visitatori d’ogni paese a cercare la tomba famosa, a portare fiori, a farci sopra giuramenti d’amore.
Il merito maggiore, in questa vicenda, e di quel grandissimo poeta inglese che fu William Shakespeare il quale, nella sua famosa tragedia “Romeo and Juliet”, rese immortali i due sventurati amanti e la loro città (inizia cosi:
Nella bella Verona…“. Il primo però a far conoscere al grande pubblico la pietosa vicenda dei due ragazzi veronesi, fu il vicentino Luigi da Porto in una sua novella pubblicata nel 1532; segui di li a poco, nel 1554, l’altra novella di Matteo Bandello; poi della storia s’impadronì finalmente Shakespeare e quando il genio s’impadronisce di una cosa, sia storia o leggenda, la rende immortale.

Questa è la famosa storia di “Giulietta e Romeo”: “A Verona, al tempo di Bartolomeo della Scala (1290), esistono due famiglie nemiche, i Capuleti e i Montecchi. Romeo (Montecchi) conosce a una festa Giulietta (Capuleti); i due giovani si innamorano perdutamente l’uno dell’altra e decidono di sposarsi segretamente, con l’aiuto di frate Lorenzo, nel convento dei Cappuccini. Ma Romeo, durante una rissa, uccide Tebaldo, nobile Capuleti, e il principe lo bandisce da Verona. Il giovane si rifugia a Mantova; intanto Giulietta è costretta dal padre a passare a nozze col principe Paride: per non sottostare a quest’obbligo crudele non può far altro che bere una specie di filtro magico, avuto dal solito frate Lorenzo, che le darà morte apparente. Tutti credono che Giulietta sia morta davvero; la giovane è deposta nella tomba di famiglia. Intanto frate Lorenzo, spedisce a Mantova un messaggero per avvertire Romeo dell’accaduto; ma per fatale coincidenza, il messaggio non giunge a Romeo. Il giovane Montecchi sente dire per caso che Giulietta è morta, e, disperato, parte a briglia sciolta per Verona, non senza essersi prima procurato un potentissimo veleno. Romeo giunge trafelato a Verona, si precipita nel sepolcro, vede l’amata Giulietta inanimata, la crede morta; lacerato dal dolore, beve il veleno e muore. Giulietta intanto si sveglia, invoca Romeo, poi lo scorge li a terra, ormai senza vita: disperata, afferra il pugnale dell’infelice amante, se lo conficca nel petto e muore. Accorre gente, ma troppo tardi. Lacrime, disperazione, pentimento. Il principe della Scala (Escàlo, nella tragedia di Shakespeare) accenna ad un giusto castigo divino, i Capuleti e i Montecchi si riappacificano; il vecchio Montecchi promette di far erigere una statua d’oro alla fedele Giulietta”.

Scriveva Heine: – “Un poeta visita sempre simili luoghi – anche se sarà il primo a sorridere della credulità del suo cuore”;

T. Gauthier: – “Verona della quale non si può pronunciare il nome senza pensare a Romeo e Giulietta“;

E Chateaubriand, Verona, 1822): – “Nessun viaggiatore mai udrà cantare l’allodola sui campi di Verona senza ricordarsi di Shakespeare”.

PIAZZA BRA

I Portoni

verona-30Entrando da Corso Porta nuova si passa sotto una vera e propria porta di città, anzi una doppia porta, imponente, monumentale, i Portoni appunto, con tanto di merlatura e di torre a fianco, la Torre Pentagona, che faceva parte della Cittadella eretta da Gian Galeazzo Visconti sul finire del Trecento. È un ingresso di lusso, una sorta di arco di trionfo che sembra messo apposta per far capire che si entra in una città speciale. Il grande orologio dei Portoni fu donato dal conte Nogarola nel 1872. Dalla parte dei Portoni della Bra, invece, visibile a coloro che escono, è murata un’altra lapide scespiriana, precisamente quella che reca inciso il disperato grido di Romeo cacciato da Verona:

“Non c’è mondo fuori dalle mura di Verona,
ma purgatorio e torture: l’inferno.
Bandito da qui, vuol dire andare bandito dal mondo;
E bandito dal mondo vuol dire morte”.
(Shakespeare, Romeo e Giulietta, Atto III, Scena III)

PALAZZO DELLA GRAN GUARDIA

Il Palazzo a destra è il Palazzo della Gran Guardia, così detto perché vi stazionava un corpo di guardia militare; Iniziato nel 1610 su disegno dell’architetto Domenico Curtoni, nipote del Sanmicheli: si compone di due soli piani, ma altissimi e vastissimi, con un immenso porticato alla base. La Gran guardia fu terminata solo nel 1821 dopo che per oltre due secoli era rimasta incompleta al piano superiore. Oggi è diventata una specie di Palazzo dei Congressi e vi si tengono manifestazioni, riunioni, convegni, mostre, ecc.

