Storia delle Religioni

STORIA DELLE RELIGIONI

(a cura di Bruno Silvestrini)

L’ideologia si deforma spesso irrimediabilmente di secolo in secolo, nella misura in cui si trasformano le strutture economiche e sociali da cui ha avuto origine. A un determinato grado di sviluppo della vita associata corrispondono sempre determinate forme di sviluppo ideologico, artistico e morale. Mano a mano che i mezzi di produzione si perfezionano e si trasformano, e diventa possibile il passaggio a forme più complesse di economia, grazie alle quali alcuni individui si assicurano posizioni di privilegio rispetto al resto della comunità, la soprastruttura ideologica subisce un brusco cambiamento. L’unica disuguaglianza sociale era data, dal rispetto che per consenso di tutti circondava i membri più anziani del clan, in virtù dell’esperienza che avevano acquisito e delle qualità personali di cui erano riusciti a dar prova. Ma non esisteva ancora sfruttamento di una parte del gruppo ad opera di una minoranza. I nuovi strumenti di lavoro, scoperti tra la fine dell’età della pietra e l’inizio dell’età del bronzo, aprono la via all’esercizio della violenza individuale e di una produzione meno legata alle esigenze della cooperazione. Non è più la comunità tutta intera, ma questo o quel membro di essa, dotato di mezzi e privilegi particolari, che appare come il “produttore” il creatore di determinati utensili e di nuove condizioni di vita per il resto della società. Solo allora, al semplice rapporto di dipendenza biologico si sostituisce il concetto di subordinazione e di dipendenza sociale. I “civilizzatori”, i rappresentanti cioè della nascente borghesia commerciale spagnola, portoghese, olandese, francese e inglese non erano certo guidati, nella ricerca di nuovi territori, dalla preoccupazione di estendere a queste zone i benefici del progresso. Essi obbedivano alla legge del profitto e dello sfruttamento, che è sempre stata la molla fondamentale del cammino della società da quando è nata la divisione tra le classi. Intere nazioni, il cui studio sarebbe stato di immenso interesse antropologico, etnologico e sociologico, sono state spietatamente distrutte. Se gli strumenti di lavoro, i prodotti d’uso e di scambio, gli oggetti artistici che gli scavi archeologici hanno portato alla luce dopo migliaia di anni ci parlano del cammino che la società ha percorso nella sua lenta evoluzione, non meno significative sono le vestigia e le reminiscenze che ritroviamo nel linguaggio, nelle tradizioni popolari e nelle religioni. In tutta una serie di leggende che si sono tramandate sino ai giorni nostri tra le genti più diverse, è possibile riconoscere l’influenza di antichi costumi e di vecchissime pratiche sociali. Un’epoca storica è finita; ma il suo ricordo è passato quasi fossilizzato e stratificato alle età successive, sotto forme di abitudini e di costumi spesso incomprensibili. Anche il linguaggio costituisce una specie di terreno sedimentario, nel quale si sono depositate esperienze ed idee che si riferiscono a fasi diverse nella storia dell’umanità.

Lo studio delle origini di una parola, se condotto con questi criteri, non è meno rivelatore dell’analisi dei resti fossili o dei reperti archeologici. In quasi tutte le lingue indoeuropee del ramo meridionale la parola “dio” si ricollegava con il principio della “luce” in contrasto con il principio delle tenebre, identificato con una potenza malefica: la radice originaria “div”, “deiv” è ben evidenziata dal latino “dies”, il giorno. Nel corso dei secoli IX e X ebbe inizio il processo di conversione dei popoli slavi al cristianesimo, inizialmente ad opera dei due santi, Cirillo e Metodio. L’arco di sviluppo della religione dei celti non differisce molto da quello degli slavi, dei germani e degli altri popoli giunti alla stessa fase di evoluzione sociale, non esclusi i latini e i romani, nel trapasso della struttura tribale a quella detta gentilizia. Celti è il nome che i greci diedero a quelli che i romani chiamarono i Galli e che in altre fonti elleniche vengono detti Gàlati (la Galazia era una delle regioni centrali dell’Asia Minore). Stabilitisi da tempi immemorabili in Francia, nelle isole britanniche e nell’Italia settentrionale, essi hanno lasciato una traccia durevole nella storia delle civiltà: linguisticamente, appartengono a un ramo della famiglia indoeuropea, con gli scozzesi, gli irlandesi e gli abitanti dell’isola di Man (gruppo gaelico). Nella sua fase più antica, la religione dei celti ha conosciuto il culto delle pietre, dei fiumi, dei laghi e delle foreste, con chiare manifestazioni totemistiche (culto del cinghiale, del cervo, dell’orso, del cavallo, del serpente).

I“Druidi”, dal greco drùs, da cui anche le “Driadi”, ninfe dei boschi: in realtà il nome deriva da un prototipo indo europeo “Druwides”, che vuol dire “quelli che sanno”, quindi anche il mago, lo stregone. Testimonianze archeologiche dei tempi protostorici, sono i “menhir”, e soprattutto i “dolmen” dal bretone “dal”, tavola e “men”, pietra: rozzi puntelli di pietra infissi al suolo, che sostengono un lastrone orizzontale, a guisa di camera votiva o funeraria. Si tratta di sepolture megalitiche, che risalgono al III millennio a.C., alle soglie dell’età del bronzo, diffuse in Francia, Inghilterra, Spagna, anche in Sardegna, nell’Italia meridionale, Palestina, Caucaso e India. I Druidi; una potente casta sacerdotale, che aveva poteri politici e militari, oltre che religiosi.Intorno a loro si organizzò, a partire dal I secolo a.C. la resistenza armata contro gli occupanti romani.

Le loro pratiche rituali si svolgevano preferibilmente nei boschi, con due feste principali: il primo maggio, allo sbocciare della vegetazione, e il primo novembre, dedicato al culto dei defunti. Oggetto di profonda venerazione era il vischio.Frequentemente anche l’uso di una croce “gammata” o “svastica”, come simbolo solare: le truppe galliche di Costantino il Grande, all’alba del IV secolo, le avevano ancora dipinte sui loro scudi, così che fu facile farle passare per il segno cristiano della croce. Sin dall’inizio della nostra era i druidi praticavano ancora cruenti sacrifici umani: i doli giganteschi, ricolmi di schiavi, prigionieri e di criminali comuni, venivano bruciati solennemente, dinanzi a folle di devoti. I romani, che pure si dilettavano dei massacri del circo, trovavano orribili questi riti dei galli, e li fecero interdire dagli imperatori. Molte delle usanze religiose dei celti si sono conservate tenacemente, specialmente in Bretagna, in Irlanda e nella Scozia, dopo la cristianizzazione di quei popoli. Un concilio tenuto a Nantes, nel 658, si vedeva costretto a ordinare che i menhir venissero interrati in profondi fossati e su di essi fossero erette cappelle votive. Prima della loro conversione al cristianesimo, le stirpi nordiche denominate per la prima volta germani in una fonte latina del 222 a.C.,non conoscevano la scrittura: tutto quello che sappiamo di loro è di natura indiretta: testimonianze archeologiche e i ritrovamenti preistorici. Ogni religione è si storia di idee, ma di idee nelle quali si riflettono, in modo mediato e imperfetto, determinate strutture e esperienze della vita collettiva degli uomini. Non vi sono tante religioni quante sono le tribù, le genti, le nazioni della terra, ma quante sono le fondamentali epoche storiche nelle quali è divisa, in forme sostanzialmente analoghe, l’evoluzione dei singoli popoli. Non esiste una sola religione degli egiziani o dei babilonesi, dei greci o degli ebrei, ma religioni dell’età preclassista, e poi del periodo della schiavitù, del feudo e dell’epoca moderna in Egitto o in Mesopotamia, in Grecia o in Palestina. Non esiste una sola religione cristiana; ma tante forme diverse di cristianesimo, quante sono le grandi epoche storiche che le comunità dei credenti hanno attraversato in questi ultimi millenni. In ciascun paese si può scorgere forme di una vita religiosa “quante sono state le forme della loro vita economica e sociale”, nelle prime origini, sotto il dominio dei proprietari di schiavi e dei signori feudali, fino all’intervento delle forze oppressive della borghesia indigena e dell’imperialismo straniero. Con questa importante riserva: che le manifestazioni dell’ideologia religiosa, più ancora di quelle della letteratura, dell’arte e dell’azione politica in generale, hanno la tendenza a perpetuarsi, passando da un’epoca all’altra, anche quando sono venute a mancare le condizioni che hanno dato loro origine. Lo sviluppo delle ideologie religiose non si identifica puramente e semplicemente con quello delle forze produttive che sono alla base della società. La struttura economica e sociale spiega tutto in ultima istanza. Ma i fedeli di una religione non hanno coscienza di questo legame e agiscono e reagiscono sulla realtà che li circonda in nome degli ideali ai quali obbediscono, e non in virtù di motivi economici e sociali.

Porsi il problema di quale sia la più antica delle religioni, e da quale partire per esporre conseguentemente la linea di sviluppo dei singoli culti, ha un valore molto relativo. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, le religioni fanno la loro comparsa a uno stadio avanzato della loro evoluzione storica, ricche di sopravvivenze delle età precedenti: il limite fra storia e preistoria è dato soltanto dalla scarsezza delle fonti d’informazione sulle origini della comunità umana e dall’inadeguatezza dei metodi di ricerca comunemente seguiti. C’è tuttavia un motivo che induce a iniziare dall’Egitto l’esposizione dello sviluppo religioso dei popoli, perché la Valle del Nilo presenta alcuni aspetti particolari, che si mantengono senza grandi alterazioni dagli albori della civiltà sino ai tempi attuali. L’Egitto ha inoltre conosciuto quello che è stato definito il“modo di produzione asiatico”,perché caratteristico di vaste aree del lontano oriente: la proprietà della terra è accentrata nelle mani di un solo capo o sovrano, che l’affitta ai contadini distribuiti in migliaia di comunità di villaggio, con aspetti egualitari di modello patriarcale (sotto Tolomeo II Filadelfo, nell’Egitto del III secolo a.C., se ne contavano oltre 30.000, con una media di poco più di 200 abitanti ciascuno). Questi piccoli coltivatori pagavano al re, in qualità di affittuari, sino al 60% del prodotto. Va precisato che là dove mancano testimonianze storiche e letterarie dirette, lo studio della mitologia egiziana permette di colmare grosse lacune, purché non si dimentichi mai che nelle complicate vicende della “sacra famiglia” degli dei si riflettono i rapporti e i conflitti della “famiglia terrena” degli uomini.

Il processo è tortuoso, come avviene spesso nel campo dell’ideologia; ma resta il fatto che è sempre e soltanto l’uomo che ha creato le divinità a rispecchio delle proprie condizioni di vita. In Egitto c’è un solo fiume, che inonda ogni anno l’intera vallata e feconda da tempi immemorabili una lunga e stretta striscia di terra, resa coltivabile. Le esigenze di vita agricola costrinsero i primi abitanti, sin dalla fine dell’età neolitica (età della pietra più recente, distinta dal paleolitico perché alla pietra scheggiata si sostituisce la pietra levigata. Nel neolitico l’uomo vive già in capanne, specialmente su palafitte, ed inizia l’agricoltura e l’allevamento degli animali), a vivere raggruppati in piccoli centri e resero indispensabili forme di lavoro cooperativo, che facilitarono il sorgere di un potere centrale e di apparato tecnico e pubblico altamente qualificato. Erodoto che visitò il paese verso la metà del V secolo a.C., osservava già nel secondo libro delle “Storie” che a buon diritto l’Egitto poteva dirsi un “dono del Nilo”.

I primissimi abitanti dell’alto e basso Egitto conoscevano l’arte di tagliare e levigare la pietra, con cui costruivano gli utensili per il loro lavoro; ma già alla fine dell’età neolitica agli strumenti ricavati dalla selce si aggiunge l’uso del rame e dello smalto verde – azzurro, che avrà in seguito largo uso nell’arte, sin dal III millennio a.C., e non solo in Egitto. Il ferro non sostituì il rame e il bronzo che in età relativamente recenti, a partire dal XIV secolo a.C., dopo il crollo della potenza degli Ittiti, che lo avevano sfruttato monopolisticamente per estendere il loro dominio in Palestina e nella Mesopotamia. Per regolare la distribuzione delle acque del Nilo in modo che ogni contadino ricevesse quel tanto che bastava a rendere fertile il terreno, senza esporlo agli incerti delle inondazioni incontrollate, si rese necessario intraprendere grandi opere in comune, studiare l’andamento dei mesi e delle stagioni e applicare tempestivamente le nozioni acquisite. Ma perché ciò fosse possibile, si dovevano realizzare prima le condizioni indispensabili per mettere a disposizione di una classe dominante audace e sicura di sé masse innumerevoli di lavoratori asserviti, in grado di eseguire quelle opere di irrigazione.

E’ soprattutto alla guerra, dagli inizi del IV millennio a.C. in poi, che fanno ricorso i gruppi dirigenti, in Egitto, per ottenere mano d’opera schiavistica. Le conquiste militari permisero alle prime monarchie accentratrici e all’aristocrazia sacerdotale di rifornirsi di uomini per i lavori idraulici più importanti. Con l’origine della proprietà privata della terra e dei più complicati strumenti di produzione di massa, i prigionieri, che prima venivano sommariamente massacrati o sacrificati agli dei, secondo la crudele legge dei razziatori, codificata anche nei più antichi capitoli della Bibbia,hanno salva la vita, ma perdono la libertà. Lo sviluppo dell’agricoltura e delle opere di irrigazione su larga scala presupponeva la suddivisione del lavoro:la separazione tra i produttori e gli organizzatori della produzione.

Una leggenda raccolta nel IV secolo a.C. dal sacerdote Manetone, fa risalire ai primordi della monarchia in Egitto al 3400 a.C.. I singoli regni vengono catalogati in 31 dinastie, divise nei periodi dell’antico, medio e nuovo impero,sin quasi alla vigilia dell’occupazione romana; della storia dell’Egitto “Aiguptiakà” di Manetone non ci resta che questa lista dinastica, che tuttavia è entrata nell’uso scientifico. I sacerdoti avevano tutto l’interesse a far coincidere l’assetto monarchico con gli inizi della vita civile nel paese, in quanto erano proprio essi i principali organizzatori della produzione e in molti casi i maggiori proprietari delle immense ricchezze che l’accumulazione primitiva aveva reso disponibili, grazie al controllo delle opere di irrigazione e di fertilizzazione del suolo. Intorno ai templi si raccoglievano tutti quei “lavoratori intellettuali” (matematici, astronomi, architetti, contabili, scribi, esattori) che non erano meno necessari , di fronte alle esigenze della società, dei “lavoratori normali”.

Il sacerdozio forniva al faraone un apparato prezioso per la direzione dello Stato nato dalla disgregazione della società tribale. Superati e vinti nella pratica della vita quotidiana, i riti e i costumi delle antiche tribù si perpetuarono nella religione. Solo il totemismo, con le sue forme differenziate di culto degli animali, delle piante e dei fenomeni naturali, può spiegare le origini della religione in Egitto. Non è un caso che le più antiche divinità del pantheon egiziano si presentano quasi sempre sotto l’aspetto di animali; il falco (Oro), il bue (Ap, Apis), il toro (Aton), la vacca (Athor), l’ariete (Amon o Ammone a Tebe; Osiride a Mendes, nel delta del Nilo), lo sciacallo (Anubi, che i romani scambiarono per un cane) l’avvoltoio (Nekheht), il coccodrillo (Sehek), il serpente (Seth), ecc. .

Il conflitto tra i re del Delta, nel nord, e il regno del sud, nell’alto Egitto, per la supremazia politica, ci è noto attraverso il mito dell’ostilità tra le due grandi divinità, sotto le cui insegne i due regni si erano costituiti. Quando i due regni vennero unificati, verso la metà del IV millennio a.C., anche Oro e Seth appaiono riconciliati. Il trionfo finale della dinastia del Delta spiega la nuova formula, sotto cui Oro si presenta come il dio di tutto il paese; battuto, il suo rivale Seth (il serpente), viene relegato al rango di una divinità minore, identificata con il potere delle tenebre, che è dominata dallo splendore del sole. Il culto del sole si riscontra in tutte le religioni, nel momento in cui gli uomini incominciano a trarre i mezzi di sussistenza da una più razionale forma di coltivazione dei campi. Oro, il dio-falco, diventa il dio-cielo, l’occhio del falco diventa l’occhio del cielo, e lo stesso Oro si identifica con il sole, Ra o Re.

Ma parallelamente a questo processo di ristrutturazione e differenziazione della produzione si è spezzata l’unità della tribù ed è nata la prima scissione tra gli uomini, basata sulla divisione sociale del lavoro: il dio-sole assume connotati umani e si presenta come il dio-padrone. In seguito alle vicende politiche e militari che portarono all’accentramento del potere nelle mani della dinastia di Tebe, una gerarchia altrettanto rigorosa si instaura nella “corte celeste”. Amon sottomette le altre divinità e ne adotta gli attributi. I sacerdoti di Tebe e di Eliopoli canteranno d’ora in poi le glorie di Amon-Ra, antenato delle dinastie divine, padre degli dei e degli uomini, identificato poi dai greci come Zeus (Giove). Nel 332 a.C., Quando Alessandro Magno conquistò l’Egitto, i sacerdoti del famoso oracolo di Ammone, nell’oasi di Siwa, ai margini del Sahara, fecero accreditare la storiella che il sovrano fosse figlio di Zeus-Amon, miracolosamente concepito dalla madre Olimpia. La teologia egizia evolve così verso una forma di “monoteismo solare”, riflesso della monarchia centralizzata nel periodo del massimo splendore della XII dinastia (2000-1800 a.C.). Un unico signore sulla terra, un unico dio in cielo; le altre divinità si accontenteranno della funzione subordinata che hanno, ad esempio, nel cattolicesimo, gli angeli e i santi. Non si dimentichi, che un vero e proprio monoteismo allo stato puro non è mai esistito. Gli ebrei, considerati a torto come il popolo monoteista per eccellenza, arrivarono, è vero, alla concezione di un solo dio nazionale, Jahvè; ma credevano non meno tenacemente nell’esistenza reale delle divinità degli altri popoli, quali il Marduk dei babilonesi e i Baal dei fenici. Sotto le insegne del loro dio, i faraoni dell’impero tebano respinsero le invasioni degli Hyksos, tribù nomadi forse originari dell’Asia, ed estesero le loro frontiere sino alla Siria; Totmes III elevò il gran sacerdote di Amon-Ra al rango di capo della religione del regno, con giurisdizione sul clero di tutte le altre divinità locali. Gran parte dei prigionieri di guerra furono consacrati come schiavi al dio, cioè ai suoi preti; immense proprietà, pari a più di un terzo della superficie dell’intero Egitto, vennero concesse alle chiese, insieme con vasti possedimenti forestali, agricoli e commerciali nella Palestina, in Etiopia e nella Libia.