Palazzo del comune – Municipio

Subito dopo, verso Via degli Alpini e Via Pallone, si vedono le “Mura Viscontèe” che si prolungano fino all’Adige. Poi il Municipio, o Palazzo del Comune (già Gran Guardia Nuova) detto anche Palazzo Barbieri, dal nome dell’architetto che lo eseguì nel 1838 nel luogo già occupato dal vecchio Ospedale della Misericordia. Le proporzioni dell’edificio si adeguano all’immensità della piazza; l’architettura è in stile neoclassico, secondo il gusto dell’epoca, col grande colonnato in cima alla scalinata e il timpano (o frontone) triangolare; la parte posteriore, semicircolare, è stata costruita nell’ultimo dopoguerra. Il Comune vi si trasferì definitivamente nel 1874, dopo che Verona era diventata italiana.

I giardini non esistevano prima del 1878, quando furono costruiti attorno al nuovo monumento a Vittorio Emanuele II dello scultore Borghi: fino ad allora la piazza era in realtà un’immensa spianata dove facevano un tempo le loro evoluzioni le truppe della Repubblica Veneta, e fu anche sede di una Fiera; al centro sorgeva una grande statua di Venezia, che fu distrutta nel 1797 all’epoca dei francesi. Oltre alla statua del “Re Galantuomo” come lo chiamavano gli italiani di allora, i giardini ospitano il Monumento al Partigiano eretto a ricordare i Caduti nella guerra di Liberazione, opera dello scultore Mario Salàzzari ispiratosi chiaramente al David di Michelangelo, perché anche la meravigliosa statua del grande Buonarroti fu concepita come simbolo di libertà, e per questa ragione i fiorentini l’avevano messa, nel 1505, davanti al loro Palazzo Vecchio.

La Fontana al centro del giardino, una gran vasca circolare, in mezzo alla quale emerge un curioso isolotto di marmo rosso veronese, con tante cime aguzze che rappresentano, nell’intenzione dello scultore Konstantin Frick, la catena delle Alpi: sul lato sud lo stemma di Verona, su quello nord quello di Monaco di Baviera. È un dono fatto nel 1975 dalla città di Monaco per ricambiare quello della statua di Giulietta (copia di quella posta nel cortile della casa di Giulietta) fatto l’anno prima da Verona.

Dalla parte invece del “Listón” il celebre “marciapiedone” o platea che dir si voglia, fu cosi sistemato nel 1770. Il palazzo che fa angolo con Via Roma è il Palazzo Ottolini-Vaccari, architettura ispirata ai modelli sanmicheliani, eretto nel 1774 su disegno di M. Castelluzzi; più avanti la rossa facciata rinascimentale del Palazzo Guglienzi-Brognoligo, con un rimasuglio appena visibile di affresco e il “pontesel”, o balcone, con la ringhiera di ferro “panciuta” aggiunta nel Settecento (fatte cosi perché ci potessero stare le dame con le loro larghissime sottane di moda in quel tempo). Da quel balcone si affacciò Garibaldi l’8 marzo 1867 per proclamare che bisognava conquistare Roma, allora parte dello Stato Pontificio per farne la capitale d’Italia, al grido di “Roma o morte”. Al centro del Listón c’è il Palazzo Guastaverza (poi Malfatti), del più famoso degli architetti veronesi del Cinquecento e anche uno dei maggiori fra gli italiani di quell’epoca, Michele Sanmicheli, (qui dentro tra Sette e Ottocento, una coltissima dama veronese, Silvia Curtoni-Verza, tenne un famoso “salotto letterario). Fu anche uno dei più grandi e geniali architetti militari del suo tempo, progettò ed eseguì per conto della Repubblica Veneta le formidabili fortificazioni che ancor oggi circondano Verona, i famosi “Bastioni”. Nell’ultima casa del Listón, già della famiglia Rubiani, nacque nel 1808 e vi ha sede tuttora, la Società Letteraria.


Bibliografia:

  • Gianfranco Stella – Storia Illustrata di Verona – (Vol. I) Dalle Origini agli Scaligeri – SO.ED.E. – Gennaio 1992 (Pag. 323)
  • Gianfranco Stella – Storia Illustrata di Verona – (Vol. II) Dai Visconti al XX Secolo – SO.ED.E. – Febbraio 1993 (Pag. 318)
  • Il Pierino – a Cura di Renzo Chiarelli – Ed. Cassa di Risparmio di Verona Vicenza e Belluno – La Grafica e Stampa Vicentina – I Ed. 1979 (Pag. 288)
  • Luigi Simeoni – Verona – Guida Storico Artistica – Baroni Ed. 1976 – Pag. 537

 

L’Origine delle Specie

L’Origine delle Specie

L’EVOLUZIONE

(a cura di Bruno Silvestrini)

L’ORIGINE DELLE SPECIE

CHARLES ROBERT DARWIN

(Shrewsbury, 12 debbraio 1809 – Londra, 19 aprile 1882)

Nell’agosto del 1831, all’età di ventidue anni, ricevette una lettera che avrebbe sconvolto tutta la sua vita. Veniva dal suo amico e insegnante John Steven Henslow: “Mi è stato chiesto”, scriveva Henslow, “di dare il nome di un naturalista che possa viaggiare con il capitano Fitzroy, che ha avuto l’incarico da parte del governo di disegnare una carta geografica della punta meridionale dell’America. Ho dichiarato che io ti considero la persona più qualificata per assumersi quest’incarico. Per quanto riguarda la retribuzione, non so. Il viaggio durerà due anni…”. §La nave era il brigantino a tre alberi di Sua Maestà Britannica “Beagle“(Segugio). Salpò da Plymouth, con rotta verso il Sudamerica, il 27 dicembre 1831 e non ritornò in Inghilterra prima dell’ottobre 1836.