La potenza della casta sacerdotale diventò così grande, che lo stesso faraone se ne sentì minacciato. Amenofi IV (1375 – 1358 a.C.) per consolidare il suo potere decise di detronizzare Amon-Ra, “il re dei cieli” dell’antico culto, sostituendolo con un’altra divinità solare, Aton. Questa diventò la sola religione ufficiale dello Stato. Prima di essere religioso, il senso della riforma di Amenofi IV chiaramente politico e sociale. Il faraone si appoggiava sulla casta militare, che possedeva dei domini indivisibili, ma non ereditari. La sua reazione alla minaccia clericale può venire considerata come una delle ultime violente manifestazioni delle libertà dei signori tribali e gentilizi contro le nuove tendenze all’accentramento burocratico e soffocatore proprio del regime fondato sul lavoro schiavizzato; ma tale tentativo andava a ritroso della storia ed era destinato a fallire. Si trattava di una lotta tra gruppi diversi in seno alla classe dominante. La battaglia tra gli dèi non era che il riflesso della battaglia tra gli uomini per il potere. Amenofi IV, che intanto subì una pesante sconfitta da parte degli Ittiti, trasferì la capitale a Tebe, e la chiamò Akhenaton, cioè: “orizzonte di Aton”. Fece costruire sontuosi templi al nuovo dio e soppresse ogni traccia del vecchio culto, imprigionandone il clero e mutilandone i monumenti, non esclusi quelli eretti dal padre, Amenofi III, a Karnak e a Luxor, per cancellare il nome stesso di Amon-Ra; secondo le norme della magia, distruggere il nome equivale ad annientare la persona che lo porta. Egli stesso cambiò il nome, che voleva dire “riposo di Amon”, in quello di Ikhnaton, che significa “spirito di Aton”. Di questa riforma religiosa a tendenza monoteistica, resta un documento letterario di eccezionale interesse: “l’Inno al Sole”, attribuito allo stesso Ikhnaton. La divinità viene esaltata come unica e sovrana, creatrice di tutto ciò che esiste, in termini che ricordano da vicino i salmi della Bibbia ebraica.

“Bello è il tuo apparire sull’orizzonte del cielo
O Aton vivente, principio della vita!
Quando tu sorgi all’estremo oriente del cielo
Tutta la terra viene colmata dalla tua bellezza…
I tuoi raggi abbracciano tutto ciò che hai creato!
Tu hai legato a te il mondo per il tuo figlio prediletto!
Anche quando sei lontano, i tuoi raggi non lasciano la terra.
Anche quando sei in alto, nessuno conosce le tue vie…
Tu sei nel mio cuore
E nessun altro ti conosce
Al di fuori del tuo figlio Ikhnaton.
Tu gli hai rivelato i tuoi piani e la tua potenza.”

La somiglianza con alcuni inni del Vecchio Testamento, soprattutto il Salmo 104, è addirittura sorprendente. Proprio ai tempi di questo faraone, del resto, nel XIV secolo a.C., gli ebrei fanno la loro prima comparsa nelle fonti scritte, sotto il nome di Khahiru, in un dispaccio del governatore di Gerusalemme al suo re, ritrovato insieme ad alcune centinaia di lettere in una stanza del palazzo di Amenofi IV, presso Tell-El-Amarna, dove sono venuti alla luce gli archivi reali. Uno dei luoghi comuni di cui abbondano i libri di storia delle religioni è quello della derivazione di determinati miti da una sola fonte storica. Il mito della distruzione dell’umanità attraverso le catastrofi si ritrova, ad esempio, presso molti popoli del cosiddetto ceppo indoeuropeo, dai persiani, ai greci, dai babilonesi, agli egiziani e naturalmente gli ebrei. Può darsi che nella tradizione popolare relativa a queste leggende si sia confusamente conservata l’eco di eventi naturali che avevano colpito la fantasia dei nostri lontani progenitori, ma non si deve dimenticare che l’origine del mito non è storica bensì stadiale, legata cioè a particolari fasi dello sviluppo della vita associata. Il mito della fine del mondo, dello sterminio degli abitanti della terra ad opera di una divinità incollerita per la malvagità degli uomini riflette, in forma immaginaria, l’affermarsi del potere dei capi e dei signori assoluti e la resistenza di queste nuove forme di indiscriminata autorità non potevano suscitare all’interno della società, nella transizione da un’epoca all’altra. L’elemento “diluvio” in realtà è puramente occasionale (grandiosi fenomeni naturali si verificarono alla fine dell’età glaciale).

L’idea fondamentale è quella della punizione degli uomini che non rispettano più il comando di un capo o per riflesso la volontà di un dio (come un bambino quando non ubbidisce, viene fatto credere che chissà chi arriva o cosa gli capita). Nella religione, più ancora che in ogni altra manifestazione si ritrovano, sin dai tempi più remoti, tutte le contraddizioni che sono entrate nella vita degli uomini con il dissolversi delle comunità primitive. Era naturale che i riti basati sulla magia, comuni un tempo a tutta la tribù, finissero nel subire un processo di differenziazione, parallelamente al distinguersi di una classe dominante dalla classe oppressa. Quanto più completamente il culto dei templi divenne privilegio di sovrani e sacerdoti, a cui il popolo non prendeva parte che come spettatore tanto più l’uomo ordinario cominciò a rivolgersi agli dèi che non erano inclusi nel culto di Stato. Con l’avvento di una società più differenziata anche il rito si è sdoppiato. Il culto ufficiale sanziona ormai sul terreno della religione il potere dei capi, dei signori, mentre le grandi masse vengono sempre più emarginate e confinate nella loro condizione subalterna che trova uno sbocco nei vari culti popolari. Questo processo appare chiaro nell’evoluzione che hanno avuto in Egitto le divinità connesse con i riti di carattere agrario e contadino, (sacrifici magari per favorire la riproduzione della specie animale, fecondità, fertilità agraria). Il culto della morte e resurrezione, legato al sacrificio dell’animale totemico, s’incontra già presso i popoli cacciatori o pescatori prima ancora del passaggio alla fase della coltivazione dei campi.

Sin dalle più antiche manifestazioni dell’arte e della scrittura, Osiride appare come il sole, come lo spirito del grano, come lo stesso Nilo, venerato come il promotore di ogni rinnovamento della natura, come la forza che regola il corso delle stagioni e il ritmo della vegetazione. A lui si offrono in dono le primizie del raccolto, che gli appartiene, per “riscattare” il resto e servirsene nella vita di ogni giorno. Il sacrificio dei primogeniti, che la Bibbia ricollega all’esperienza del soggiorno degli ebrei in Egitto, ha lo stesso significato rituale. Osiride muore e rinasce ogni giorno, come il sole; muore e rinasce a ogni stagione propizia, come il seme. La sua simbolica passione e resurrezione diventa certezza di vita per gli uomini che da lui dipendono. Abbiamo già, il germe, l’idea della “morte espiatrice” del dio, che ritroveremo in tutte le religioni di salvezza a partire dal VII – VI secolo a.C., e in ultima istanza nella religione cristiana. Lo sviluppo dell’agricoltura è stimolato dalla scoperta di nuovi strumenti di produzione, i quali a loro volta agevolano la formazione di un ceto padronale e di una grande massa di lavoratori asserviti. Osiride diventa allora un eroe, il “primo re” della leggenda, colui che ha scoperto la tecnica dell’agricoltura e l’ha insegnata agli uomini, insieme con l’ordinamento sociale. Non si dimentichi che il “rito”, cioè la prima forma che la tecnica ha assunto nella società, precede sempre il “mito”, e non viceversa. Prima l’uomo agisce e poi pensa: intendendo naturalmente questo rapporto tra azione e pensiero nel senso dialettico che gli è proprio. Trasformato in divinità a immagine e somiglianza del re, Osiride ne acquista tutte le caratteristiche: regge e domina la natura, così come il sovrano regge e domina la società. Il culto di questa divinità ha influenzato poi largamente il mondo greco – romano.

Questa religione attirò a se le classi sociali più umili e povere dell’impero romano – lavoratori agricoli, artigiani, schiavi, soldati – i quali cercavano il soddisfacimento dei loro elementari bisogni di giustizia e di salvezza, anche se il compimento di queste aspirazioni si sarebbe verificato solo in un altro mondo. Nel mito di Osiride si vedono riassunti molti dei motivi dell’ideologia cristiana. Non poteva essere altrimenti, per due religioni che sono nate,sia pure in tempi diversi, nello stesso clima di una società basata sul sistema della schiavitù. L’idea che la sorte dell’uomo dopo la morte è determinata dalla sua condotta in questa vita è sorta in un periodo relativamente recente della storia della civiltà. La credenza dell’immortalità dell’anima, su cui si basa ogni dottrina della retribuzione o della punizione dell’uomo nell’al di là, ha incominciato a delinearsi in seno al popolo di Israele solo a partire dal II secolo a.C., nel momento cioè dell’insurrezione nazionale dei Maccabei contro il tentativo di ellenizzazione forzata ad opera dei sovrani della Siria, sotto il regno di Antioco IV Epifane, e ha incontrato all’inizio l’opposizione delle caste sacerdotali tradizionali e degli esponenti dei ceti possidenti ufficiali. La realtà è che tale concezione presuppone alcuni elementi di rottura dei ferrei rapporti che si sono stabiliti tra gli uomini sotto il regime della proprietà schiavistica.

Ogni teoria morale si è sempre costituita in funzione degli interessi degli strati che hanno il controllo della vita sociale. Sino a che prevale il principio della divisione degli uomini tra padroni e mano d’opera asservita, il bene è in primo luogo quello che piace al signore, quello che serve al suo dominio, sia nella terra che nella tomba. Perché potesse sorgere la speranza di un certo affrancamento spirituale dell’uomo, in questa vita e nell’altra, occorreva che la dura legge della schiavitù avesse già incominciato a trovare ostacoli e contraddizioni, grazie allo sviluppo di nuove forza produttive, sulla strada della trasformazione dello schiavo in liberato, in colono e poi in servo della gleba. Ma anche allora questa fiducia nell’affrancamento, nella salvezza, trasferita dalla terra all’oltretomba, lascerà invariati nella società i rapporti reali di soggezione e di sfruttamento. Il cristianesimo è nato appunto nel periodo del graduale trapasso dal sistema della schiavitù al regime del colonato. La nuova morale affermerà che “di fronte a Dio” non vi sono né padroni né servi; ma di fronte alla legge civile la situazione rimane invariata. Dire che la religione cristiana abbia portato all’abolizione della schiavitù è frase senza senso: sarebbe come dire che la barca che segue la corrente di un fiume porti con se l’acqua su cui galleggia. Prima cambiano le strutture economiche e sociali e poi mutano, ben più lentamente e confusamente, le concezioni che gli uomini si fanno della loro esistenza.

L’economia agricola della valle del Nilo, che dipendeva dalle inondazioni periodiche e dalla disciplina delle acque, ha ricevuto indubbiamente un grande impulso dalla struttura della schiavitù, atta a mettere a disposizione dei lavori di costruzione delle dighe sempre masse di mano d’opera; ma il progresso dell’agricoltura, in queste condizioni, favorisce anche il sorgere dell’intelligenza e della abilità individuale. Di qui il moltiplicarsi degli strati sociali, accanto alle caste dei sacerdoti, dei militari e dei sovrani, in lotta tra di loro per il potere; ecco allora un lento processo di disgregazione sociale, che si trasferisce nel campo religioso e morale, alimentando le speranze del servo e del povero in una giustizia superiore, che se non in questa vita gli assicuri almeno un’esistenza migliore in un’altra. Nelle più antiche tombe, che risalgono a oltre 4000 anno prima della nostra era, prevale il concetto della sopravvivenza materiale del defunto, in una esistenza strana e confusa, ma sostanzialmente soggetta agli stessi bisogni della vita terrena.

L’introduzione a una forma diversa di esistenza, è alla base del rito funebre; anche nelle forme che continua ad avere ai nostri giorni, ogni funerale è in primo luogo un rito di passaggio, una cerimonia di iniziazione. Le porte del firmamento, nei testi delle piramidi, si aprono soltanto dinanzi ai reali defunti. Dovrà passare molto tempo, prima che si ammetta la possibilità, per semplici mortali, di salire come passeggeri, sul “battello solare” che porta all’oltre tomba; ma anche allora il loro viaggio ultraterreno sarà ben diverso da quello dei signori e sempre proporzionato alle condizioni sociali dei defunti. Il sistema fondato sullo sfruttamento dell’uomo non rispetta nemmeno i confini della morte. Il “mistero” del dio che muore e rinasce ispirava già molti culti popolari, dalla Mesopotamia alla Grecia e all’Italia Meridionale, cinque o dei secoli prima della comparsa del cristianesimo.

 

I MISTERI DI ISIDE E L’ORIGINE DEL NATALE.

La religione “isiaca” ci aiuta a capire le origini del Natale cristiano. Numerose divinità femminili, simboli della fecondità e della maternità, vengono spesso raffigurate nell’arte religiosa con in braccio o a fianco un bambino. Ma è soprattutto in Egitto che i simulacri di Iside, madre del divino infante, che allatta o tiene in braccio il piccolo Oro, ci appaiono come il prototipo delle madonne cristiane e del bambino Gesù. Il culto di Iside, straordinariamente popolare all’epoca in cui è nato il cristianesimo è passato quasi tutto nel culto di Maria, ai tempi in cui “il clero deliberatamente riproduceva nei suoi santi, per le popolazioni contadine politeistiche, le numerose divinità protettrici della religione pagana”. Il filologo tedesco Eduard Norden ha raccolto sin dagli anni venti molto materiale sulle feste che si celebravano in Egitto, agli albori della nostra era, per salutare la “nascita del sole”, in occasione del solstizio d’inverno. Nella notte tra il 24 e il 25 dicembre in Alessandria d’Egitto si esponeva ai fedeli la statuetta di un fanciullo, figlio di Iside. Salutato da acclamazioni rituali: “Esultate! La Vergine ha partorito, la Luce sta crescendo”. Analoghe cerimonie si svolgevano nella notte tra il 5 e il 6 gennaio per salutare il sorgere dell’anno nuovo (la festa dell’apparizione solare o dell’Epifania). Il rito del vischio, solennizzato ogni anno dai druidi nella Gallia, alla stessa data del solstizio d’inverno, ha introdotto nella festività natalizia elementi di origine nordica; così come l’abete dei germani, simboleggia la vita che non perisce mai e rinasce all’alba del nuovo anno. Dalla confluenza di tutti questi miti è nata la nostra festa del 25 dicembre, che saluta la venuta del Messia d’Israele, divino figlio di una Vergine, con un ramoscello di vischio appeso agli stipiti e con il tradizionale albero carico di luci e doni. La religione isiaca costituisce l’esempio più cospicuo di quei culti di salvezza, che segnano la prima comparsa, nella storia, di religioni di tipo cristiano. Le cosiddette “Litanie di Iside” rivelano una concordanza quasi letterale con quelle dedicate al culto di Maria: “astro del mattino”, “stella del mare”, “patrona dei Naviganti”, “regina della terra”. Può essere utile ricordare, che delle feste che si celebravano a Roma in onore della dea Iside, agli inizi del mese di marzo, ha tratto il nome il nostro Carnevale.

Si vuol ripetere che tale termine deriverebbe da “carne levare”, cioè proibire la consumazione della carne, con riferimento al giorno precedente il digiuno quaresimale. L’etimologia ci riporta invece al “currus navalis”, il battello a ruote, preceduto da gruppi burleschi di personaggi travestiti; su cui veniva trasportato il simulacro della dea, protettrice dei marinai, tra le danze e i canti liturgici della popolazione romana, ancora verso la fine dell’età imperiale. Naturalmente ogni religione ha i propri tratti particolari, così come avviene per l’arte, la letteratura, la morale, il diritto, ma un suo studio razionale e approfondito non può basarsi soltanto su caratteristiche nazionali. Il dato essenziale è lo sviluppo delle forze produttive. Quelli che veramente contano sono i rapporti che si sono stabiliti tra gli uomini in seguito al cambiamento del loro modo di vivere e quindi di pensare. Grazie a una documentazione archeologica particolarmente ricca, la civiltà dei babilonesi e degli assiri ci è oggi nota in tutti i suoi aspetti fondamentali. Essa abbraccia un periodo di tempo di circa tremila anni, dal 3500 al 538 a.C., quando Ciro, salutato dagli ebrei come un messia liberatore, vi pose bruscamente termine; ma la sua influenza si è fatta sentire ben al di là dell’occupazione persiana, nello sviluppo del giudaismo e nella formazione stessa del cristianesimo e dell’islamismo. Non c’è nulla di vero nella tradizione che fa della Mesopotamia – la terra “tra i due fiumi”, il Tigri e l’Eufrate – la culla di quasi tutte le religioni del mondo antico. Altre popolazioni, di diversa provenienza, avevano abitato la regione, prima che nascessero i miti assiro-babilonesi della creazione del mondo, del peccato originale, del diluvio, dell’inferno, ecc. . I babilonesi e gli assiri hanno occupato, con alterne vicende, il territorio che è oggi riunito nello Stato dell’Iraq. Le esigenze del predominio di classe, alla fine dell’età gentilizia, hanno già portato alla formazione di un potere statale, favorito dal sorgere dei primi imperi accentratori. Due di essi concorrono d’ora in poi a caratterizzare la civiltà della Mesopotamia: l’impero dei “sumèri”, popolazione di origine e lingua caucasica e quello degli “accàdi”di stirpe semitica, che finirà col prevalere politicamente e culturalmente circa 25 secoli prima della nostra era. Sono i sumèri che hanno insegnato ai popoli della Mesopotamia la tecnica del controllo delle acque dei fiumi, dando luogo a una civiltà basata sull’irrigazione dei campi e su una fertile agricoltura. Sono i sumèri che hanno dato ai babilonesi la “scrittura cuneiforme”, diffusa dal Caucaso all’Egitto, la più usata nel mondo antico.storia-religioni-10

E la loro lingua così diversa nella sua struttura da quella dei semiti, non soltanto ha esercitato una grande influenza sul vocabolario e sulla terminologia religiosa, giuridica e letteraria dei popoli che poi hanno prevalso nell’Assiria e nella Babilonia, ma si è conservata integralmente per millenni come lingua dei sacerdoti, dei sovrani e delle masse colte, anche quando non era più capita dalle larghe masse della popolazione. È avvenuto cioè per il sumèro quello che si è sempre verificato nella religione cattolica per il latino, lingua dei sacerdoti e del culto, incomprensibile per la gran massa dei fedeli, che ne ripetono stancamente le formule con magica compunzione. Di qui una difficoltà in più per chi si accinge a studiare la religione assiro – babilonese.

DIRITTO E SCHIAVITU’ IN MESOPOTAMIA

I più antichi documenti storici sull’organizzazione della società assiro – babilonese attestano già l’esistenza di profonde differenziazioni di classe. Il codice Hammurabi, scoperto agli inizi del 1990, divide la popolazione del 1700 a.C., in tre categorie: i liberi, i semiliberi e gli schiavi.

Risultati immagini per hammurabi immaginiCodice di Hammurabi

La schiavitù, presso i babilonesi e gli assiri, ha assunto sin dall’inizio degli aspetti molto più rigidi e duri che non in Egitto e in Palestina, anche se non si arriverà mai alle forme classiche che si riscontrano in Grecia e soprattutto a Roma. Nei lavori agricoli, predomina sempre il tipo di coltivatore semilibero, impoverito e sfruttato; la mano d’opera servile, tuttavia, è più diffusa che nella valle del Nilo. Per quel che riguarda l’economia cittadina, su 59 articoli delle leggi accadiche di Eshnunna, (è la trascrizione dell’antico nome di una città-stato sumerica nella bassa Mesopotamia del II Millennio a.C.), ben 15, sono dedicati agli schiavi e alle schiave. Essi vengono divisi in due gruppi: quelli di proprietà del sovrano e quelli che appartengono a un cittadino privato. Lo schiavo non può disporre della sua proprietà; può essere venduto come una merce o dato in pegno per garantire un prestito. I figli che il padrone ha avuto con una schiava, sono considerati legittimi; alla morte della moglie ufficiale, la schiava può essere sposata legalmente. Alcuni elementi di questa legislazione hanno lasciato il segno nella vita sociale e religiosa di altre popolazioni, non solo in Mesopotamia. Per esempio l’articolo 25 del codice sumerico di Babilonia, suona così: “Il genero dovrà mettere il suo lavoro al servizio del suocero, per compensargli la mancanza di dote”. Il che ricorda l’episodio biblico di Giacobbe, che ha dovuto servire Labano per sette anni allo scopo di sposarne la figlia Rachele e si vede costretto a lavorare per lui altri sette anni, quando prenderà in moglie anche Lia (Genesi XXIX, 18 – 30). L’articolo 51 del medesimo codice, prevede che lo schiavo non possa uscire dall’abitato senza il permesso del padrone; nel codice di Hammurabi la mancata osservanza di questa norma di legge viene addirittura punita con la pena capitale. Di qui ha origine la lunga, dolorosa aspirazione degli schiavi e dei poveri in generale a vivere finalmente in una città senza porte, se non altro in un regno ultraterreno. Nella descrizione apocalittica della “Gerusalemme celeste”, cara alle masse miserabili e asservite del mondo greco – romano, agli inizi dell’era cristiana, riecheggiano vecchie versioni di Isaia: “Le porte di questa città non saranno mai chiuse, né di giorno né di notte” (Apocalisse XXI, 25).

IL MITO DELLA CREAZIONE E DELLA CADUTA DEL PRIMO UOMO

La comunità primitiva non conosce il mito della creazione dell’uomo da parte di un essere soprannaturale e onnipotente. Prima che conoscesse l’idea della creazione, occorreva che si fosse affermata nella vita sociale la realtà concreta del creatore di oggetti materiali, del produttore, del modellatore, che diventa proprietario di uomini e di cose.

storia-religioni-01La creazione di Adamo (Michelangelo)

In una delle versioni del racconto biblico della creazione di Adamo,“l’Eterno foggiò l’uomo con la polvere della terra” (Genesi II, 7), proprio come il vasaio manipola la creta. Anche la storia del paradiso terrestre, con l’albero della vita e il serpente, è tipicamente babilonese. La storia di un uomo che per un istante aveva avuto la possibilità di sfuggire alla morte, ma poi perde tale occasione proprio per colpa di un serpente, viene narrata in un altro testo sacro mesopotamico, il poema di Gilgamesh, in dodici tavolette. Quanto al mito del diluvio universale, la corrispondenza con uno degli episodi dell’epopea di Gilgamesh è così palese, da far pensare a una vera e propria derivazione testuale. Bisogna tuttavia evitare di vedere soltanto un rapporto di dipendenza in quella che è un’analogia più larga, dovuta all’affinità delle strutture economico – sociali, e non esclusivamente a trasposizioni passive da un paese all’altro. Gli ebrei, caduti sotto il dominio dei babilonesi, non avrebbero potuto far propri i motivi centrali di una mitologia estranea alla loro identità nazionale, se non si fosse già presentata alla loro coscienza, l’esperienza della soggezione sociale e delle dolorose conseguenze ch’essa porta con sé. Il sistema basato sulla schiavitù ha lasciato dietro di sé il disprezzo in cui era tenuto il lavoro produttivo presso gli uomini liberi. È questo il vicolo cieco nel quale è finito il mondo imperiale romano, quando la schiavitù incominciò a non rendere più: il lavoro degli schiavi era diventato troppo gravoso e quello degli uomini liberi era messo moralmente al bando. Solo i grandi cambiamenti intervenuti nei rapporti di produzione, con il prevalere del colonato e della schiavitù della gleba, che apre la strada al feudalesimo, potranno risolvere tale contraddizione: il cristianesimo vi è rimasto quasi del tutto estraneo. In una società di classe il lavoro è condanna. Questa stessa valutazione si ritrova, sotto l’aspetto religioso, nel mito della caduta del “primo uomo” colpevole di aver trasgredito un ordine del suo signore. Per aver gustato il frutto proibito dall’albero della vita, che permette di separare il bene dal male, Adamo viene cacciato dall’Eden, il giardino della felicità si trova nelle leggende di molti altri popoli, e punito con l’obbligo del lavoro. (Genesi, III, 22 – 23). Nel greco classico il termine “bànausos” indica tanto il lavoratore manuale quanto una persona abietta e disgustosa. Nata la società gentilizia, estesa la proprietà privata, rafforzatosi lo Stato, il lavoratore finisce col ritrovarsi in condizioni di semi – schiavitù: il misticismo religioso diventa sempre più il rifugio delle masse popolari.

LA CRISTIANIZZAZIONE DEGLI DEI DELL’OLIMPO

A venticinque secoli di distanza della massima fioritura letteraria greca, le grandi divinità di Omero, di Erodoto ecc. fanno ancora parte della nostra eredità culturale, ben più delle stesse figure leggendarie della primitiva società cristiana. A uno studente si perdonerà di ignorare la storia reale di Gesù e i suoi discepoli, ma non si tollererà ch’egli faccia confusione tra le vicende eroiche e amorose di Zeus ecc. La verità è che le divinità del mondo greco sono fiorite nel periodo della massima espansione della società basata sul sistema della schiavitù, del contrasto tra un’immensa moltitudine di creature umane prive di ogni libertà e dignità nella vita e una piccola minoranza di privilegiati e potenti.  Gli dèi di Omero appartenevano alla tradizione delle classi dominanti e come tali sono stati tramandati dall’età rinascimentale in poi alla moderna società borghese. Tutte queste divinità appaiono staccate e remote dai ceti più umili a mano a mano ch’essi prendevano coscienza del loro stato di inferiorità sociale, le mitiche figure divine non dicevano loro più nulla.

Le dodici grandi divinità olimpiche, sei maschili e sei femminili, vennero adottate più tardi dai romani e identificate con le figure centrali del loro bagaglio mitologico, fino a far parlare di un unica religione vita sulla greco – romana. Si tratta di illazioni del tutto ingiustificate sul terreno storico, dovute all’influenza in età classica della cultura greca. Così è avvenuto che:

                       Greco                                   Romano

  • Zeus padre degli dei                  –  Giove
  • Era dea del matrimonio           –  Giunone
  • Poseidone dio del mare           –  Nettuno
  • Apollo dio del sole                    –  Apollo
  • Ares dio della guerra                –  Marte
  • Efesto il dio fabbro                   –  Vulcano
  • Ermes del commercio              –  Mercurio
  • Atena dea della saggezza         –  Minerva
  • Artemide dea della caccia       –  Diana
  • Afrodite dea dell’amore           –  Venere
  • Demetra dea delle messi         –  Cerere
  • Estia dea del focolare               –  Vesta
  • Eros dio dell’amore                   –  Cupido
  • Eolo dio dei venti                      –  Eolo
  • Dioniso dio del vino                  –  Bacco
  • Eos dea dell’alba                        –  Aurora
  • Ade dio degli inferi                    –  Plutone
    Gea dea della Terra                   –  Tellus

Queste identificazioni  non devono trarre in inganno. L’antica religione di Roma, piccola comunità tribale passata poi a l’immenso impero, si differenzia profondamente da quella della Grecia. Essa deve ben più al sostrato italico ed etrusco. Mercurio, ad esempio, ha preso il nome di una famiglia etrusca, “Mercu”, che si ritrova nella parola “merce”, ed ha ben poco a che vedere con la sua controparte greca, Ermete; Minerva (in etrusco Menerva) era in origine una divinità guerriera degli italici, ben diversa da Atena. In genere, inoltre, gli dèi etruschi venivano raggruppati a “triadi”, e non a coppie.

ORIGINI E SVILUPPO DEL GIUDAISMO

La convinzione popolare sull’origine antichissima degli ebrei, e della loro religione, è dovuta soprattutto ai primi libri della Bibbia, che fanno risalire la storia di questo popolo agli inizi della creazione del mondo. A parte il fatto che tutte le religioni tendono a richiamarsi alle origini stesse della terra, la verità è che i primi libri del Vecchio Testamento, sono una elaborazione molto tarda e risentono di precedenti influssi egiziani, babilonesi, ugaritici, persiani e persino greci. Essi non ci danno una documentazione diretta sui primordi del popolo ebraico; ma ci riferiscono semplicemente quello che su queste origini si credeva in Israele, tra il III e il II secolo a.C., cioè grosso modo nello stesso periodo che ha visto fiorire la letteratura della Grecia classica e iniziarsi la letteratura latina. La storia documentata di quasi tutti gli altri popoli del vicino ed estremo oriente, e dello stesso mondo mediterraneo, risale di alcuni millenni più indietro.

LA PALESTINA

Originariamente indicava solo la piccola fascia costiera da Giaffa in giù e venne dato in seguito per estensione a tutta la regione, significa letteralmente “Il Paese dei Filistei” (Pelishtim).

La penetrazione ebraica in Palestina rientra quasi certamente nel complesso di quei grandi spostamenti di tribù beduine che hanno avuto luogo nel corso del XII secolo a.C., e segnano la transizione di larghi agglomerati di uomini dal nomadismo alla vita sedentaria, dalla pastorizia alla coltivazione dei campi, in seguito alla scoperta di nuovi strumenti di produzione (passaggio dagli utensili in pietra a quelli metallici). A questo stesso periodo risalgono le invasioni degli Hyksos. È il periodo in cui si accentua il regime sociale della schiavitù, ancora poco sviluppato presso i popoli nomadi, poveri di mezzi alimentari e obbligati a spostarsi continuamente; più diffuso invece presso i popoli che incominciano a dedicarsi all’agricoltura. Nell’Esodo, XXI, 2 – 11, le leggi sulla schiavitù vengono poste in testa all’intera legislazione civile; ma contemplano anche la liberazione dopo sei anni, di tutti gli schiavi di origine tribale ebraica. È questo il noto “anno sabbatico”, il settimo anno. La legge religiosa giudaica faceva obbligo formale di “riscattare” i membri della tribù caduti prigionieri e ridotti in schiavitù. Ben diverso era l’atteggiamento degli ebrei nei confronti degli altri schiavi catturati in guerra o comunque di origini straniere. Il codice sacerdotale del Levitico, XXV, rielaborato all’alba del II secolo a.C., testimonia di una certa liberalità verso gli schiavi di razza ebraica; ma per tutti gli altri casi si esprime:
Risultati immagini per schiavi“Di schiavi e schiave da tenere a vostro servizio prendetene pure tra le genti che vi circondano o compratene tra le famiglie degli stranieri venuti a stare presso di voi e tra i loro figli, nati e cresciuti nel vostro paese, potete averli in proprietà perenne e lasciarli in eredità ai vostri figliuoli”. (Levitico, XXV, 44 – 46). Anche per la Bibbia non era un delitto uccidere uno di questi schiavi. Mentre l’assassinio di un uomo libero era punito con la morte, nel caso di uno schiavo era sufficiente offrire al suo padrone un compenso in denaro. L’adulterio commesso da una donna sposata, di stato libero, comportava la pena della lapidazione; ma se si trattava di una schiava o di una concubina, tutto si poteva sanare grazie a un accordo pecuniario con il proprietario. I sacerdoti sconsigliavano di far affrancare gli schiavi, perché una volta liberi essi avrebbero dovuto essere considerati “proseliti” e godere così di una quasi completa uguaglianza con gli ebrei di nascita. Ancora una volta, non è alla religione che si deve chiedere ragione di queste disparità di trattamento, ma alla pratica sociale.

 

IL DECALOGO

All’influenza esercitata dai profeti si deve far risalire anche l’elaborazione di quei precetti fondamentali del giudaismo, ereditati poi dalla religione cristiana, che hanno ricevuto il nome di “dieci comandamenti”e come tali sono giunti sino ai tempi nostri. La leggenda vuole che essi siano stati rivelati a Mosè, tredici o quattordici secoli prima della nostra era.

La storia di queste regole di vita religiosa e sociale, obbligatorie per ogni credente e non prive di un certo valore etico, ci riporta a epoche diverse e spesso contrastanti tra di loro. Siamo di fronte a un lento lavoro di revisione, che si è conchiuso solo pochi secoli prima dell’inizio dell’era cristiana. In primo luogo, si deve osservare che il testo ebraico non parla mai di “dieci comandamenti”, ma di “dieci parole”, e che questo dato viene reso alla perfezione dalla traduzione greca “decalogo”, passata dai Settanta a Filone di Alessandria e fatta propria dai padri della Chiesa. A dire il vero, tale voce, nella Bibbia greca, è usata al plurale, “déka lógoi”, le “dieci parole”; al singolare dekálogos si trova per la prima volta in Clemente di Alessandria e in Tertulliano. Di questo “patto”, nei primi cinque libri della Bibbia, o Pentateuco, abbiamo numerose versioni, molto diverse le une dalle altre. Quando la leggenda della promulgazione del decalogo ha incominciato a prendere forma scritta, gli ebrei risiedevano già da alcune centinaia di anni nelle zone più fertili della “terra promessa”. Le genti che da tempo vi abitavano erano ormai sottomesse e in gran parte assimilate: da esse i nuovi venuti avevano appreso l’arte dell’agricoltura e il culto delle divinità campestri. Occorreva tuttavia far risalire a un atto preciso, sanzionato dal potere divino, il diritto al possesso legale del suolo. Di qui la funzione assegnata a uno dei personaggi più cari alla tradizione tribale degli ebrei: Mosè, il condottiero e il legislatore.

In realtà, nulla permette di affermare che Mosè sia stato un personaggio storico. Il nome è di derivazione egiziana, Mesa o Mose, e non significa affatto “salvato dalle acque”, come vuole la tradizione, ma semplicemente ”figlio” di una divinità: per esempio, Amon-Mose, Aton-Mose ecc.. Nel terzo mese dopo la liberazione dalla “schiavitù in terra d’Egitto”, Mosè sale dunque su una delle alture della penisola Sinaitica, che segna ancor oggi il confine tra egiziani ed ebrei; e il dio delle tribù, Jahvè, incide di suo pugno di fronte a lui il testo dell’alleanza su due tavole di pietra, dette d’allora in poi “tavole della testimonianza” (Esodo, XXIV, 12) o le “tavole del patto”, (Deuteronomio, IX, 9,11,15). Ma il popolo eletto è “duro di cuore”: e al culto del dio tribale, venerato quand’erano nomadi e pastori, preferisce ormai quello delle divinità agricole della Palestina, tra cui il dio-toro del gran sacerdote Aronne. Sdegnato, Mosè spezza le tavole della legge e minaccia ai suoi la collera divina. Ma Jahvè, se è un dio geloso (Esodo, XXIV, 14), sa anche essere misericordioso, come dovrebbe essere il padrone verso i propri servi; e da ordine a Mosè di ritagliare altre due lastre di pietra, identiche alle prime, e si compiace di incidervi di nuovo personalmente i suoi comandamenti. Secondo un’altra versione, il decalogo numero due sarebbe invece stato inciso da Mosè, sotto divina dettatura (Esodo, XXXIV,27-28); ma queste varianti non hanno mai preoccupato seriamente i teologi. In ogni caso, le nuove tavole vengono deposte nell’arca, che d’allora in poi riceverà il nome di “arca della testimonianza” o “arca del patto”. Quali sono le dieci parole, o norme rituali, contenute nel patto? Ne esistono diverse versioni; ma la critica pubblica è riuscita a individuare il testo più antico, che ci fa risalire ai tempi del clan pastorale. Lo troviamo nel capitolo XXXIV dell’Esodo, il libro che descrive la movimentata fuga di Israele dalla terra d’Egitto.