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I due anni diventarono cinque, ma il viaggio verso l’America Latina si trasformò in un giro del mondo. Si parla del viaggio di ricerca più importante dell’epoca moderna. Dal Sudamerica proseguirono attraverso l’oceano Pacifico verso la Nuova Zelanda, l’Australia e il Sudafrica. Da li salparono nuovamente verso il Sudamerica prima di tornare finalmente in Inghilterra. Un’importanza determinante ebbero i numerosi sbarchi sulle isole Galàpagos, nell’oceano pacifico a ovest del Sud America. Quando tornò a casa, sebbene avesse solo ventisette anni, era già un naturalista famoso. Nella sua mente aveva elaborato una teoria precisa che poi sarebbe diventata quella finale sull’evoluzione, ma passarono diversi anni prima che pubblicasse la sua opera principale: “L’Origine delle Specie” pubblicato nel 1839, che scatenò in Inghilterra accesi dibattiti. Il titolo completo era: “Sull’Origine delle Specie per selezione naturale ovvero sulla conservazione delle razze favorite nella lotta per l’esistenza”.

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Nell’ Origine delle Specie, Darwin espose due teorie principali. Affermò cioè che “tutte le piante e gli animali discendono da forme precedenti, più primitive-quindi c’è un’evoluzione biologica-e che quest’evoluzione è frutto della selezione naturale. L’ipotesi di un’evoluzione biologica aveva cominciato a diffondersi già all’inizio del XIX secolo. L’evoluzionista più influente fu lo zoologo francese Lamarck. Prima di lui il nonno di Darwin, Erasmus Darwin, aveva espresso l’opinione che tutte le piante e gli animali si fossero evoluti da poche specie primitive. Tuttavia nessuno aveva saputo fornire spiegazioni accettabili su come avvenisse l’evoluzione. Per questo motivo la Chiesa non li considerò nemici pericolosi. Per naturalismo si intende una concezione del mondo che non riconosce altra realtà al di fuori della natura e del mondo sensibile. Un naturalista vede l’uomo come una parte della natura e soprattutto vuole procedere partendo esclusivamente da fatti naturali, quindi senza ricorrere a speculazioni razionalistiche né a rivelazioni divine. I presocratici volevano trovare spiegazioni naturali ai processi naturali. Come essi dovettero liberarsi delle vecchie spiegazioni mitologiche, così anche Darwin dovette liberarsi della concezione della Chiesa sulla creazione degli uomini e degli animali. Darwin fu un biologo e un naturalista, ma fu lo scienziato che più di chiunque altro nell’epoca moderna sfidò la concezione biblica della posizione dell’uomo nel creato. Tra gli uomini di Chiesa e in molti ambienti scientifici ci si atteneva all’insegnamento della Bibbia, secondo la quale le diverse specie animali e vegetali erano fisse, immutabili: ogni singola specie era stata creata una volta per tutte attraverso un singolo atto creatore. E questa concezione cristiana era anche in armonia con le teorie di Platone e di Aristotele. La dottrina delle idee di Platone implicava che tutte le specie animali fossero immutabili perché create secondo il modello delle idee eterne. Che le specie animali fossero immutabili era anche un punto fermo nella filosofia di Aristotele. Ma, proprio all’epoca di Darwin, vennero fatti ritrovamenti e osservazioni che contribuirono a incrinare le concezioni tradizionali. Anzitutto ci furono numerosi ritrovamenti fossili e di resti di ossa appartenenti ad animali estinti.

Lo stesso Darwin si stupì di avere rinvenuto resti di animali marini nell’entroterra; in Sudamerica ne scoprì alcuni addirittura sulle Ande. Ma che ci facevano degli animali marini là in cima? La maggior parte dei geologi condivideva una “teoria delle catastrofi” secondo la quale la Terra era stata più volte colpita da grandi inondazioni, da terremoti e da altri cataclismi che avevano distrutto ogni forma di vita. Una di queste calamità è descritta nella Bibbia: il diluvio universale e l’arca di Noè. Dopo ogni catastrofe Dio avrebbe quindi rinnovato la vita sulla Terra creando specie animali e vegetali nuove e “perfezionate”. I fossili erano le impronte di precedenti forme di vita che erano state distrutte da queste violente catastrofi. Ma quando Darwin viaggiò con il Beagle, aveva con sé il primo volume dei “Principi di geologia” del geologo inglese Charles Lyell, secondo il quale la configurazione attuale della Terra, fatta di alte montagne e profonde vallate, era il risultato di un’evoluzione lunghissima e lentissima. Secondo Lyell, se si ragionava in termini temporali molto ampi, cambiamenti molto piccoli potevano portare a grandi mutamenti geografici. Il tempo atmosferico e il vento, lo scioglimento dei ghiacciai, terremoti e sollevamenti del terreno. È noto che una goccia d’acqua erode la pietra non per via della sua forza, bensì grazie a un’azione continua e prolungata.