Ecco come doveva essere articolato nella sua forma primitiva:

  1. Non curverai la fronte dinanzi ad alcun dio straniero.
  2. Non ti fabbricherai nessun dio di metallo fuso.
  3. Osserverai sempre la festa degli anziani nel mese di nizan (marzo-aprile), in ricordo del tuo “passaggio” nel deserto. (il termine ebraico per passaggio è pesàh, trascritto in greco pascha, la nostra Pasqua).
  4. Ogni primo nato è mio: riscatterai con un sacrificio ogni primo parto del bestiame, sia grosso che minuto, e ogni primogenito tra i tuoi figli.
  5. Non comparirai mai dinanzi a me a mani vuote.
  6. Tre volte all’anno tutti i tuoi maschi visiteranno la faccia del Signore (le tre feste pastorali della primavera, dell’estate e dell’autunno.
  7. Non lascerai colare il sangue della mia vittima in presenza del pane fermentato (è una vecchia proibizione rituale, legata al carattere sacrale del sangue e del lievito).
  8. Non rinvierai al mattino la consumazione della mia vittima pasquale (perché non si esaurisca la carica magica che porta in sé ogni animale sacrificato al Signore).
  9. Il fior fiore delle primizie del suolo lo porterai alla casa di Jahvè.
  10. Non farai cuocere il capretto nel latte della madre sua (anche questo è un antico tabù; il rapporto tra il latte e il capretto si ritrova, come formula magica, in una delle laminette auree del culto orfico, scoperte nel 1879 nella Magna Grecia, a Turi, oggi Terranova di Sibari, in Calabria, e risalenti al VI secolo a.C. : “Capretto sono caduto nel latte”, cioè sto per diventare immortale).

Superata la fase nomade, fattisi sedentari e dediti alla coltivazione dei campi, gli ebrei adottarono nuove forme di vita sociale, basate sulla proprietà privata e su leggi religiose più rigide. A questo periodo si collega il decalogo vero e proprio, che trasforma quasi tutte le norme più antiche, divenute ormai incomprensibili, e se ne aggiunge delle altre, moralmente più elevate, ma sempre nei limiti di una struttura padronale. Le nuove “dieci parole” – la torah, o legge del popolo ebraico ci sono giunte in due versioni non sempre identiche, che possiamo attribuire al periodo che va dal VII al IV secolo prima di Cristo. La più antica è riportata nel Deuteronomio, V, 5-18; essa riflette preoccupazioni di carattere sociale, assai vicine al programma di riforme etiche e religiose predicate dai profeti. L’altra, trascritta nell’Esodo, XX, 2-17, è più di tipo liturgico-rituale ed è stata quasi certamente redatta dai sacerdoti in età più recente, un paio di secoli dopo la caduta di Gerusalemme nelle mani dei babilonesi, nel 586 a.C.

Questo è comunque il testo del decalogo nella sua formulazione più recente:

  1. Non avrai altro dio di fronte a Javhè. (È un’affermazione di monoteismo rituale, non teologico: gli altri popoli si tengano pure le loro divinità, ma gli ebrei prestano il loro culto al proprio dio).
  2. Non ti fabbricherai nessuna immagine scolpita e nessuna raffigurazione di cose che si trovino nei cieli, sulla terra o nelle acque sotterranee.
  3. Non pronuncerai ad alta voce il nome del Signore. (Chi possiede il segreto del nome della divinità, è in grado di servirsi della carica magica ch’esso contiene; occorre perciò evitare che uno straniero s’impadronisca di questo nome, misterioso e potente).
  4. Ricordati di osservare scrupolosamente il sabato. (Nella versione più antica, il precetto del riposo settimanale viene collegato all’obbligo di non far lavorare gli schiavi ogni settimo giorno, in memoria degli anni trascorsi da tutti gli ebrei in servitù sotto gli egiziani; nel testo più recente, di ispirazione sacerdotale, la spiegazione è invece solo di carattere religioso – secondo il mito della creazione, anche Javhè si è riposato “dopo sei giorni”. Il nome del “sabato”, in ebraico shabbath, deriva dal babilonese shabattu, la festa della luna piena; un altro giorno era dedicato alla festa della luna nuova. I babilonesi lo avevano preso dai sumèri, e i cananei dai babilonesi; ma la sua applicazione al “settimo giorno” della settimana sembra di stretta origine ebraica. I babilonesi si astenevano dal lavoro nei giorni che “portavano sfortuna”; il 7, 14, 21, 28 dei due mesi di Elul II e di Marcheswan. Sotto la spinta dei profeti del VII secolo, questi giorni divennero invece per gli ebrei “giorni di riposo e di ringraziamento” e furono estesi agli schiavi. Ai signori romani tale concessione parve assurda; il tanto ammirato Seneca lamentava che in questo modo si faceva “perdere la settima parte del lavoro umano” e Tacito cita il riposo del sabato come una riprova della oropensione degli ebrei alla pigrizia (Storie, V, 2, 4). Per cercare di spiegarne in qualche modo l’origine, si fantasticò di un collegamento di quel giorno con il pianeta Saturno. Di qui il nome, che si è conservato in qualche lingua moderna, di “giorno di Saturno” (Satur-day in inglese). Non solo per differenziarsi dagli ebrei, ma soprattutto per motivi di prestigio religioso, data la grande diffusione del culto del “dio-sole” negli ultimi secoli dell’impero pagano, i cristiani adottarono invece la festa del “Signore Sole” (dies dominica” e ne fecero il loro giorno di preghiera e di riposo, consacrata ormai al “Signore Gesù” (la domenica). Ma questo passaggio non si è compiuto senza resistenze; l’osservanza del sabato si mantenne presso varie correnti cristiane dissidenti e alcune sètte protestanti, oggi ancora, si richiamano al sabato, il “settimo giorno” (per esempio, gli Avventisti del settimo giorno”, sorti in America nel 1862 allo scopo di ritornare alla stretta osservanza biblica, nell’attesa del “secondo avvento” del Cristo sulla terra).
  5. Onorerai tuo padre e tua madre, affinché tu possa vivere a lungo e felice sulla terra, aggiungono le due versioni del testo della Bibbia.
  6. Non uccidere. – L’ebraico ha letteralmente “non assassinare” (tinzack), cioè non sopprimere un membro del tuo clan; l’uccisione del nemico, donne e bambini compresi, non solo è ammessa, ma rigorosamente imposta da Jahvè.  Anche nel Corano il sesto comandamento suona così: “Non ucciderai nessuno di quelli che allah ti ha proibito di uccidere, se non per giusta causa”. Siamo di fronte a un lento processo di incivilimento urbano, in contrasto con le feroci consuetudini della tribù beduina originaria.
  7. Non commettere adulterio, – cioè secondo la legge ebraica, non sedurre una donna sposata o anche solo promessa a un altro dopo che il prezzo d’acquisto è stato pagato. (Esodo, XXII, 16). Sedurre una donna nubile o una schiava non costituisce adulterio. Non si tratta tanto di morale, quanto di leso diritto di proprietà. Nel caso di una schiava, tutt’al più, il padrone potrà esigere un risarcimento in denaro.
  8. Non rubare.
  9. Non portare falsa testimonianza contro il tuo vicino.
  10. Non desiderare la moglie del tuo vicino, né il suo campo, la sua schiava, il suo schiavo, il suo bue, il suo asino ecc. Veramente il termine ebraico per “desiderare” è “gettar l’occhio addosso”: ed è probabile che si tratti della pratica del malocchio. Si lancia cioè il malaugurio in direzione della proprietà di un altro, per trasferirla in proprio potere grazie all’azione magica della stregoneria. Quanto all’assimilazione della moglie con tutte le altre proprietà, va osservato che si tratta della versione più remota; già nel Deuteronomiola donna è posta in una categoria a parte. La tradizione cristiana ha diviso in due quest’ultimo comandamento e ha unificato i primi due: la condanna all’idolatria da un lato, era ormai superata ed era contraddetta, dall’altro, dal culto popolare delle immagini e dei santi. Quest’ultima considerazione ci permette di conchiudere ricordando che nel catechismo la formulazione dei dieci comandamenti differisce talora da quella qui riportata.

Il nuovo testo risale a Sant’Agostino, all’alba del V secolo; ma anche questa versione è stata rielaborata e abbreviata dal Concilio di Trento, nel secolo XVI (Sessione IV, canone 19). Da allora, nella chiesa cattolica, l’elenco non ha più subìto variazioni sostanziali.

BREVE STORIA DELLA BIBBIA

Un’antichissima città della Siria, Biblo, emporio commerciale fenicio e centro dello smistamento del papiro – forse il luogo dove per la prima volta venne usata la scrittura alfabetica – ha dato il nome alla carta d’importazione egiziana, biblion, e poi per estensione all’intera raccolta dei fogli, da conservare arrotolati per la lettura. All’inizio della nostra èra, biblia (neutro plurale greco, “i libri”), indicava già una qualsiasi collezione di scritti, o una biblioteca; ma ben presto venne limitato dai fedeli, ebrei e cristiani, alla sola raccolta dei loro libri sacri. Il neutro greco diventò nel latino popolare un femminile singolare, Biblia; e di qui è passato in italiano e in quasi tutte le lingue moderne. La Bibbia è dunque, in primo luogo, il complesso dei libri sacri degli ebrei, o Vecchio Testamento; e poi, con l’aggiunta di una serie di testi cristiani, o Nuovo Testamento, acquistò la sua dimensione attuale. La prima parte rimase comune alle due religioni. La voce Testamento non s’incontra mai, come titolo, né nell’originale ebraico, né nel greco, che è la lingua esclusiva della parte cristiana. Da dove deriva dunque, tale singolare denominazione? L’ebraico ha un termine, berith, che denota un contratto, un patto, e quindi anche, nei rapporti tra i popoli, una “alleanza”. L’idea centrale della religione giudaica, era che il dio delle dodici tribù aveva stretto un solenne patto con il suo popolo: “Voi mi considererete come il vostro solo Iddio, a esclusione di ogni altro, e io, Jahvè, vi prometto di proteggervi, di favorirvi ed eventualmente di farvi ereditare un giorno il dominio o per lo meno il controllo del resto della terra”. La traduzione in lingua greca, detta dei “Settanta”, dal numero leggendario degli esperti, 70 o 72, che sarebbero stati incaricati di questo lavoro in Alessandria dal re Tolomeo Filadelfo, verso la metà del III secolo a.C., complicò le cose. Il termine berith venne reso con diathéke, che oltre al significato di patto aveva anche quello accessorio di un lascito testamentario: in latino testamentum. Quando si incominciò a tradurre la Bibbia in latino, alla fine del II secolo d.C., il senso iniziale di un’alleanza tra il dio Jahvè e il popolo ebraico si era in gran parte perduto: e con “testamento” si è sempre indicato, d’allora in poi, l’intero contenuto, vecchio il primo, per i cristiani, e nuovo il secondo. Il numero degli scritti di cui si compone il Vecchio Testamento è andato variando di secolo in secolo, sino a che un concilio di rabbini, a Jamnia, in Palestina, verso il 90 d.C., quando già la nazione era stata battuta dai romani, lo fissò a 22, quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico; con qualche rimaneggiamento nella divisione dei libri, si arrivò a 27, cioè le stesse lettere più i cinque segni finali, che hanno nella scrittura corrente una forma leggermente diversa. Già questo computo lascia pensare a manipolazioni di carattere magico o simbolico; tanto più, poi, se si riflette che anche gli scritti del Nuovo Testamento ammontano alla stessa cifra allegorica di 27. In ogni modo, e tenendo conto che i titoli dei vari libri sono stati dati dai greci prima, e dai latini poi, mentre nell’ebraico ogni singolo testo è conosciuto solo dalla prima parola con cui ogni “rotolo” ha inizio, ecco l’elenco dei 27 scritti che compongono la parte più antica della Bibbia:

VECCHIO TESTAMENTO

A) La Legge (Toràh): Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio (il “Pentateuco” o cinque libri).

B) I Profeti (Nebiìm): sono divisi in profeti anteriori (Giosuè, Giudici e Rut, I-II Samuele, I-II Re) e posteriori (Isaia, Geremia, Ezechiele, e i dodici profeti minori raccolti in un solo rotolo).

C) Gli scritti sacri o agiografi (Ketubìm): Salmi, Proverbi, Giobbe, Cantico dei Cantici, Lamentazioni, Ecclesiaste, Ester, Daniele, Esdra e Neemia (I-II Esdra, Cronache).

I samaritani, discendenti dagli abitanti del regno settentrionale, ammettevano come ispirati solo i primi cinque libri (il Pentateuco), escludendo sia gli scritti profetici che quelli agiografici. Essi consideravano il monte Garizim, nella Palestina centrale, come la vera residenza di Jahvè e non riconoscevano il tempio di Gerusalemme. Ancora ai tempi in cui vennero redatti i vangeli, erano disprezzati come eretici ed evitati come impuri: di qui la portata reale degli episodi del “buon samaritano” e della “samaritana al pozzo”, riferiti dagli evangelisti Luca e Giovanni, i più polemici nei confronti della caste sacerdotali gerosolimitane. Oltre ai 27 scritti del Vecchio Testamento ne esistevano però molti altri, che a partire dalla fine del I secolo d.C. gli israeliti di lingua ebraica non vollero più riconoscere, mentre continuarono a essere inclusi, alla fine di tutta la raccolta, sotto il nome misterioso di apocrifi, cioè “nascosti”, “segreti”, dagli israeliti di lingua greca e dai cristiani. Essi sono una decina: Tobia, Giuditta, Sapienza, Baruc, Lettera di Geremia, Preghiera di Manasse, Ecclesiastico, I-II Maccabei, più alcuni passi dei libri di Daniele e di Esdra in lingua aramaica. Il criterio ebraico dell’ispirazione era che Dio poteva aver parlato solo in ebraico: non in aramaico, dialetto popolare, e tanto meno in greco, lingua dei profani. La chiesa cattolica continua ad accoglierli come deuterocanonici, o ispirati in un “secondo momento”; gli ebrei e i protestanti li escludono invece dal canone, cioè dalla “misura” ufficiale degli scritti sacri. La distinzione precisa fra i libri canonici e non canonici risale soltanto al IV secolo d.C.; quella tra i protocanonici e i deuterocanonici è stata introdotta da Sisto da Siena, nel secolo XVI. La questione dell’ispirazione divina della Bibbia, che storicamente non ha alcun senso, è fuori discussione per i credenti. Ogni religione ha i propri scritti “rivelati”. Per i musulmani, il Corano contiene la parola di Dio, scritta in cielo e trasmessa a Maometto dall’arcangelo Gabriele. La Bibbia contiene ingenue e interessanti narrazioni sulla creazione del mondo e dell’uomo, sul peccato originale, sulle primissime generazioni, sul diluvio e sull’arca: sono gli stessi miti che ritroviamo in quasi tutte le religioni del tempo e che sono entrati nella tradizione religiosa ebraica nel corso di lunghi secoli, a contatto con altri popoli, specialmente sotto il dominio dei babilonesi e dei persiani. Ma oltre a questa parte leggendaria, la Bibbia ci offre un abbondante materiale sulla vita economica e sociale delle antiche tribù ebraiche, sulle vecchie leggi, non più comprese e interpretate quindi in modo immaginario, sulla storia delle nazioni con cui Israele è stato in rapporto. Anche le poesie religiose, e in primo luogo i testi profetici, rivestono un notevole valore letterario e sociale. Sotto la denominazione di Nuovo Testamento sono stati riuniti invece, dopo un lungo processo di selezione che è durato quasi 300 anni, dalla fine del II secolo d.C. all’epoca dell’imperatore Giustiniano, i 27 scritti che si riferiscono all’insegnamento di Gesù e dei suoi primi apostoli e continuatori.

A) I quattro vangeli (Matteo, Marco, Luca e Giovanni), dalla voce greca evanghélion, la “buona novella”, l’annuncio del messaggio di Cristo, in versioni diverse e non di rado contraddittorie.

B) Gli Atti, o meglio, secondo il termine greco originale, i Fatti degli apostoli.

C) Ventuno lettere, 13 attribuite a Paolo di Tarso, 1 a Giacomo, 2 a Pietro, 3 a Giovanni, 1 a Giuda (non quello del tradimento) e la Lettera agli Ebrei.

D) L’Apocalisse, cioè la “rivelazione” degli ultimi grandiosi eventi che le antiche generazioni cristiane attendevano da un momento all’altro: la fine del mondo e l’avvento di una nuova società sulla terra, il “regno di Dio” e la “Gerusalemme celeste”.

Questa è la Bibbia, nelle sue due parti fondamentali, considerata oggi ancora come il libro sacro di circa un terzo della popolazione della terra. Le prime traduzioni della bibbia in lingua italiana risalgono al secolo XIII; esse incontrano gravi difficoltà, a causa della diffidenza delle autorità ecclesiastiche, che ammettevano solo la traduzione latina.

CANCELLA I NOSTRI DEBITI

Dei tre principali vangeli che la tradizione ci ha conservato, e che per essere a prima vista strettamente dipendenti l’uno dall’altro vengono detti “sinottici”(il quarto, attribuito all’apostolo Giovanni, appartiene a un genere di letteratura devozionale affine ad alcuni dei manoscritti ebraici scoperti nel 1947 in Palestina),soltanto due, quello di Matteo e quello di Luca, ci danno il testo completo del “Padre Nostro”; ma con delle varianti significative. In Matteo (VI, 12) leggiamo: “Cancella i nostri debiti, come noi li abbiamo cancellati ai nostri debitori”, con una terminologia che riflette più da vicino alcune rivendicazioni di carattere sociale; ma nel vangelo attribuito a Luca (XI, 4) la parola debiti, che pure nel linguaggio greco dell’epoca aveva acquistato un senso aggiuntivo di carattere moralistico, viene corretta in “peccati”: “Perdona i nostri peccati, come noi li perdoniamo a quelli che hanno peccato verso di noi”. L’assimilazione tra i due termini si ritrova anche prima, specialmente nel giudaismo. Ma ad essa hanno certamente concorso elementi di origine sociale, a partire dal momento in cui l’insolvenza del debitore si è tradotta nella perdita della libertà. Nelle parti più antiche del Vecchio Testamento, una delle cause più frequenti di schiavitù, accanto alla guerra, è quella dei debiti. Basti pensare che quando Caio Mario, impegnato nella guerra contro i Cimbri, chiese a Roma, nel 105 a.C. che venissero promossi nuovi reclutamenti di truppe, e i pretori si rivolsero ai signorotti dell’Asia Minore, alleati di Roma, il re Nicomede di Bitinia fece rispondere che la cosa non era possibile perché “quasi tutti i suoi sudditi erano stati ridotti in schiavitù dai precettori di tasse romani per insolvenza fiscale”. Il senato dovette prendere delle misure di emergenza e ordinare che fosse restituita la libertà a tutti coloro che erano diventati schiavi per debiti. Plutarco ci riporta, in una delle sue“Vite”, un episodio singolarmente affine, nelle sue ripercussioni religiose, al dramma della passione e morte di Cristo. È il caso di Clemente III, re di Sparta, che nel corso del III secolo a.C. aveva proposto di far “cancellare i debiti, ridistribuire le terre ed emancipare gli iloti”. Cacciato dai suoi, si rifugiò ad Alessandria d’Egitto, organizzò una rivolta contro Tolomeo IV e di fronte al fallimento si diede la morte. Prima di uccidersi aveva convocato dodici tra i suoi amici e sostenitori per una specie di “ultima cena”: aveva deplorato di essere stato tradito e aveva invitato tutti a desistere da una lotta inutile, come farà Gesù nei Getsemani. Il suo cadavere era stato inchiodato a una croce e il popolino, profondamente colpito dalla sua tragica fine e da una serie di eventi straordinari verificatisi dopo la sua crocifissione, aveva gridato al miracolo e lo aveva proclamato “figlio degli dèi”. Non si può escludere che la storia della “passione” di Clemente III abbia lasciato tracce nell’immaginazione popolare in Palestina.

L’invocazione del “Padre Nostro” relativa alla cancellazione dei debiti ci fa vedere come, nel giro di pochi secoli, il vecchio grido di riscossa delle plebi ridotte in schiavitù per l’impossibilità in cui si trovavano di pagare i debiti usurari imposti dai ceti possidenti, si era definitivamente “alienato” sul terreno religioso e devozionale. Le prime esperienze degli uomini sono profondamente legate alla vita concreta, ai motivi essenziali dell’esistenza, e in primo luogo alla scoperta e all’uso di quegli strumenti di lavoro, che hanno reso possibile il passaggio dallo stato selvaggio a condizioni più elevate di vita sociale. Si può immaginare che cosa può aver rappresentato, per lo sviluppo dell’umanità la scoperta di strumenti come la scure, il martello, l’aratro, la ruota; questi utensili hanno finito col diventare simboli religiosi e oggetti di culto presso i popoli più svariati. Solo più tardi, quando si è perduto il senso del collegamento di quel determinato simbolo con la vita reale, è intervenuta una interpretazione ideologica, che ha finito col prevalere. Per quel che concerne la croce, l’associazione originaria non fu vista con il sole, ma con la raffigurazione grafica della ruota. È certo che la scoperta della ruota ha segnato una tappa importante nello sviluppo della società. La rozza ruota primitiva, con quattro assi trasversali incrociati, è passata dalla vita di ogni giorno all’astrazione religiosa, a testimonianza e riflesso del cammino che l’uomo stava percorrendo sul terreno dello sviluppo pratico. Su questa strada è agevole seguire l’evoluzione del simbolo della ruota, sino alla sua identificazione con il sole, grande ruota raggiata del cielo. Il culto della croce nella primitiva storia cristiana si collega a esperienze sostanzialmente affini. La crocifissione, supplizio inventato forse dai fenici, era diventata da secoli il supplizio della sconfitta degli schiavi ribelli. (Nel 70 a.C. Spartaco con 6000 schiavi vennero crocifissi nella via Appia da Roma a Capua). La più antica immagine della crocifissione che si conosca sino ad oggi è quella intagliata in legno sulla splendida porta della basilica di Santa Sabina, costruita a Roma sotto Celestino I (422 – 432).

IL MITO DELLA SALVEZZA

L’uomo non è potuto arrivare a pensare in termini di colpa e di riscatto, di peccato e redenzione, di dannazione e di salvezza, prima di aver vissuto la tragica esperienza del dolore e dell’oppressione. Il mito della salvezza è la traduzione, in termini ideologici, dell’esigenza di evadere dalla triste condizione in cui la società schiavista ha posto milioni di esseri umani (la massa dannationis di Sant’Agostino), che erano stati una volta liberi e felici, sia pure nel senso storicamente circoscritto della società tribale, e che aspirano alla libertà e alla felicità. Le religioni della salvezza tendono a garantire “in un altro mondo”quella felicità e quella giustizia che sono divenute irraggiungibili sulla terra. L’illusione della redenzione celeste si sostituisce alla speranza della liberazione terrena. Il fatto che molti individui che appartengono alla classe dominante adottino l’ideologia della salvezza non può essere visto come una contraddizione. La società schiavistica “nel suo insieme”, e non la condizione individuale dello schiavo, ha fatto nascere il bisogno della salvezza. Nel momento in cui la società antica comincia a disintegrarsi, e s’indebolisce il senso di sicurezza degli stessi privilegiati, il ricorso al soprannaturale diventa un fenomeno generale. Nella dottrina della colpa e della redenzione si riflette dunque la realtà della servitù e dello sfruttamento. L’idea di un “salvatore” chiamato a liberare anime e corpi dalla sofferenza e dall’espiazione, emerge lentamente da questo tessuto di esasperati contrasti sociali. Il termine stesso di “redenzione” è tratto dalle consuetudini della vita degli schiavi. In latino, “redemptio” denota originariamente l’atto di uno schiavo che riscatta la propria libertà. Gli uomini che sono vissuti, hanno lavorato e penato nel ristretto bacino del Mediterraneo, non erano fondamentalmente diversa da quelli che avevano organizzato la loro esistenza in india o nei paesi dell’Europa nordoccidentale, in Cina o nell’America precolombiana. In tutte queste zone, a eguale fase di evoluzione sociale ha corrisposto eguale fase dell’evoluzione religiosa, il cristianesimo, lungi dal rappresentare qualcosa di “unico”, ha in comune con tutte le altre religioni quegli elementi che scaturiscono da affini condizioni di vita e da analoghe forme di rapporti sociali. Il fatto che in questa parte del mondo lo sviluppo delle forze produttive sia passato per stadi molto più rapidi, a causa di particolari ritmi di progresso della tecnica e della struttura della società, non deve trarci in inganno. La religione cristiana non è mai stata un elemento determinante in questo processo; ma ne ha semplicemente subito il contraccolpo sul terreno dell’ideologia. L’originalità di una religione non va cercata in primo luogo nella sua teologia e nella sua etica; ma nel carattere della società da cui è scaturita. Il che non significa affatto che le idee religiose elaborate dal cristianesimo siano la traduzione pura e semplice di determinate esperienze economiche e sociali. Questa sarebbe una caricatura della storia; le cose non sono mai così semplici. Lo studio delle basi economiche, tecniche e politiche della vita degli uomini costituisce un punto di partenza insopprimibile anche per la conoscenza della religione cristiana; ma le idee, una volta radicate nella coscienza delle masse, acquistano una forza tutta loro, diventano esse pure un dato reale, capace di influire sulla società e modificarla, si sviluppano secondo leggi proprie, che solo con grande cautela è possibile far rientrare sotto un denominatore comune. Nella ideologia cristiana dei primi secoli si rifletteva senza dubbio, il bisogno di emancipazione materiale e spirituale dei ceti subalterni del mondo greco – romano; ma di questa loro esigenza le comunità cristiane prendevano coscienza non sul terreno dell’economia e della lotta politica, ma nel campo del mito, del rito e della teologia. I fedeli non si sentivano dei rivoluzionari e nemmeno dei riformatori sociali; il loro “regno non era di questo mondo”. Ma ciò non toglie che la loro condanna del regno dei ricchi e dei potenti fosse profondamente sentite e sincera. Il concetto cristiano di salvezza, non è rimasto immutato attraverso i secoli. Nell’età feudale e nella società capitalistica il messaggio della redenzione susciterà reazioni ben diverse da quelle che si possono cogliere nei primi tempi della vita cristiana. Naturalmente, passando dall’uno all’altro periodo, ogni religione pretende di mantenere intatto il proprio bagaglio ideologico; e dietro a questa apparente continuità nasconde le profonde differenze determinate dal modificarsi dei rapporti sociali come per tutti gli altri miti, anche il concetto cristiano della “salvezza”, che incide ancora oggi pesantemente sulla vita di milioni di credenti, si afferma e agisce sul terreno delle “idee”; ma la sua origine prima va ricercata sul terreno dei “fatti”. L’uomo non è potuto arrivare a pensare in termini di colpa e di riscatto, di peccato e di redenzione, di dannazione e di salvezza, prima di aver vissuto la tragica esperienza del dolore e dell’oppressione. La realtà della struttura di classe, con la fine della ripartizione comunitaria dei prodotti e l’accumulazione di ingenti ricchezze nelle mani di pochi privilegiati, trasforma la maggioranza degli uomini in una massa senza speranza, la massa dannationis, e fa nascere il sentimento dell’inferiorità, della colpe della condanna.

Il mito della salvezza è la traduzione, in termini ideologici, dell’esigenza di evadere dalla triste condizione in cui la società schiavista ha posto milioni di esseri umani. Il “regno di Dio”, che nella tradizione giudaica aveva finito con l’acquistare il senso abbastanza preciso del trionfo dei giusti sui malvagi, dei poveri sui ricchi, delle vittime sui dominatori, era per i primi cristiani qualcosa di concreto, di reale. Era un regime di benessere e di pace, che avrebbe dovuto realizzarsi “sulla terra” in un periodo assai ravvicinato, grazie all’intervento diretto della potenza divina. Solo più tardi, quando questa prospettiva terrena ha dovuto essere abbandonata in seguito alla piega presa dagli avvenimenti – definitiva caduta di Gerusalemme sotto Adriano nel 135 d.C., crescente repressione da parte delle autorità imperiali, l’idea del “regno” si è sempre più spiritualizzata, sino a divenire l’equivalente di una ricompensa individuale dopo la morte. Lo stesso si può dire per quel che riguarda alcune affermazioni di carattere sociale che incontriamo nei più antichi testi cristiani e che, per il loro contenuto contraddittorio, continuano a sollevare innumerevoli discussioni. Negli scritti del Nuovo Testamento è facile trovare materia per sostenere qualunque tesi. La morale stessa dei vangeli riflette molti dei contrasti che esistevano in seno alla società. Quando leggiamo, ad esempio, nel “discorso della montagna” attribuito a Gesù nel vangelo di Luca: “Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio” (VI, 20), comprendiamo subito che si tratta di un messaggio di conforto e di speranza rivolto ai miserabili, agli sfruttati, agli oppressi, in mezzo ai quali si reclutavano i primi adepti alla nuova religione. E la cosa diventa ancora più chiara, se completiamo tale passo con la maledizione che segue a breve distanza: “E guai a voi, ricchi” (VI, 24).Ma nel vangelo di Matteo, che si rivolge a un ambiente diverso, nel momento in cui le comunità messianiche si erano già sviluppate in mezzo a strati sociali più abbienti, la formula è cambiata: “Beati i poveri in ispirito” (V, 3). In altre parole, beati anche quei ricchi che, pur disponendo di larghi beni materiali, si propongono di vivere spiritualmente come se fossero essi pure dei poveri. Sempre nel vangelo di Luca, troviamo scritto: “Beati voi che oggi avete fame, perché sarete saziati” (VI, 21), è chiaro che si tratta di affamati veri, di mancanza di pane, di gente che soffre per le misere condizioni di vita, ma nella versione di Matteo la situazione non è più la stessa, e la fame diventa soltanto “fame di giustizia” (V, 6). Questo significa che non bisogna chiedere ai testi cristiani quello che non potevano dare, in un mondo caratterizzato da condizioni economiche e politiche che non sono quelle della società d’oggi. È inutile domandarsi quindi se i vangeli rispecchiano le esigenze della morale corrente. La letteratura cristiana primitiva ci deve servire di strumento e di guida soprattutto per conoscere l’ambiente nel quale si è inizialmente mossa la nuova propaganda religiosa.

L’accumulazione dei mezzi di produzione nelle mani di pochi e la possibilità per questa ristretta minoranza di trasformare in una massa subalterna, senza speranza, l’immensa maggioranza degli uomini: ecco il quadro della società dell’epoca in cui è nato il cristianesimo. Si calcola che al tempo di Augusto (63  a.C.-14 d.C.), non vi fossero in tutto il mondo mediterraneo che poche centinaia di uomini liberi. Per mantenere questa esigua minoranza, una sterminata massa di schiavi produceva oggetti d’uso e di scambio, costruiva palazzi e strade, guerreggiava e moriva agli ordini dei padroni, fornendo loro ingenti ricchezze, di cui non poteva minimamente godere. Non si trattava, ne poteva trattarsi di un gruppo omogeneo. Le due classi fondamentali del mondo antico, liberti e schiavi, si spezzettano in una serie di strati intermedi. Le idee espresse da tutti questi ceti, lungi dall’essere coerenti e uniformi, riflettevano una grande varietà di aspirazioni.

LA  LETTERATURA  APOCALITTICA

I cosiddetti “libri profetici” del Vecchio Testamento, suddivisi nei quattro profeti maggiori (Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele) e nei dodici profeti minori (da Osea a Malachia), costituiscono un punto di riferimento essenziale per questa ricerca. Non si tratta di profeti nel senso comune della parola, cioè di “annunciatori del futuro”. Le previsioni dei fatti storici che incontriamo in quelle pagine appaiono tanto più convincenti, in quanto nel momento in cui venivano espresse quei determinati fatti, avvenimenti, si erano già verificati da decenni o addirittura da secoli. Si tratta invece, in primo luogo, di riformatori e predicatori etico-sociali. “Apocalisse” è una parola greca, propria dell’ambiente mediterraneo che ha visto diffonderei la predicazione cristiana. Il suo significato letterale è quello di una “rivelazione”; ma la sua portata reale è quella di un misterioso annuncio di grandiosi sconvolgimenti sociali e di paurosi fenomeni celesti. La più antica delle Apocalissi, nel senso proprio della parola, è il libro attribuito al profeta Daniele, che si richiama ad avvenimenti svoltisi nel VI secolo a.C., ma è stato scritto solo nel II secolo. Di qui hanno preso origine molti dei tratti caratteristici dell’ideologia cristiana: tipica, tra gli altri, la figura del “figlio dell’uomo”, che i primi cristiani interpreteranno in riferimento a Gesù. In aramaico, tale espressione aveva il senso letterale di semplice “uomo”, il comune mortale; ma ha finito per indicare un “uomo speciale”, prescelto per una missione divina, così com’era avvenuto nella concezione ellenica dell’eroe. Ai poveri d’Israele, che attendevano l’avvento del regno della giustizia, i vangeli fanno annunciare, per bocca di Gesù, che il mondo sta per finire e un rinnovamento radicale della società è imminente: “In verità io vi dico che non passerà questa generazione prima che tutto ciò si realizzi” e “In verità io vi dico che alcuni di coloro che sono qui presenti non assaggeranno la morte prima di aver visto il regno di Dio arrivare in tutta la sua potenza” (Marco, XIII, 30; IX). Queste speranze fallirono e si trasfigurarono in un messaggio spirituale di rassegnazione e di redenzione dal peccato; ma ciò non significa che l’idea del regno non abbia costituito una delle componenti decisive della vittoria del cristianesimo e un riflesso ideologico della dissoluzione della società antica.

È più facile a una grossa fune passare per la cruna di un ago che non a un ricco entrare nel regno di Dio”, ammonisce Gesù secondo i vangeli sinottici (Matteo, XIX, 24; Marco, X, 25; Luca, XVIII, 25). (Così si doveva leggere verosimilmente nel testo originario dei vangeli: Kàmilos, grosso cavo, gómena per tenere legati i battelli alla riva e non kàmelos, cammello). Tali errori di trascrizione, cristallizzati dal tempo, sono frequenti in tutti gli antichi manoscritti, sia letterari che religiosi). E aggiunge(Matteo, XIX, 30; Marco, 10, 31; Luca, XIII, 30). : “Molti tra i primi saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi”. E ancora, nel Discorso della montagna: “Beati i poveri perché vostro è il regno di Dio. Beati quelli che ora hanno fame perché sarete saziati”. “Beati quelli che piangono perché riderete […] Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a quelli che ora ridono, perché vi lamenterete e piangerete” (Luca, VI, 20-25). Sono parole che la dottrina sociale della Chiesa interpreta oggi soltanto come un invito all’umiltà e alla penitenza, ma che possono significare ancora per gli sfruttati e gli oppressi una speranza di liberazione.

UN PROBLEMA DI CRONOLOGIA

Ogni popolo, ogni civiltà, si sono sempre richiamati, per il computo degli anni, a qualche avvenimento preciso, di singolare importanza per le loro origini o per le loro tradizioni religiose.
* Gli ebrei partono dal racconto biblico originario per fissare la data della creazione del mondo nientedimeno che il 3761 prima dell’inizio della nostra era;
* I musulmani si rifanno al 622 d.C., che è diventato l’anno 1 dell’Egira, a partire dalla fuga di Maometto a Medina.
* I greci, come è noto, contavano per Olimpiadi, della durata di quattro anni ciascuna, dal 776 a.C. in poi;
* I romani, seguendo i calcoli di Terenzio Varrone, fissarono la data della fondazione di Roma al terzo anno della IV Olimpiade, e cioè al 754 a.C. . È questo l’anno comunemente accettato per stabilire l’inizio della nostra era.
Ma come si è arrivati a decidere che l’anno in cui sarebbe nato Gesù era proprio il 754 dalla fondazione di Roma? Qui entriamo nel campo della leggenda e dell’immaginario. Sino al VI secolo, anche dopo che il cristianesimo aveva preso il sopravvento sulla vecchia religione romana, si era continuato a contare gli anni nel modo consueto, o dalla fondazione di Roma, o dalle elezioni consolari o dalla salita al potere degli imperatori. Solo all’età di Giustiniano, nella prima metà del VI secolo, un monaco scìta, Dionigi il piccolo, vissuto a Roma e compagno di studi di Cassiodoro, si fece eco della nuova esigenza di fissare una cronologia più rispondente al mutare dei tempi. Attraverso calcoli incontrollabili, basati soprattutto sui primi capitoli del vangelo di Luca, egli arrivò alla conclusione che il 1285 dalla fondazione di Roma, anno in cui scriveva, doveva essere fatto corrispondere al 531 dalla nascita di Cristo: l’anno 1 della nuova era sarebbe così incominciato il 1 gennaio del 754 dalla fondazione di Roma. La maggior parte degli storici è solita dire ch’egli si era sbagliato di alcuni anni; ma tale osservazione non ha senso, perché tutti i dati del Nuovo Testamento, su cui Dionigi aveva lavorato, non sono altro che il frutto dell’elaborazione mitica dei primi cristiani. Per oltre quattro secoli, comunque, nessuno prese sul serio il computo del monaco Dionigi. Nei documenti pubblici s’impose solo gradualmente. In Francia e in Inghilterra solo nel secolo VIII, in Germania nel IX, in Italia nel X secolo. A Roma la nuova cronologia venne introdotta ufficialmente solo pochi decenni prima del mille, nel 968, sotto il pontefice Giovanni XIII.