E Lyell sosteneva appunto che tali piccoli, graduali cambiamenti potessero, in un arco di tempo assai esteso, trasformare completamente la natura. Darwin capì che questa tesi poteva spiegare ben più che la presenza dei fossili marini sulle Ande, e fece per sempre sua l’idea che piccoli cambiamenti graduali potevano portare, col tempo, a drammatiche trasformazioni. Pensò quindi che una spiegazione analoga potesse essere usata anche per l’evoluzione animale. Un fattore determinante per la teoria di Lyell era l’età della Terra.
Al tempo di Darwin era diffusa l’opinione che fossero passati seimila anni da quando Dio aveva creato la Terra. Si era arrivati a questo numero sommando tutte le generazioni a partire da Adamo ed Eva fino ad oggi. Darwin valutò l’età della Terra sui trecento milioni di anni. Una cosa comunque era chiara: né la teoria di Lyell sull’evoluzione geologica graduale, né quella di Darwin avevano alcun senso se non si teneva conto di archi temporali enormi. Oggi sappiamo che la Terra ha un’età di 4,6 miliardi di anni. Un altro argomento fu la suddivisione geografica delle specie viventi. Darwin ebbe modo di constatare di persona che le diverse specie animali di una regione potevano distinguersi tra loro grazie a minuscole differenze. Fece alcune interessanti osservazioni soprattutto sulle isole Galàpagos. Un gruppo di isole vulcaniche molto vicine tra loro, quindi senza grandi differenze nella flora e nella fauna. In tutte le isole si imbatté in gigantesche testuggini, leggermente diverse da isola a isola.

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Ancora più importanti furono le osservazioni compiute da Darwin sulla vita degli uccelli nelle Galàpagos. In ogni isola esistevano chiare variazioni tra le specie di fringuelli, soprattutto nella forma del becco. Darwin dimostrò che tali variazioni dipendevano da ciò di cui si nutrivano i fringuelli delle diverse isole: il fringuello dal becco appuntito si cibava di pinoli, quello canterino – dal becco più sottile – di insetti, quello con il becco più grosso di insetti che trovava nei tronchi e nei rami… Ognuna di queste specie aveva un becco perfettamente adatto al proprio modo di cibarsi. Tutti questi fringuelli potevano forse avere origine da un’unica specie che, con il passare degli anni, si era adattata all’ambiente circostante in modo da dare vita a nuove specie di fringuelli.

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Darwin cominciò a nutrire sempre più dubbi sull’immutabilità delle specie. Ma non aveva ancora una spiegazione valida per giustificare come potesse avvenire un’eventuale evoluzione o un adattamento all’ambiente. C’era anche un’altra argomentazione per dimostrare che tutti gli animali sulla Terra erano imparentati tra loro. Riguardava lo sviluppo del feto dei mammiferi. Paragonando il feto di un cane, di un coniglio e di un essere umano in uno stadio precoce, è difficile rilevare differenze. Era questo un segno che siamo tutti imparentati alla lontana. Ma non era riuscito ancora a trovare una spiegazione su come avvenga l’evoluzione. Darwin continuò a riflettere sulla teoria di Lyell sui piccoli mutamenti che potevano portare nel tempo a grandi trasformazioni, ma non riusciva a trovare una spiegazione che potesse valere come principio universale. Conosceva la teoria di Lamarck, secondo la quale le diverse specie animali avevano sviluppato ciò di cui ognuna aveva bisogno. Le giraffe, per esempio, secondo Lamarck, avevano il collo così lungo perché per molte generazioni si erano allungate per mangiare le foglie degli alberi. Egli riteneva che i caratteri “conquistati” da un singolo individuo potessero venire trasmessi per eredità alla generazione successiva. Ma questa teoria dei “caratteri acquisiti” trasmessi ereditariamente fu negata da Darwin, perché Lamarck non aveva prove per dimostrare le sue affermazioni. Tuttavia c’era qualcos’altro a cui Darwin continuava a pensare; il meccanismo stesso alla base dell’evoluzione delle specie era proprio sotto il suo naso: “La selezione naturale”. Gli uomini per oltre diecimila anni hanno allevato gli animali selezionando i migliori. Teneva la mucca che dava più latte e macellava quella che ne produceva di meno, così con le pecore per la lana, le galline per le uova, i cavalli più forti e veloci, ecc. gli uomini hanno compiuto una “selezione artificiale”. Questo vale anche per il regno vegetale: non si piantano patate di pessima qualità se se ne possono piantare di migliori, non si miete la spiga che non porta grano. Secondo Darwin, nessuna mucca, nessuna spiga, nessun cane e nessun fringuello sono uguali. La natura mostra un’enorme varietà. Anche all’interno di una stessa specie nessun individuo è perfettamente uguale a un altro. Poteva esistere un meccanismo analogo alle selezioni che fanno gli allevatori anche in natura? Era possibile che la natura compia una “selezione naturale” degli individui che devono sopravvivere? Un meccanismo del genere poteva, in un arco di tempo molto lungo, dare origine a specie completamente nuove di animali e piante? Al tempo del suo viaggio, Darwin non era ancora in grado di immaginarsi che la natura potesse procedere a una simile selezione ma, nell’ottobre del 1838, esattamente due anni dopo il suo ritorno con il Beagle, incappò in un libriccino scritto dall’economista inglese Thomas Malthus e intitolato “Saggio sul principio di popolazione”.