Quanto al 25 dicembre, si trattava in origine, di una festività pagana di tipo solare; vale la pena di aggiungere che anche l’uso di destinare la domenica alla celebrazione del culto collettivo non si è imposto di colpo nella storia della nuova religione. Nei primi secoli dell’impero romano, quando il cristianesimo non era ancora uscito da una posizione subalterna nella società e nello Stato, il settimo giorno della settimana era consacrato al sole, che era da tempo al centro di una religione di salvezza di carattere universale. Era i dies Solis, il “giorno del Sole”, di cui rimane traccia nella terminologia anglosassone, più vicina della nostra alle tradizioni delle primissime popolazioni europee. Il sole era il dominus, il “signore” per eccellenza; il giorno dedicato al suo culto suonava dies dominica, o “giorno del signore”; di qui si è staccata la voce dominica, la nostra “domenica”.

Nel III secolo dell’impero le autorità statali si erano sforzate di raccogliere intorno a questa religione tutti i sudditi, sia in oriente che in occidente, forse anche per contrastare il crescente successo del culto dell’altro dominus, il Cristo; Costantino, dopo il riconoscimento del cristianesimo, dette inizio a quel processo di adattamento che trasferirà, a partire dal IV secolo, ai fedeli del “signore Gesù” le prerogative del giorno consacrato al “signore Sole”. I primi cristiani avevano, è vero, un loro “giorno del Signore”; ma il collegamento con la futura festa domenicale era ben lungi ancora dall’essere avvenuto. Si riteneva che la resurrezione del Cristo avesse avuto luogo nel terzo giorno dopo la sua morte, subito dopo il sabato ebraico; per commemorare l’evento i fedeli incominciarono a riunirsi ogni fine settimana, forse anche per consumare il “pasto sacro”, l’agàpe, o banchetto dell’amore fraterno, atto culminante della loro convivenza religiosa. Ma a questa cerimonia non era ancora associato il concetto del riposo settimanale. Per un tempo non indifferente i fedeli continuarono ad astenersi da ogni lavoro nel giorno di riposo degli ebrei, il sabato; solo più tardi, per marcare il loro distacco dalla matrice giudaica, furono introdotti a far coincidere l’una e l’altra tradizione nella stessa giornata, la nostra domenica, sotto l’influsso della vecchia festività solare. Il “giorno del Signore”, d’altra parte, nelle credenze delle prime generazioni cristiane, designava soprattutto la parousìa, cioè il ritorno del Messia trionfante, il secondo avvento del Cristo sulla terra, per il riscatto del mondo dalla sofferenza e l’inaugurazione del tanto atteso “regno dei cieli”. Si trattava dunque del “gran giorno” finale e non della nostra domenica. Quando prevaleva ancora questa concezione, la lingua delle comunità cristiane era il greco, non il latino; il Signore era il Kýrios – termine che si è conservato nelle litanie intonate ancor oggi dai fedeli – e il giorno in cui sarebbe riapparso sulla terra suonava Kyriaké emèra, il “giorno del Signore”. Di tutte queste vicende è rimasta l’eco nei due nomi, Ciriaco in greco e poi Domenico in latino, adottati al momento del battesimo da molti dei nuovi convertiti. L’obbligo di osservare il riposo domenicale non è stato introdotto che molto più tardi, in ogni caso non prima del VI secolo. Bisogna osservare però che i cattolici hanno sempre osservato questo precetto in modo meno rigido dei protestanti, che si sono talora spinti sino a vietare, la domenica, non solo ogni attività lavorativa, ma anche gli spettacoli, le danze e talvolta i banchetti e i giochi sportivi. Delle leggi severissime adottate nel secolo XVII dai puritani, al momento della guerra civile, sono rimaste in vigore sino a pochi anno addietro in alcuni centri dell’Inghilterra e degli Stati Uniti. In teoria, il diritto britannico contiene ancora una serie di prescrizioni che proibiscono di domenica l’apertura dei teatri, degli stadi e in Scozia persino dei ristoranti e dei bar; a norma di legge, potrebbero venir prese delle sanzioni contro coloro che non vanno in chiesa in quel giorno.

C’è solo da ricordare che anche in Italia si sono avuti, e non solo nel lontano passato, alcuni casi di violazione di libertà di coscienza, con l’imposizione dell’obbligo della Messa domenicale a certe categorie di cittadini, specialmente nell’esercito e nelle scuole. In ogni caso, per tornare all’era cristiana, va ribadito che l’importanza attribuita a tutti questi computi cronologici – tanto che la storia continua a essere divisa in due ere, prima e dopo Cristo – non ha nulla a che vedere con la questione dell’esistenza reale di Gesù. Queste conclusioni della critica possono lasciare perplessi i credenti; ma non scalfiscono minimamente l’importanza dell’avvento del cristianesimo nella storia. È vero che la soluzione proposta dal cristianesimo all’esigenza di emancipazione degli umili veniva trasferita nell’al di là, lasciando intatti i rapporti di sudditanza e di sfruttamento sulla terra. È anche vero che in tutto il resto del mondo, fuori della zone che si estende intorno al bacino del Mediterraneo, lo stesso problema veniva affrontato in altre maniere (giainismo, buddismo, confucianesimo, islamismo ecc.). Ma la storia ha voluto che in quella zona la società feudale e poi quella borghese identificassero i loro princìpi essenziali con l’ideologia cristiana. E nessuno sente oggi il bisogno di cambiare il computo degli anni; ma di cambiare invece i rapporti tra gli uomini, facendoli finalmente corrispondere con quegli ideali di libertà e di eguaglianza che le diverse età hanno sempre sognato.

NUOVA LUCE SUI VANGELI

La pubblicazione dei manoscritti del Mar Morto ha fatto passare in secondo piano altre non meno sensazionali scoperte, che contribuiscono a diradare le nebbie che circondano tuttora i primi secoli della storia cristiana. Si allude al fortunato ritrovamento di tutta una serie di vangeli e altri scritti gnostici, redatti in dialetto copto, e cioè nell’antica lingua egiziana trascritta in caratteri greci, tra il II e il IV secolo della nostra era. I quattro vangeli contenuti nel Nuovo Testamento non costituivano la sola fonte per la conoscenza dell’insegnamento e della vita di Cristo. Centinaia di documenti analoghi hanno circolato nei primi quattro – cinque secoli della storia cristiana. Di alcuni di essi avevamo già il testo o frammenti di testo: il vangelo degli ebrei, dei nazorei, degli egiziani, degli ebioniti, di Pietro, il vangelo arabo di Giovanni, conservato alla Biblioteca ambrosiana di Milano e altri ancora. E il loro valore non è certo inferiore a quello dei testi ufficialmente riconosciuti dalla Chiesa, attraverso un laborioso processo di selezione, come frutto di una particolare “rivelazione”.
Nel 1945, due anni prima che i beduini palestinesi annunciassero di aver ritrovato i rotoli del Qumrân, una famiglia di contadini egiziani, scavando tra i ruderi di un antico cimitero, nel luogo deve sorgeva l’antico villaggio di Khenobóskion, oggi in arabo Nag Hammadi, sulla riva sinistra del Nilo, a nord-ovest di Luxor, portò alla luce una giara di terracotta, che conteneva 14 volumetti di fogli di papiro, rilegati in pelle.
Nessuno di loro poteva rendersi conto dell’importanza della scoperta; un prete copto, chiamato sul posto, non riuscì nemmeno a decifrare la scrittura. Uno dei libretti era stato intanto usato dai contadini come combustibile per preparare il tè; altri dodici vennero venduti per pochi soldi al Museo Copto del Cairo e l’ultimo, intitolato il Vangelo della verità, attribuito alla tradizione eresiologica allo gnostico Valentino, venne acquistato dalla Fondazione Jung in Svizzera e dato alle stampe nel 1956. Qualche anno dopo veniva pubblicato in Francia un altro di questi scritti, detto il Vangelo di Tommaso, che contiene 114 massime attribuite a Gesù.
Nel 1953 erano stati rinvenuti a Ossirinco, sempre nel medio Egitto, tre foglietti di papiro, che riportavano in greco alcuni detti riferiti a Gesù. Si era pensato dapprima che questi frammenti fossero tutto quel che restava di una raccolta di “detti di Gesù” di cui la critica aveva vanamente cercato di ricostruire il testo, sulla base di alcune citazioni dei padri della Chiesa. La loro identità sostanziale con il Vangelo di Tommaso ora rinvenuto ha risolto la questione. Poiché non è escluso che la versione greca e quella copta risalgano a un originale aramaico, ci potremmo trovare di fronte a un documento letterario forse anteriore ai quattro vangeli canonici, che sono stati redatti in greco. I testi di Khenobóskion abbracciano un insieme di circa mille pagine, di cui ottocento integrali. Con tutta verosimiglianza, si tratta della biblioteca di una comunità cristiana che viveva in Egitto tra la fine del II e la fine del IV secolo. Oltre ai due scritti già ricordati, i principali testi portano titoli non meno indicativi: il Vangelo di Filippo, Il Dialogo del Salvatore, la Saggezza di Gesù, l’Apocalisse di Paolo, il Vero discorso di Zoroastro e così via. In tutto, 49 opere di eccezionale interesse, la maggior parte delle quali si temeva fosse andata irrimediabilmente perduta. Non vi è dubbio che grazie a questa scoperta potremo finalmente studiare più da vicino la dottrina dello gnosticismo, che sino ad ora ci era soltanto nota grazie a pochi frammenti superstiti, spesso travisati o male interpretati nelle polemiche dei teologi dei primi secoli.

CHE COSA ERA LO GNOSTICISMO

Il termine gnosis, che in greco significa “conoscenza”, era entrato nel linguaggio religioso del mondo mediterraneo sin da quando erano sorti i nuovi culti di salvezza, o di mistero, che permettevano a tutti, anche ai ceti subalterni, di conoscere il segreto della liberazione dell’uomo dalla sofferenza e dal male, attraverso l’adesione mistica della passione, morte e resurrezione di una figura divina. Sotto questo punto di vista, l’intero cristianesimo primitivo può essere considerato uno “gnosticismo”. Il limite tra ortodossìa ed eresia è stato tracciato più tardi, e per motivi non soltanto religiosi, ma talora anche di chiara ispirazione sociale, dopo che nella struttura delle prime comunità si erano verificati profondi cambiamenti ed era mutato lo stesso clima politico-morale dei fedeli. L’idea fondamentale è quella della divisione degli uomini tra eletti e perduti, spirituali e carnali, tra “figli della luce” e “figli delle tenebre”, secondo la terminologia dualistica di lontana origine persiana. Ma non si tratta di un puro e semplice trasferimento ideologico di vecchi miti zoroastriani, caldei, orfici e giudeo-qumranici. Il dualismo degli gnostici traduceva in termini religiosi la rinnovata constatazione del dualismo sociale nei primi secoli dell’impero romano: la divisione della società tra ricchi e poveri, tra buoni e cattivi, tra oppressori e oppressi, talmente consolidata sulla terra, che solo un intervento soprannaturale avrebbe potuto porvi termine. Di questo contrasto restano tracce notevoli anche nei quattro vangeli ufficiali. Ma il messaggio originario si è meglio conservato in questi documenti “ereticali” di ispirazione gnostica, messi al bando e impietosamente distrutti dalle autorità ecclesiastiche. Di qui l’importanza dei recenti ritrovamenti per arrivare a una valutazione coerente di tutta l’antica storia cristiana.

GRECO E LATINO

Collegare sin dalle sue origini il cristianesimo con l’idea di Roma e della romanità, o con il cosiddetto “spirito latino”, è frutto di pura fantasia al servizio di interessi non sempre chiari. Ci sono voluti tre secoli di lotte e di repressioni, prima che la società romana incominciasse ad assimilare la dottrina cristiana. Sin dall’editto di Costantino del 313 d.C., il cristianesimo era stato l’espressione degli strati meno “romani” del mondo antico. Il processo di romanizzazione della Chiesa, che ha portato alla nascita del cattolicesimo, non ha mai potuto cancellare del tutto l’aspetto non latino, e spesso addirittura antiromano, delle primitive comunità cristiane.

Pur avendo esteso il suo dominio a tutte le regioni del mondo mediterraneo, Roma non era riuscita a imporre la sua lingua che a paesi economicamente e socialmente meno sviluppati, privi di forti tradizioni culturali, come l’Africa settentrionale, la Spagna, la Gallia e la Dacia. La lingua più diffusa, nei primi secoli dell’impero, non era il latino, ma il greco: non certo il greco classico dei tempi di Pindaro e di Demostene, ma quel dialetto popolare, detto “koiné”, o lingua “comune”, che gli eserciti di Alessandro il Grande avevano portato con sé nel corso delle spedizioni militari della seconda metà del IV secolo a.C., e che si era arricchito di termini e costrutti tolti agli idiomi dei più svariati popoli dell’oriente. L’Aramaico in Palestina e il greco nel resto del mondo mediterraneo sono state le lingue parlate dalle più antiche comunità cristiane, non solo in Asia Minore, in Egitto ecc., ma nella stessa capitale dell’impero. Si calcola che allora vivessero a Roma da 50 a 60.000 ebrei, in grande maggioranza schiavi o di umilissime condizioni e quasi tutti di lingua greca, più che aramaica; è tra loro che si sono reclutati i primi cristiani. Lo storico non è in grado di precisare in quale momento il cristianesimo sia stato introdotto a Roma; ma è certo che sino alle fine del II secolo nelle comunità cristiane della capitale non si è parlato latino, ma greco. Tutte le iscrizioni e le lapidi conservate nelle catacombe romane, sino agli inizi del III secolo, sono costantemente in greco. Il nuovo culto era quasi esclusivamente praticato da immigrati di origine orientale, composti di schiavi e liberti, commercianti e piccoli artigiani, che occupavano i quartieri più squallidi della capitale. Era un culto “straniero”: e le autorità imperiali guardavano ai dirigenti di queste comunità come a dei veri e propri agenti sospetti, nemici della legge, della morale e della religione costituita. E come tali li colpirono e cercarono di sopprimerli. I primi scritti latini della letteratura cristiana non provengono da Roma o dall’Italia, ma dall’Africa del nord, regione colonizzata dai romani dopo la caduta di Cartagine. La terminologia del cristianesimo primitivo, nel campo della dottrina, del culto e dell’organizzazione, è interamente greca. Vangelo, epistola, chiesa, prete, vescovo, battesimo, eucarestia, apocalissi, cimitero, catacomba ecc. sono tutte voci derivate dal greco, anche se l’ultima, catacomba, di natura composita, risente già dell’influenza latina. La conoscenza del mondo di lingua greca è indispensabile per approfondire la storia delle origini cristiane.

IL CRISTIANESIMO E LA SCHIAVITU’

La dissoluzione del mondo antico e il passaggio a nuove condizioni economiche e sociali proprie del regime feudale sono caratterizzati dal progressivo estinguersi del regime della schiavitù. Di questo cambiamento il cristianesimo è stato, sul terreno religioso, l’espressione di maggior rilievo; ma non avrebbe senso sostenere, come viene fatto frequentemente, che abbia portato all’abolizione della schiavitù. Della graduale estinzione di questo istituto il cristianesimo non può assumersi il merito. La schiavitù è caduta perché aveva ormai fatto il suo tempo, non rispondeva più allo sviluppo dei nuovi mezzi di produzione, non era più redditizia.

RITI LUSTRALI E BATTESIMALI

Il termine “battesimo”, derivato dal greco, è legato a una vecchia radice indoeuropea baf o bath, che implica l’idea di immergere in acqua, di lavare o di tingere. Alla fine di una lunga evoluzione, tuttavia, il suo senso originario si è in gran parte perduto: quando parliamo di battesimo, oggi, non pensiamo più né a un’immersione né a un lavacro, ma a uno dei sette riti sacramentali, che consiste nel versare un po’ d’acqua sul capo del neonato, alla presenza di testimoni, per garantire il suo ingresso ufficiale nella famiglia cristiana.

L’utilizzazione dell’acqua come elemento di purificazione risale ai tempi più remoti. Se ne hanno tracce archeologicamente dimostrabili, in Asia e in Europa, sin dall’età della pietra levigata e soprattutto agli inizi dell’età del bronzo. Non è escluso che il fatto stesso di aver dovuto costruire i primi centri abitati, per motivi di difesa, sulle rive dei laghi, delle paludi e del mare – le palafitte e le terramare- abbia contribuito ad attirare sull’acqua l’attenzione delle popolazioni preistoriche. Certo è che l’acqua, che regolava il loro modo di vivere e di sussistere, ha finito col dare origine a un culto vero e proprio, di cui ci restano numerose e significative sopravvivenze (venerazione delle sorgenti, dei fiumi, delle acque salutari ecc.). Ma ben presto l’uso dell’acqua nei riti religiosi assume un altro aspetto, che ci porta più vicini al concetto dell’attuale battesimo. Speciali cerimonie di purificazione, intese a liberare un luogo, un individuo o un intero gruppo umano da temuti influssi malefici, si possono riscontrare in quasi tutte le antiche religioni. Si badi però che l’elemento cui si fa ricorso, come lavacro rituale, non è soltanto l’acqua. Intervengono spesso il fuoco, il fumo(fumigazione di incenso, di erbe curative) e qualche volta anche il sangue di persone giovani e valide, sacrificate in modo che il defluire del liquido permettesse la celebrazione di particolari funzioni espiatorie (per esempio nel Messico, sino alla conquista spagnola). Al sacrificio di esseri umani venne poi sostituito quello di vari animali; invece del sangue si usava talora come surrogato l’ocra, per il suo caratteristico colore rosso. L’evoluzione di questi riti lustrali può essere seguita nelle religioni dell’Assiria, di Babilonia, dell’Egitto, dell’India e della Palestina.
In Grecia si usavano dei vasi, pieni di acqua benedetta per spruzzare la vittima e l’assemblea dei fedeli durante il sacrificio.
A Roma, le abluzioni acquistano alle volte, un vero e proprio carattere di massa, con il rito della purificazione collettiva del popolo o dell’esercito.
Nel buddismo tibetano incontriamo riti analoghi, praticati oltre che con l’acqua anche con il vino, l’olio, il miele e persino il sangue e l’orina di determinati animali sacri (lo yack). Sino a questo momento al rito viene attribuito prevalentemente un valore magico, in vista del compimento di alcune funzioni sociali, dell’espiazione di determinate colpe e dell’allontanamento degli spiriti maligni. Non c’è ancora l’idea della rigenerazione spirituale, che monda l’uomo dal peccato e lo fa rinascere a nuova vita. Questo nuovo concetto è entrato nella storia religiosa attraverso i culti del “mistero”, molti secoli prima delle origini del cristianesimo. Troviamo il battesimo nei culti orfici ed eleusini, nei misteri di Iside, di Adone e soprattutto di Attis e di Mitra: il lavacro con il sangue di un toro, o taurobolio, è stato portato dagli eserciti romani sino alle estreme frontiere dell’impero.

Il battesimo cristiano è nato dalla fusione di questi due concetti: il primo esclusivamente magico-espiatorio, non ignoto alla stessa religione giudaica, e il secondo come iniziazione a una nuova esperienza religiosa, che garantisce il riscatto dal male e la liberazione dal dominio delle tenebre, dal “regno del demonio”, l’invisibile potenza personale che nella mitologia cristiana dirige le forze malefiche in opposizione ai disegni di Dio. Diavolo, in greco, è la traduzione esatta dell’ebraico has-satan, “satana”, l’avversario, il calunniatore, il nemico e l’accusatore dell’uomo. Giovanni , detto appunto il Battista, avrebbe per primo invitato i suoi seguaci a farsi immergere nelle acque del Giordano per mondarsi di ogni impurità, in attesa di un altro battesimo, che sarebbe stato conferito loro dal Messia tanto atteso “nello spirito santo e nel fuoco” (Matteo, III, 11). Ma i manoscritti del deserto di Giuda hanno dimostrato che la lustrazione battesimale era già praticata da almeno un secolo sulle sponde del Mar Morto, a pochi chilometri a sud del Giordano, da una comunità di ebrei dissidenti. È in questo clima che si è realizzato il passaggio da un puro e semplice rito di lavaggio rituale al battesimo inteso come “iniziazione” a una nuova esperienza religiosa. A differenza di quanto avviene oggi, nei primi secoli della storia del cristianesimo il battesimo veniva conferito al fedele in età adulta e con un rito collettivo.

Gli aspiranti alla nuova professione religiosa venivano istruiti nei misteri della fede per tutto il lungo periodo quaresimale, in attesa del rito solenne che avrebbe avuto luogo nella notte di Pasqua. Tale era l’uso nella chiesa romana agli inizi del III secolo. Nelle chiese orientali, era quello dell’Epifania; ma nell’uno e nell’altro caso, sino al V-VI secolo d.C., il battesimo si applicava solo agli adulti. L’usanza del battesimo dei bambini, che va collegata con l’estendersi del valore magico del rito – nei primi secoli si era dato anche il caso di fedeli che si facevano battezzare per i defunti – non prevalse che dopo lunghe controversie. Essa è tuttora esclusa, in alcune confessioni protestanti, tra le quali quella dei Battisti: essi praticano l’immersione completa dei fedeli, come avviene nella chiesa greco-ortodossa, mentre i cattolici si limitano al rito detto dell’infusione (un po’ d’acqua versata sul capo del neonato). Nella chiesa anglicana si usa invece l’aspersione: gocce d’acqua spruzzata, come nelle lustrazioni dei greci e dei romani. È interessante, infine, ricordare quel gruppo etnico di lontana origine ebraica, detto dei mandei, che vivono ancor oggi nell’Irak, a poca distanza da Baghdad, e parlano un dialetto aramaico, sia pure modificato e corrotto dal lungo processo del tempo. Essi posseggono dei testi sacri non troppo diversi, nella loro stranezza, da quelli scoperti sulle rive del Mar Morto e praticano il battesimo nelle acque dell’Eufrate, che chiamano il “Giordano”. Siamo di fronte agli ultimi superstiti di quelle antiche comunità? Si tratta, in ogni caso, della sopravvivenza abbastanza precisa di riti e credenze che hanno avuto la loro origine in Palestina, prima ancora che sorgessero le nuove comunità cristiane. I mandei si richiamano a Giovanni il Battista e sono ferocemente anticristiani.

LA CONFESSIONE DEI PECCATI

La confessione privata delle colpe al sacerdote risale al medioevo e ha trovato la sua sistemazione teologica e disciplinare solo nel 1215, al IV Concilio ecumenico lateranense. Sotto questa forma, il cristianesimo dei primi secoli la ignora completamente. Tutte le religioni, sin dai tempi più antichi, ci offrono esempi di riti  espiatori, che hanno al loro centro la confessione pubblica dei peccati. Nella società primitiva, tale prassi è strettamente legata  al concetto stesso di “colpa”. È peccato, al di fuori di ogni valutazione etica, tutto ciò che costituisce una trasgressione della legge del clan o della tribù. La violazione dei complicati tabù, o interdetti che regolano la vita collettiva, mette l’individuo e l’intero gruppo in stato di prevaricazione: mangiare la carne dell’animale sacro da cui il clan si ritiene discendente, riportare un insuccesso nella caccia o nella pesca, sopprimere uno dei membri del clan, essere  colpiti da una misteriosa e grave malattia, unirsi a una donna del proprio clan e così via. Non è il carattere  “morale” di una colpa che costituisce il  “peccato”, ma la sua portata sociale. Di questo rimane traccia nei dieci comandamenti attribuiti a Mosè: la colpa non nasceva ancora dalla violazione di un codice di moralità, ma dalla lesione di un diritto di proprietà. Data questa concezione, si rendeva di tanto in tanto necessaria una pubblica cerimonia, nel corso della quale, attraverso formule magiche e riti talora cruenti, il  “peccato” veniva espulso dal corpo del colpevole o del gruppo nel suo insieme: ancora oggi, nel Kenia e presso i pigmei del Gabon, si dice che la colpa viene  “vomitata”. Ciò soprattutto in caso di calamità pubbliche o private, di epidemie o in vista di qualche impresa, di caccia o di guerra. Perché il peccato sia rimesso, è necessario che venga prima confessato  ad alta voce o proclamato dal capo del clan. Tale pratica persiste presso numerosi popoli dell’Africa, dell’Asia orientale, dell’America centro – meridionale, dell’Artide, della Malesia e dell’Oceania.

Dopo la scissione della società e il prevalere di una classe sull’altra, il “peccato” cambia senso e il rito della confessione assume un nuovo carattere. Da una parte, nasce un codice minuziosissimo, basato sulle leggi padronali; dall’altra, tra i ceti subalterni, il peccato diventa il simbolo di tutto ciò che contribuisce a tener lontani gli uomini dal raggiungimento di uno stato ideale di felicità. Questo concetto è espresso con molta efficacia dall’etimologia del verbo greco amartáno: “sbagliare il tiro”, “mancare il bersaglio” e infine “commettere un peccato”. Il rito della confessione, a partire da questo momento, si evolve rapidamente. A Babilonia, il penitente recita una confessione generica delle colpe che ha commesso, o che inavvertitamente potrebbe avere commesso, alla presenza di un esorcista, che gli legge un lungo elenco di trasgressioni, quasi tutte di carattere pubblico e sociale. Un rito di purificazione conclude la cerimonia.  Nel giorno del Capodanno, le colpe del popolo vengono per virtù magica trasferite in un caprone – presso gli Ittiti si trattava di un agnello – che è poi scacciato e mandato a morire lontano, con il suo carico di peccati. Questa cerimonia è stata adottata dagli ebrei e fissata al decimo giorno del Kippur, o della solenne espiazione. La concezione cristiana dell’”agnello di Dio”, che prende su di sé “i peccati del mondo”, deriva da questo antichissimo rito. Per gli egiziani, abbiamo la prescrizione di una speciale cerimonia di “confessione per i defunti”. Di fronte a un imponente consesso di divinità, presieduto da Osiride, alla presenza di 42 giudici, quanti erano i distretti amministrativi del paese, in nome del morto viene recitata una lunga dichiarazione: “Io non ho commesso peccato, non ho fatto piangere, non ho affamato, non ho ucciso ecc.”. Su una bilancia, alla fine, viene pesato il suo cuore. Se ha detto il vero, potrà entrare nel regno di Osiride; se ha mentito, subirà la punizione degli dèi. In Persia, sono i moribondi che devono sottoporsi alla confessione, specialmente per quel che concerne la violazione delle leggi del puro e dell’impuro.

A conclusione, il sacerdote esorcista pone sulle loro labbra qualche goccia di haoma, una pozione sacramentale affine all’estrema unzione: si tratta della stessa bevanda indo-iranica che è detta in sanscrito soma, preparata col succo di una pianta inebriante mescolato con acqua, latte o miele. Nel buddismo, la confessione pubblica dei peccati viene prescritta per tutti coloro che hanno scelto la via del monaco. Il rito è stato attribuito allo stesso Buddha; ma se ne parla soltanto in trattati liturgici che non risalgono più in là del I o II secolo della nostra èra. Questa cerimonia si svolge due volte al mese, a luna piena e a luna nuova, di fronte all’intera comunità. Il monaco più anziano legge a voce alta, alla luce di una torcia, una dettagliata lista di colpe, invitando per tre volte ciascuno dei presenti a confessarsi. Il silenzio è indice di coscienza pura. Chi si è macchiato di uno dei quattro peccati capitali – incontinenza, omicidio, furto e superbia – viene immediatamente espulso dall’ordine. Qualcosa di simile si legge nella Regola di vita comune che fa parte dei manoscritti del Mar Morto. E non molto diverso era il rito praticato nelle comunità cristiane dei primi tre – quattro secoli. La confessione era pubblica e costituiva una premessa all’iniziazione battesimale o al rinnovo della professione di fede. Tre colpe erano imperdonabili: l’omicidio, l’apostasia e l’adulterio.

A poco a poco, però, l’assoluzione venne estesa anche a questi peccati, ma per una sola volta e a prezzo di una pesante pubblica penitenza. Il termine evangelico metánoia, che in greco significa “cambiamento di vita”, “conversione”, è stato reso in latino con  poenitentia, “pentimento”; ma ciò non ha nulla a che vedere con la confessione dei peccati. Partendo da questa constatazione, anzi, Martin Lutero dette inizio alla sua “protesta” nel 1517.

Nel IV secolo, dopo il riconoscimento del cristianesimo da parte dello Stato, la confessione pubblica delle colpe entrò nell’uso conventuale: i monaci si videro imporre digiuni e preghiere, in espiazione delle colpe che avevano commesso di fronte al capitolo riunito. Sembra che la trasformazione del rito da pubblico in privato, con la confessione dei peccati all’orecchio del sacerdote, detta perciò auricolare, abbia avuto inizio nel VI-VII secolo in seno alla Chiesa celta, in Inghilterra e in Irlanda, dove il clero era prevalentemente reclutato tra i monaci; nel 789 Carlo Magno tentò di imporla a tutti i fedeli del suo impero. Ma dovevano passare molti secoli prima che la chiesa si decidesse a renderla obbligatoria, almeno una volta all’anno, come un  “sacramento”, la cui istituzione venne attribuita allo stesso Gesù. Come contrappeso alla confessione privata dei peccati, venne elaborato il concetto del “segreto confessionale”: le colpe non devono essere rivelate a nessuno, a meno che “l’interesse superiore della Chiesa lo esiga”.  La formula è abbastanza larga e può dar luogo ad abusi, come spesso è avvenuto.

ORIGINI DEL CELIBATO ECCLESIASTICO

Nel III secolo San Girolamo traduce il testo originale dei vangeli (dal greco al latinoVulgata) le parole di Gesù agli apostoli: “andate prendete con voi le vostre sorelle come donne” in “andate prendete le vostre donne come sorelle”.
Il divieto fatto ai preti di contrarre matrimonio nella sua forma attuale, risale tutt’al più al secolo XII: solo nel 1123, sotto papa Callisto II, il I Concilio ecumenico Lateranense lo rese normativo per tutto il clero. Nei primi secoli della storia della chiesa ai sacerdoti, preti e vescovi, era concesso di sposarsi e di avere famiglia; per i ranghi più elevati della gerarchia prevaleva solo il divieto di passare a seconde nozze, in caso di vedovanza.

In alcuni scritti del Nuovo Testamento il matrimonio viene quasi posto come condizione per accedere alla dignità sacerdotale (Lettera a Tito, I, 5, 6). Solo sotto l’influenza dei movimenti monastici e di una concezione ascetica e rinunciataria della vita – uno degli effetti della disgregazione economica e ideologica del mondo antico – s’incomincia qua e là a contestare al clero il diritto di vivere in matrimonio; ma nel disciplinare tale questione la Chiesa occidentale si è separata da quella orientale.

Nella Chiesa greco-ortodossa, nella Chiesa russa, nelle Chiese copta ed etiopica, i sacerdoti si sposano regolarmente; è però raro il caso di vescovi che contraggono matrimonio dopo l’ordinazione. Il matrimonio del clero è normale in seno alle chiese nate dalla riforma protestante. Il celibato ecclesiastico non è stato accettato in occidente senza opposizione. Papa Siricio con il sinodo del 386 lo aveva prescritto per l’Africa e per la Spagna; ma non osò neppure estenderlo ufficialmente a Roma e all’Italia. La legge canonica sul celibato ecclesiastico interessa prevalentemente tutti i sacerdoti latini del clero diocesano appartenente alla Chiesa d’occidente, cioè di rito latino, diffusa nel mondo.

Le Chiese d’oriente, sia cattoliche che ortodosse, fin dai tempi apostolici hanno lasciato libertà ai loro ministri di optare per tempo se vogliono espletare il ministero pastorale in cura d’anime da sposati o da celibi. La tradizione è talmente pacifica che sia la gerarchia sia i fedeli tengano in uguale considerazione e rispetto il prete “uxorato” e quello “celibe”, apprezzandolo per ciò che ognuno riesce a realizzare e non per il suo stato civile. In occidente la legge del celibato va incastonata nel contesto storico – politico del primo millennio, attraverso l’idea della reviviscenza del Sacro Romano Impero realizzato da Carlo Magno e i suoi successori; impero che sarebbe dovuto restare indiviso, come la Chiesa di allora. L’esperienza aveva dettato a Carlo Magno (742 – 814) che i principati gestiti dai vescovi monarchi alla loro morte, tornavano sotto la potestà dell’imperatore, che provvedeva a nominare il successore. Al contrario dei principi con prole, che provvedevano a dividere e suddividere il proprio territorio in contee e ducati, tanti quanti erano le discendenze. Conveniva dunque affidare e unificare nelle mani del vescovo il ducato diocesano. Ma per avere vescovi senza prole bisognava preparare un presbiterio di preti celibi, dai quali scegliere i vescovi. In questa prospettiva politica, la giurisprudenza dei regnanti longobardi e merovingi, contenuta da leggi chiamata decretalia, capitularia, edicta, decreta, ecc., impongono dettami sul comportamento di vita sacerdotale e di stato celibatorio, oltre che dei religiosi, anche del clero diocesano. I vari concili e sinodi regionali o nazionali di quel periodo non fanno che adeguarsi concordemente alle disposizioni del braccio secolare recependole man mano nella norma canonica della Chiesa.

Il Concilio di Trento (1545 – 1563) è la risposta della chiesa di Roma alla Riforma protestante. Sancisce il centralismo papale, riorganizza la chiesa cattolica sul piano teologico e disciplinare, istituisce e rinforza gli strumenti di controllo dell’ortodossia (indice dei libri proibiti, Santo Ufficio, tribunale dell’inquisizione). Fu soprattutto ai gesuiti, ordine fondato da Ignazio di Loyola nel 1534 con il nome di “Compagnia di Gesù”, che venne affidata l’opera di riconversione degli eretici e di controllo delle coscienze attraverso scuole e università. Fu una pietra miliare e segnò la riforma più severa per i luoghi formativi dei chierici – diocesani e religiosi prima di ordinarli sacerdoti – i seminari. La preoccupazione di mantenere indivise le proprietà delle chiese, dei vescovadi e dei conventi, in età feudale, ha contribuito non meno dei motivi morali a sanzionare l’obbligo del celibato: impedendo la formazione di famiglie sacerdotali e la nascita di figli legittimi si rendeva più difficile lo spezzettamento dei feudi ecclesiastici. Contro i preti “concubinari” si scagliarono soprattutto i monaci benedettini e la pressione divenne irresistibile con la riforma di Cluny, nel secolo XI.

Sul terreno strettamente religioso, come si è arrivati alla pratica del celibato dei sacerdoti, che è sconosciuta in quasi tutte le grandi religioni e si mantiene oggi soltanto in seno al cattolicesimo e in qualche setta musulmana, come per esempio i dervisci? L’idea del celibato come norma permanente di vita non solo è estranea ai culti dell’età tribale e gentilizia, ma è in diretta contraddizione con una delle manifestazioni più diffuse dell’antica religiosità: il culto degli antenati. Per garantire ai defunti la tranquillità oltre la tomba, si rendeva indispensabile assicurare loro dei discendenti sulla terra.

A Creta e a Sparta il matrimonio era imposto dalla legge. In Atene, la raccomandazione equivaleva a un obbligo. Solo da Platone in poi, nel IV secolo a.C., s’incomincia a tessere l’elogio della vita celibataria, sotto l’influenza di dottrine dualistiche di origine persiana – il contrasto tra la carne e lo spirito – e in forme spesso ambigue, quali l’apologia delle pratiche omosessuali. Roma è sempre stata avversa al celibato; rigorose leggi in materia vennero prese ai tempi di Augusto e rimasero in vigore sin dopo Costantino. Se questo è vero in linea generale, va tuttavia osservato che in seno alla società primitiva numerose regole e proibizioni circondavano, in determinati momenti, lo svolgimento dei rapporti sessuali e delle stesse funzioni matrimoniali: per esempio, durante la caccia, o in tempi di guerra o nel corso di solenni festività.

È da allora che incomincia a introdursi nella coscienza dell’uomo l’idea che i legami sessuali, e della stessa convivenza matrimoniale, possano alle volte essere impuri e dannosi. All’astinenza si dà dapprima un semplice carattere magico. L’individuo deve essere in pieno possesso delle sue energie per compiere determinati riti: iniziazione al clan o alla tribù, cerimonie propiziatrici di ogni genere, specialmente in caso di guerre o di calamità naturali. Intorno all’unione tra uomo e donna incominciano così ad accumularsi tabù e divieti di carattere provvisorio o permanente. In un secondo momento, si delinea il concetto che chi si accosta alla divinità deve essere in uno stato di totale, anche se temporanea, purità sacrale: quella che i monaci chiamavano castimonia, o castità rituale. Di questo tipo era la verginità imposta alle Vestali, circondata da severe proibizioni, che ci sono state tramandate anche dalla leggenda.