Malthus aveva avuto l’idea di scrivere questo libro da Benjamin Franklin (presidente degli Usa e inventore del parafulmine). Franklin riteneva che, se non ci fossero stati anche in natura fattori limitanti, una specie animale o vegetale si sarebbe diffusa in tutta la Terra. Solo perché esistono specie diverse, esse si tengono in scacco a vicenda. Malthus sviluppò questo pensiero e lo applicò alla popolazione terrestre. Spiegò che la capacità di procreazione dell’uomo è così grande che verranno sempre messi al mondo più bambini di quanti ne possano sopravvivere. Poiché la produzione di cibo non riuscirà mai ad andare di pari passo con la crescita della popolazione, un grande numero di persone è quindi destinato a soccombere nella lotta per l’esistenza. Riuscirà a sopravvivere e quindi ad assicurare la vita alla propria stirpe, solo chi dimostrerà di essere più forte nella lotta per la sopravvivenza. Questo era proprio il meccanismo universale che Darwin stava cercando: aveva trovato una spiegazione per giustificare il modo in cui avviene l’evoluzione: la selezione naturale nella lotta per la sopravvivenza, grazie alla quale chi meglio è adatto all’ambiente continuerà a vivere e a riprodursi. Questa fu la seconda teoria contenuta nell’Origine delle specie in cui Darwin scrisse: “L’elefante è animale che si riproduce più lentamente di tutti gli altri, ma se tutti i suoi piccoli vivessero, dopo un arco di tempo di 740-750 anni vivrebbero quasi diciannove milioni di elefanti originati da un’unica coppia”. elefanti

Darwin mise inoltre in evidenza che la lotta per la sopravvivenza spesso è più dura tra le specie che si assomigliano, perché lottano per lo stesso tipo di nutrimento. Allora sono i piccoli vantaggi, cioè le variazioni positive sulla media, a tornare utili. Più dura si fa la lotta per la sopravvivenza, più velocemente avviene l’evoluzione di nuove specie. Soltanto gli individui meglio adattati all’ambiente sopravvivranno: tutti gli altri sono destinati a estinguersi. Non si tratta soltanto di cibo perché è altrettanto importante non farsi mangiare da altri animali. Può essere dunque un vantaggio avere un colore che permette di camuffarsi, la capacità di correre rapidamente, di accorgersi della presenza di nemici o, nel peggiore dei casi, avere un sapore terribile. Un veleno che possa uccidere il predatore. Di fondamentale importanza è anche la capacità di riprodursi. Darwin studiò a lungo l’impollinazione. Le piante, con i loro profumi e i loro colori, attirano gli insetti che contribuiscono alla diffusione del polline. Anche il canto degli uccelli è in funzione della riproduzione. Coloro che, per un motivo o per l’altro, non riescono a trasmettere il proprio bagaglio ereditario sono i perdenti. In questo modo la specie migliora. Anche la resistenza alle malattie è un carattere che si conserva nelle varianti che sopravvivranno. La continua selezione fa si che gli individui meglio adattati a un determinato ambiente o a una determinata nicchia ecologica, sopravvivranno in quell’ambiente. Ma ciò che è utile in un ambiente può non esserlo in un altro. Proprio perché esistono tante diverse nicchie in natura, col tempo si sono sviluppate tante specie. Ma esiste una sola specie umana – perché gli uomini possiedono una fantastica capacità di adattamento alle più diverse condizioni di vita. Questo però non significa che tutti gli esseri umani sono uguali. Se gli uomini che vivono intorno all’equatore hanno la pelle più scura di coloro che abitano nelle regioni settentrionali, è perché la pelle nera protegge dai raggi del sole.

Gli uomini di pelle bianca che si espongono troppo al sole sono per esempio più soggetti al cancro della pelle. Ma è un vantaggio avere la pelle chiara se si abita al nord perché la pelle chiara riesce a produrre un certo tipo di vitamine, e questo è molto importante nelle regioni in cui c’è poco sole. Oggi questo ha poca importanza perché assumiamo tali vitamine attraverso l’alimentazione, ma niente in natura è casuale: tutto è dovuto a quelle piccolissime variazioni che hanno funzionato per un numero infinito di generazioni. Si può riassumere la teoria dell’evoluzione di Darwin così: si può dire che la materia prima responsabile dell’evoluzione della vita sulla Terra sono le continue variazioni fra individui all’interno di una stessa specie. Ed è l’alto tasso di natalità a permettere che una piccola percentuale di essi riesca a sopravvivere. Il meccanismo alla base dell’evoluzione è la selezione naturale nella lotta per la sopravvivenza. Questa selezione fa in modo che soltanto i più forti o chi si adatta meglio riesca a sopravvivere. Il libro sull’origine delle specie scatenò un putiferio. La Chiesa protestò con grande vigore e l’ambiente scientifico inglese si spaccò in due. In fondo queste reazioni non furono poi così strane dal momento che Darwin aveva in parte eliminato Dio dall’atto creatore. Ma, dissero alcuni, più illuminati, era impresa maggiore creare qualcosa che avesse in sé le proprie possibilità di sviluppo che creare tutte le cose una volta per tutte fissate nei minimi particolari.

Nel 1871 pubblicò “L’Origine dell’uomo e la selezione sessuale” in cui mette in evidenza le somiglianze esistenti fra gli uomini e gli animali, e sostiene che gli esseri umani e le scimmie antropoidi devono essersi evoluti un tempo da un antenato comune. Nel frattempo erano stati ritrovati i primi teschi fossili di un tipo umano estinto, prima in una cava di pietra sulle rocce di Gibilterra e alcuni anni dopo nel Neandertal, in Germania. Stranamente ci furono meno proteste nel 1871 che nel 1859, l’anno in cui Darwin aveva pubblicato l’origine delle specie, anche se, in effetti, la tesi che l’uomo discendesse da animali era già implicita anche nel primo libro. Molte persone si sentirono improvvisamente costrette a rivedere la propria opinione sulla narrazione biblica della creazione. A crollare, non fu soltanto l’interpretazione letterale della descrizione biblica: l’essenza della teoria di Darwin è che variazioni del tutto casuali avevano creato l’uomo. Di più: Darwin ha ridotto l’essere umano a prodotto così “ignobile” come la lotta per l’esistenza. Il punto debole della sua teoria era il modo in cui nascono quelle “variazioni” casuali. Darwin aveva idee molto vaghe sull’ereditarietà. Qualcosa capita già negli incroci. Un padre e una madre non hanno mai due bambini perfettamente uguali e già questo rappresenta una certa variazione. E poi ci sono piante e animali che si riproducono attraverso una gemmazione o una semplice divisione cellulare, e quindi senza incroci. A spiegare come si creino queste variazioni sarebbe poi venuto il cosiddetto “neodarwinismo”, che ha completato la teoria di Darwin. Tutta la vita e tutta la riproduzione si riconducono a una divisione cellulare: quando una cellula si divide in due, se ne formano due identiche dotate dello stesso bagaglio genetico. Con divisione cellulare si intende dire che una cellula copia se stessa. A volte, però, avvengono piccolissimi errori durante questo processo, e la cellula copiata non è del tutto identica a quella madre. Questo fenomeno viene chiamato nella moderna biologia “mutazione”. Le mutazioni possono essere del tutto insignificanti o al contrario portare evidenti trasformazioni nelle caratteristiche dell’individuo. Possono essere direttamente dannose e, in questo caso, i “mutanti” vengono continuamente eliminati. Anche molte malattie sono riconducibili a una mutazione. Altre volte una mutazione fornisce all’individuo proprio quella caratteristica positiva di cui ha bisogno per farsi valere nella lotta per la sopravvivenza. Per esempio un collo più lungo. La spiegazione di Lamarck del perché le giraffe abbiano un collo così lungo era che le giraffe avevano continuamente allungato il collo per mangiare le foglie degli alberi. Ma caratteri acquisiti nati da un’abitudine non potevano essere trasmessi. Secondo Darwin c’era stata una variazione naturale nella lunghezza del collo degli antenati della giraffa. Il neodarwinismo completò questa tesi indicando la causa di tali variazioni. Le mutazioni. Alcuni mutamenti casuali nel bagaglio genetico diedero ad alcuni antenati delle giraffe un collo leggermente più lungo della media. Variazione che poté diventare positiva e importante in un periodo di scarsità di cibo: chi raggiungeva i rami più alti sopravviveva. Questo è ciò che si chiama adattamento e si parla di una legge naturale.

Ci sono altri esempi che mostrano come gli esseri umani siano intervenuti nell’ambiente. Si è cercato di eliminare gli animali nocivi ricorrendo a varie sostanze velenose. All’inizio il risultato è stato positivo ma, quando spruzziamo un campo o un frutteto di insetticidi, si causa una piccola catastrofe ecologica tra gli elementi nocivi che vogliamo sterminare. Grazie a continue mutazioni può svilupparsi un gruppi di fattori nocivi più resistenti verso il veleno impiegato. Questi “vincitori” hanno maggiori chance di sopravvivenza e diventano sempre più difficili da eliminare proprio perché l’essere umano ha cercato di distruggerli. Sono le varianti più resistenti a sopravvivere. Anche nel nostro corpo cerchiamo di combattere dei nocivi: i batteri, e allora usiamo la penicillina o gli antibiotici. Una cura a base di penicillina rappresenta proprio una “catastrofe ecologica” per questi ospiti indesiderati ma, a poco a poco, certi batteri diventano resistenti anche alla penicillina; in questo modo abbiamo creato un gruppo di batteri molto più difficili da combattere. Dobbiamo ricorrere a dosi sempre maggiori di penicillina. È chiaro che la medicina moderna ha creato un serio dilemma. Non si tratta soltanto del fatto che i batteri sono diventati più resistenti.
Un tempo molti bambini morivano a causa delle malattie. In un certo senso però, la medicina moderna ha messo fuori gioco la selezione naturale. Ma ciò che giova all’individuo può alla lunga indebolire la capacità di resistenza dell’umanità alle malattie. Tutte le specie animali e vegetali presenti oggi nel mondo dobbiamo considerarle “vincenti”, almeno per il momento. Nell’albero genealogico di tutte le diverse specie animali si ha la suddivisione nelle diverse specie animali e vegetali e le singole specie appartengono a diversi gruppi e classi. L’uomo appartiene, insieme alle scimmie, ai cosiddetti primati. Tutti i primati sono mammiferi e tutti i mammiferi appartengono ai vertebrati, che a loro volta appartengono agli animali pluricellulari. Ma lo schema non mostra solo quale sia la suddivisione delle specie odierne. Dice qualcosa anche sulla storia dell’evoluzione della vita. Si può vedere, per esempio, che gli uccelli un tempo si separarono dai rettili , che a loro volta si divisero dagli anfibi, che a loro volta si separarono dai pesci. Ogni volta che una linea si divide sono avvenute mutazioni che hanno portato alla creazione di nuove specie. In questo modo nel corso di milioni di anni si sono formati i diversi gruppi e classi animali. Ma questo schema è molto semplificato: in realtà oggi esistono più di un milione di specie animali, e questo milione è solo una piccola parte di tutte le specie animali che hanno vissuto sulla Terra. Ad esempio, un gruppo animale come quello dei triboliti (artropodi marini-tre lobi), è del tutto sparito (sono esistiti nel periodo Cambriano, Paleozoico – 600 milioni di anni fa). E sotto abbiamo gli animali monocellulari. Alcuni di essi, non sono probabilmente mutati da un paio di milioni di anni. Esiste poi in questo schema genealogico, una linea che va dagli organismi monocellulari al regno vegetale perché molto probabilmente le piante si sono originate dalla stessa cellula primordiale degli animali. Da dove viene questa “cellula primordiale?”. Darwin, che era un uomo molto cauto provò a dare una risposta. Scrisse in proposito: ”…se potessimo immaginare una piccola pozza d’acqua calda, dove tutti i Sali di ammonio e fosforo, la luce, il calore, l’elettricità fossero presenti, e che un legame proteico si fosse creato in essa, pronto per subire mutazioni ancora più complesse…”. Darwin stava immaginando come la prima cellula vivente potesse essersi formata dalla materia inorganica. E ancora una volta centrò il bersaglio.

NASCITA DELLA VITA

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La scienza di oggi pensa proprio che la prima forma di vita sia nata da una “piccola pozza d’acqua calda” simile a quella di cui parla Darwin. Nessuno conosce la risposta a come sia nata la vita sulla Terra, molti pezzi sono andati a posto fino a comporre un quadro do come la vita possa essere nata. Si deve innanzi tutto tener presente che ogni forma di vita sulla Terra, vegetale o animale, è costituita dalle medesime sostanze. La definizione più semplice della vita è che ogni essere vivente possiede un metabolismo e si riproduce autonomamente. In ciò viene guidato da una sostanza che si chiama DNA (acido desossiribonucleico). Di questa sostanza sono fatti i cromosomi, ossia il materiale genetico, che si trova in ogni cellula vivente. Il DNA è una molecola, o meglio una macromolecola, molto complessa.

NASCITA DELLA TERRA

Come è nata la prima molecola di DNA? La Terra fu creata quando nacque il sistema solare circa 4,6 miliardi di anni fa.

Inizialmente era una massa incandescente, ma a poco a poco, la crosta terrestre si raffreddò. Secondo la scienza moderna la vita nacque circa tre-quattro miliardi di anni fa. All’origine la terra era molto diversa da com’è oggi. Non c’era nessuna forma di vita, non c’era neanche ossigeno nell’atmosfera. L’ossigeno puro fu creato soltanto con la fotosintesi delle piante. Il fatto che non esistesse ossigeno è importante: è impensabile che le fondamenta della vita, che possono dare origine al DNA, nascessero in un’atmosfera ricca di ossigeno, perché l’ossigeno è una sostanza molto reattiva: prima ancora di poter formare complicate molecole di DNA, questi mattoni della molecola di DNA si sarebbero “ossidati”.

Per questo sappiamo anche con certezza che oggi non può nascere nessuna forma di nuova vita, neanche un batterio o un virus. Tutta la vita sulla terra deve avere quindi la stessa età. Uno dei più grandi misteri della vita è che tuttavia le cellule degli animali pluricellulari hanno la capacità di specializzarsi in una particolare funzione, perché le diverse caratteristiche ereditarie o geni, sono “accese”, altre sono “spente”. Una cellula epatica produce proteine diverse da quelle di una cellula nervosa o epiteliale, ma in tutte e tre troviamo la stessa molecola di DNA, che contiene tutta la ricetta dell’organismo di cui stiamo parlando. Quando non c’era ossigeno nell’atmosfera non c’era neanche, intorno alla Terra, uno strato protettivo di ozono. Ciò significa che non c’era niente che potesse fermare le radiazioni provenienti dallo spazio. Anche questo è importante perché molto probabilmente queste ultime hanno avuto un ruolo decisivo quando si sono create le prime molecole complesse. Una radiazione cosmica fu l’energia che unì le diverse sostanze chimiche presenti sulla Terra per formare complesse macromolecole. Affinché si possano costituire le molecole complesse di cui è formata la vita, devono essere soddisfatte almeno due condizioni: non deve esserci ossigeno nell’atmosfera, e non deve esserci ostacolo alle radiazioni provenienti dallo spazio. Nella “piccola pozza d’acqua calda” o “brodo primordiale”, come la chiama la scienza moderna, si costituì un tempo una macromolecola molto complessa, che aveva la strana capacità di potersi dividere. Da questo momento prende avvio l’evoluzione.

Dopo un arco di tempo lunghissimo, accadde che gli organismi monocellulari si unissero per costituire organismi pluricellulari più complessi. Analogamente prese avvio la fotosintesi delle piante, e in tal modo si formò un’atmosfera ricca di ossigeno. Questo avvenimento ebbe un duplice effetto: anzitutto l’atmosfera fece si che si potessero sviluppare animali che erano in grado di respirare con i polmoni. Inoltre,’atmosfera protesse la vita dalle radiazioni nocive provenienti dallo spazio. Infatti queste radiazioni, importanti “scintille” per la creazione della prima cellula, sono anche dannose per tutta la vita animata. Ma l’atmosfera non si costituì nel giro di una notte. Come riuscirono a sopravvivere le prime forme di vita? La vita nacque dapprima nell’”oceano” quello che chiamiamo il “brodo primordiale”. Lì le prime forme di vita poterono svilupparsi al riparo dalle radiazioni nocive.

Soltanto molto più tardi, cioè quando la vita nell’oceano ebbe creato l’atmosfera, i primi anfibi strisciarono sulla terra. Attraverso milioni di anni si sono sviluppati animali dotati di un sistema nervoso sempre più complesso e un cervello sempre più grande. È possibile che tutto ciò sia casuale? È stata solo una casualità quella che ha creato l’occhio umano? O c’è un significato dietro al fatto che possiamo vedere il mondo che ci circonda? L’evoluzione dell’occhio colpì anche Darwin. Non riusciva a immaginare che qualcosa di così bello potesse essere nato soltanto per effetto della selezione naturale. È strano pensare che uno vivesse proprio in quel momento, che avrebbe vissuto soltanto quell’unica volta ed non sarebbe tornato a vivere. Questo perpetuo creare, allora, perché? Per travolgere nel nulla quel che è stato creato? Goethe fa dire ai suoi personaggi nel “Faust”: mentre Faust muore, e rivede la sua lunga vita, dice trionfante:

Potrei dire a quell’attimo:

«All’attimo direi:
sei così bello, fermati!
Gli evi non potranno cancellare
l’orma dei miei giorni terreni.
Presentendo una gioia tanto grande,
io godo ora l’attimo supremo.»

Anche se la sua vita è finita, Faust ha visto un significato nelle tracce che ha lasciato dietro di sé. Siamo parte di qualcosa di grande dove ogni più piccola forma di vita ha un significato nella totalità. Noi siamo un pianeta vivente. Noi siamo la grande nave che naviga intorno a un sole ardente nell’universo.
Ma ognuno di noi è anche un’imbarcazione che attraversa la vita con un carico di geni. Quando lo abbiamo trasportato fino al prossimo porto, allora non abbiamo vissuto invano. Il ritrovamento in Etiopia (aprile 2010) di un ominide vissuto circa 4,4 milioni di anni fa ha riaperto il dibattito sui motivi per i quali i nostri progenitori si trasformarono da quadrumani in bipedi. Si concorda sul fatto che circa 6 milioni di anni fa in Africa Orientale, zona in cui si è evoluta la nostra specie, vi fu una riduzione progressiva delle foreste, ricche di cibo e ripari. Per spostarsi meglio negli spazi sempre più ampi tra una macchia e l’altra, gli ominidi svilupparono l’andatura eretta che permetteva loro di scorgere da lontano i predatori. E le mani libere potevano essere adibite ad altri usi.

 

 

Bibliografia

Charles Darwin – Origine delle Specie – Introduzione di Giuseppe Montalenti – Edizione Club su licenza di Editore Boringhieri – Ed. Novembre 1982 – Pag. 556

Le immagini sono tratte da Internet