Il cristianesimo delle origini, invece, non conosce nessuna regola generale di astensione dalla vita matrimoniale. I consigli in questo senso, che s’incontrano in alcuni passi delle lettere attribuite all’apostolo Paolo non rispondono a preoccupazioni di carattere etico – religioso, ma alla convinzione che la fine del mondo è imminente. Grandi tribolazioni attendono i fedeli. In vista dei pericoli che occorrerà affrontare a breve scadenza, nei giorni del dramma apocalittico finale, si suggerisce ai genitori di mantenere nubili le proprie figlie e ai fedeli di non assumersi il peso di nuove famiglie: in tal modo, tutti saranno meglio in grado di far fronte alle prove delle “imminenti tribolazioni” (Prima lettera ai Corinzi, VII, 26). La prassi monastica del IV secolo ha dato un senso più rigoroso, di carattere teologico, al vecchio conflitto tra vita materiale e vita spirituale, che nel Nuovo Testamento non usciva sostanzialmente dall’antica impostazione dualistica, a sfondo più sociale che religioso. Il mito di origine manichea di una caduta originaria dovuta a trasgressioni di regole sessuali, estraneo al cristianesimo delle origini, ha fatto proprio il pensiero agostiniano, ha senza dubbio esercitato una influenza decisiva in questa direzione. La castità viene vista allora come una condizione privilegiata per arrivare alla salvezza: Di qui l’opposizione allo stato matrimoniale, se non altro per coloro che vogliono dedicarsi al servizio delle cose sacre. Ma quando si arriva a questo momento, nulla esiste più delle condizioni sociali, economiche e religiose che hanno reso possibile l’antica struttura organizzativa della Chiesa e il cristianesimo si è ormai radicalmente trasformato.

IL CLERO

Nei primi secoli della storia del cristianesimo il clero veniva eletto direttamente dai fedeli, per semplice alzata di mano. Il vescovo, nelle principali sedi dell’occidente, veniva scelto di comune accordo dal clero e dal popolo, riuniti in assemblea. L’elezione del vescovo di Roma non differiva allora sostanzialmente da quella dei titolari delle altre diocesi.

storia-religioni-23

I Termini greci che nel cristianesimo indicano coloro che esercitano a vari livelli le funzioni ecclesiastiche – presbýteroi, “preti”, episkopoi, “vescovi” ecc., sono la traduzione esatta di quelli che troviamo in ebraico nei manoscritti del Mar Morto. Diversa è la storia del nome papa, per indicare il capo della Chiesa cattolica; il titolo di “sommo pontefice” o “pontefice massimo”, che era stato esteso agli imperatori romani sino a Giustino I, nel VI secolo, è entrato nell’uso ecclesiastico solo agli inizi del Rinascimento, a partire da Pio II (1458 – 1464). Papa è la forma latinizzata del greco popolare pápas, variante di páppas, “padre”, da cui deriva páppos, il “nonno paterno”, l’avo, l’antenato. Non è del tutto certo che l’appellativo Pápas, attribuito in Frigia al dio Attis, intorno al quale si svolgeva uno dei culti di salvezza più diffusi nel bacino orientale del Mediterraneo, abbia la stessa origine; ma la cosa è estremamente possibile. Il nome è stato dato a poco a poco ai sacerdoti cristiani e poi soltanto ai vescovi. Nella chiesa greca ha finito coll’essere riservato ai patriarchi di Antiochia, Gerusalemme, Alessandria e Costantinopoli; ma nell’uso corrente è stato spesso applicato anche ai semplici preti. Vi è ancora qualche villaggio, nell’Italia meridionale, dove non si è del tutto perduta questa antica denominazione di origine bizantina, segno di affettuoso rispetto.

Nella Chiesa russa il sacerdote viene detto pop – al genitivo papà – in italiano pope. In occidente, sino al IV-V secolo, ogni vescovo poteva venir chiamato papa; poi gradatamente il titolo è stato riservato al solo vescovo di Roma. Per alcuni secoli, tuttavia, continuarono a esser chiamati così anche vescovi di altre sedi; nel VII secolo, san Gallo fa uso del termine parlando di Desiderio di Cahors. Per risolvere la questione ci volle un concilio: Gregorio VII, al sinodo romano del 1073, fece decretare che nessuno potesse fregiarsi di tale titolo se non il vescovo di Roma. La voce Papatus, tuttavia, non s’incontra prima del secolo XII, nella “Cronaca” di Leone Ostiense. Il candidato a tale ufficio era di solito l’arcidiacono, il personaggio più eminente dell’amministrazione ecclesiastica della città di Roma. In teoria, ogni fedele di sesso maschile poteva aspirare alla dignità di vescovo di Roma; ma in pratica non tardarono a manifestarsi alcune restrizioni. Già il sinodo romano del 769 precludeva l’accesso al pontificato a tutti coloro che non fossero almeno cardinali presbiteri o diaconi; ma anche in tal caso l’elezione doveva venir fatta dal clero della città, con il concorso dell’aristocrazia e del popolo. Dovranno passare alcuni secoli, prima che il diritto di scelta venisse riservato ai soli cardinali riuniti in sacro collegio. Alla fine del IX secolo, l’elezione era ancora affidata ai vescovi, cardinali e al clero di Roma, alla presenza del senato e del popolo; Niccolò II, nel 1059, ridusse la partecipazione del clero e del popolo a un puro e semplice assenso, sulla base del processo di accentramento feudale che caratterizza l’intera struttura religiosa dell’epoca.

PATRISTICA

Quando il cristianesimo, per difendersi dagli attacchi polemici e dalle persecuzioni, e per garantire la propria unità contro sbandamenti ed errori, dovette venire in chiaro dei propri presupposti teoretici e organizzarsi in un sistema di dottrine, si presentò come l’espressione compiuta e definitiva della verità che la filosofia greca aveva cercata, ma solo imperfettamente e parzialmente raggiunta. Una volta postosi sul terreno della filosofia, il cristianesimo tenne ad affermare la propria continuità con la filosofia greca ed a porsi come l’ultima e più compiuta manifestazione di essa. Giustificò questa continuità con l’unità della ragione, che Dio ha creata identica in tutti gli uomini e alla quale la rivelazione cristiana ha dato l’ultimo e più sicuro fondamento.

Con ciò affermò implicitamente l’unità della filosofia e della religione. Nell’elaborazione dottrinale che il cristianesimo subì nei primi secoli dell’era volgare, i “Padri della Chiesa” furono frequentemente aiutati e ispirati, com’era inevitabile, dalle dottrine delle grandi scuole filosofiche pagane; e specialmente dagli Stoici essi attinsero molte delle loro ispirazioni. Il periodo di questa elaborazione dottrinale è la “Patristica”. Padri della Chiesa sono gli scrittori cristiani dell’antichità, che hanno contribuito all’elaborazione dottrinale del cristianesimo e la cui opera è stata accettata e fatta propria dalla Chiesa. Il periodo dei Padri della Chiesa si può considerare chiuso con la morte di Giovanni Damasceno per la chiesa greca (754 ca.) e con quella di Beda il Venerabile (735) per la chiesa latina. Questo periodo può essere distinto in tre parti. La prima, che va sino al 200 ca., è dedicata alla difesa del cristianesimo contro i suoi avversari pagani e gnostici. La seconda, che va dal 200 sino al 450 ca., è dedicata alla formulazione dottrinale delle credenze cristiane. L’ultima, che va dal 450 sino alla fine della patristica (735 ca.), contrassegnata dalla rielaborazione e sistemazione delle dottrine formulate. La vera attività filosofica cristiana comincia coi “Padri apologisti” nel II secolo. Questi padri scrivono in difesa (apologia) del cristianesimo. In questo periodo i cristiani sono osteggiati dagli ebrei come stranieri e sono perseguitati dai pagani.

La prima grande figura di Padre apologista e il vero fondatore della patristica è Giustino, nato nel primo decennio del II sec. a Flavia Neapolis, l’antica Sichem, ora Nablus in Palestina.

SAN GIUSTINO

Scrittore e martire cristiano (nato intorno al 100 – morto a Roma, 165 ca.). Filosofo aderente al platonismo, si convertì al cristianesimo; apologista, insegnò a Roma dove disputò anche con il filosofo cinico Crescente che forse lo denunciò al prefetto Giunio. Fu martirizzato. Ha scritto due Apologie: La Seconda, dedicata a Antonino Pio, a Marco Aurelio, a Lucio Vero e al Senato, difende i Cristiani dalle accuse loro mossegli, confuta le dottrine dei Pagani e tratta dei rapporti tra religione e filosofia. L’altra, più breve, è da molti considerata un’appendice della Seconda, ed è ancora diretta al Senato.

SANT’IRENEO

(Smirne 135? – 203?). Padre della Chiesa, discepolo del martire San Policarpo; fu vescovo di Lione nel 178. Autore del “Trattato contro le eresie”; “Smascheramento e confutazione della falsa gnosi”; “Dimostrazione della predicazione apostolica”.

SANT’AMBROGIO

Vescovo, santo, dottore della Chiesa (Treviri, 334 o 340 – Milano, 397. Di famiglia nobile e cristiana, ricevette una formazione giuridica e fu governatore della provincia ligure – emiliana: a Milano placò con mano ferma i gravi dissidi fra cristiani e ariani e la cittadinanza lo volle suo vescovo. Modello di vita cristiana, Ambrogio si spogliò di ogni suo bene terreno a beneficio della Chiesa, condusse vita ascetica e assieme attiva, aprendo la sua casa a tutti, aiutando i bisognosi nell’anima e nel corpo, predicando e promuovendo la riforma dei costumi nella saldezza dell’ortodossia: suo illustre figlio spirituale sarà Sant’Agostino. La sua predicazione si sostanziava della chiara argomentazione dei padri greci e del senso pratico di quelli latini dando come felice risultato opere teologiche (De fide, De Spiritu Sancto, De incarnatione) e morali (De officiis ministrorum, De poenitentia, De virginitate). Fermo contro ogni errore, non fu da meno contro l’autorità civile: l’imperatrice Giustina dovrà piegarsi al rigore dottrinario di Ambrogio e cosi pure Teodosio: dopo l’eccidio di Tessalonica non varcherà la soglia del tempio se non dopo una giusta penitenza. Con tatto e fermezza vinse l’arianesimo a Milano, affermò l’autorità morale della gerarchia ecclesiastica, riformò i costumi nel clero e fra i fedeli, combattendo le debolezze morali, del suo tempo, la lussuria e l’avarizia: a chi dimenticava la propria dignità di cristiano nei disordini della carne indicava l’ideale della verginità come meta ardua ma non irraggiungibile; a chi era avido di beni terreni ricordava che non era padrone delle sue ricchezze, ma solo un temporaneo amministratore, che avrebbe reso conto del suo operato al vero padrone, Dio. Alla sua comunità ecclesiale diede il senso dell’unità interiore nella veneranda communio di tutte le chiese nella loro unione con la Chiesa romana. Conoscitore del suo popolo, gli offrì l’ispirazione fluida, limpida dei suoi inni in agili dimetri giambici, perché espandesse il suo spirito non solo nella preghiera ma anche nella gioia del canto. Anche l’intera liturgia dei diversi atti di culto riceverà l’impulso della sua intensa spiritualità e si chiamerà “rito ambrosiano”.

SAN GIROLAMO

Dottore della Chiesa. Grande erudito, (Stridone, Dalmazia, 347 ca. – Betlemme, 420). Avviato agli studi a Roma, fu discepolo del celebre grammatico Donato; Una lunga serie di viaggi lo portarono in Antiochia, dove fu costretto a fermarsi perché colpito da malattia; qui ebbe modo di studiare e apprendere il greco e l’ebraico. Ordinato sacerdote, riprese il suo viaggio; a Costantinopoli ebbe a maestro Gregorio di Nazianzo e conobbe Gregorio di Nissa. Nel 382 papa Damaso lo chiamò a Roma affidandogli l’incarico di segretario, incarico che tenne fino a tutto il 384; nel 386 si trasferì a Betlemme, dove morì. Fu tra i grandi padri della Chiesa, spicca per la sua profonda erudizione e la prodigiosa attività letteraria che gli procurò una celebrità senza precedenti. Si occupò di traduzioni dal greco (Cronaca di Eusebio di Cesarea; Intorno allo Spirito Santo di Didimo il Cieco; Le omelie su Geremia, Ezechiele, sul Cantico dei Cantici, su Luca, su Isaia, ecc;. Ma la gloria maggiore è legata alla sua versione latina della Bibbia dai testi originali, detta Volgata. Partecipò alla polemica religioso-teologica scrivendo i tre libri Contra Pelagianos; scrisse diverse agiografie (Vita Pauli; Vita Malchi; Vita Hilarionis), un tentativo di storia della letteratura cristiana (De viris illustribus) e molte lettere. La figura di Girolamo va ricordata fra gli esempi di ortodossia religiosa, fra le personalità forti dagli ideali intolleranti di ogni compromesso, ma soprattutto per serietà di studioso, per solidità di cultura e abilità di scrittore.

Il Calendario delle Religioni

  • Calendario Cristiano       – anno 2003
  • Calendario Ebraico         – anno 5763 – 5764
  • Calendario Buddista       – anno 2563
  • Calendario Islamico       – anno 1424
  • Calendario Cinese           – anno 4701
  • Calendario Indù              – anno 2060
  • Calendario Sikh               – anno 535
  • Calendario Baha’i           – anno 160

I Calendari si diversificano secondo le diverse Culture

Per l’Occidente seguono il ciclo Solare, per l’Oriente invece quello Lunare, prima diversità fondamentale. Così le Feste esprimono Culture e Religioni diverse, tutte celebrano la universale vocazione umana alla vita e alla gioia.

Baha’i: la via dell’unità del genere umano.

storia-religioni-25

La Fede Baha’i fu fondata in Persia, in ambito islamico, dall’ultimo dei profeti, Baha’u‘lla (Splendore di Dio) (1817 – 92); da allora i suoi adepti aumentarono molto più di quelli di ogni altra Religione. Suo figlio erede Abbas Effendi fu il primo e grande Missionario della nuova Fede universale e pacifista: nel 1992 i Baha’i erano 6 milioni, in più di 200 Paesi. Le Feste seguono il calendario solare con 19 mesi di 19 giorni ciascuno, tra il 18° e il 19° mese ci sono 4 giorni o 5 negli anni bisestili da aggiungere. Il 21 marzo si ha il Capodanno, e dal 2 al 20 di marzo, che è il 19° mese, 19 giorni di digiuno in preparazione al nuovo anno.

Buddhismo: la via della liberazione

storia-religioni-26

Nasce in India nella “Regione di Mezzo”, estesa a sud dei monti dell’Himalaia fino al Gange, il fiume Sacro, tra Delhi, capitale dell’India, e Banares, dove il Fondatore, il principe Siddharta della famiglia Gautama, fu riconosciuto come il Buddha (Illuminato) e mise in moto la Ruota della vita. L’India non diede spazio al Buddhismo, che rivoluzionava il Credo (eccessivo spazio al sacrale) ed il sistema sociale delle caste Indù, esso invece trovò terreno fertile fuori, fino agli estremi confini orientali prima, poi verso occidente. Le Feste sono tante e risentono delle diverse realtà dei diversi Paesi, è impossibile farle combaciare, se non altro nei tempi, occorre fare una scelta per presentare la data persino della festa del Buddha o Wesak, dove si celebra la sua nascita, illuminazione e morte, quella dalla comunità di Hong Kong è in maggio, in Sri Lanka è in aprile.

Cristianesimo: la via dell’Amore del Padre

storia-religioni-27

Gesù Cristo “l’Unto” di Dio, è il Messia atteso dal Popolo Ebraico, Egli è il Mistero dell’Incarnazione di Dio Uno e Trino, Padre – Figlio – Spirito. Con la sua vita, morte e Resurrezione è il Salvatore per tutta l’Umanità. Lasciò alla Chiesa, Comunità di Credenti, il compito di testimoniare la Sua Buona Notizia in tutto il mondo. Le Feste più importanti per tutti i Cristiani sono: Pasqua, Natale, Pentecoste. Le celebrazioni avvengono in giorni diversi a seconda del calendario utilizzato. Ad esempio gli Ortodossi che utilizzano il calendario Giuliano, celebrano il Natale il 7 Gennaio, mentre Cattolici, Anglicani, Luterani, ecc., che utilizzano il calendario Gregoriano, lo celebrano il 25 Dicembre. La Chiesa Ortodossa d’Etiopia ed Eritrea festeggi, in particolare, l’11 Settembre il Capodanno ed il 27 Settembre Meskel (Festa del Ritrovamento della Croce di Cristo).

Ebraismo: la via del popolo scelto

Va” nel Paese che ti indicherò… farò di te una grande Nazione… ed in te saranno benedette tutte le famiglie della Terra” (Gen. 12,1-3). Questo è il mitico inizio, raccontato dalla Bibbia, dell’Ebraismo. Circa 4000 anni fa’, YHWH (Dio) parla ad Abramo, lo benedice e stringe con lui e con la sua discendenza un’Alleanza per sempre. Come impegnò Abramo, ogni Ebreo, dovrà essere integro e camminare davanti a YHWH, annunciandolo. Il Popolo è scelto per la sua Missione. Feste più sono le gioiose Pasqua (Pesach), Pentecoste (Shavuoth) e Festa delle Capanne (Sukkoth) tutte con pellegrinaggio al Tempio. Esse segnano la Storia d’Israele dall’Esodo verso la Liberazione, per il Sinai dove c’è il dono della Legge (Shavuoth), fino alla Terra promessa e le sue Capanne. Poi ci sono le Feste delle offerte al Tempio e più austere Capodanno, che è la prima festa dell’anno, si celebra in autunno ricordando la creazione del mondo, e Giorno dell’Espiazione (Kippur), dieci giorni dopo Capodanno. Kippur è la festa della liturgia della Sinagoga, dura tutto il giorno, con le accuse dei peccati e richiesta della misericordia di YHWH. Feste minori sono quelle della Dedicazione o Festa delle Luci (Hanukah), in dicembre, ed infine la Festa delle Sorti (Purim) tra febbraio e marzo, che ricorda la salvezza dai persiani.

Induismo: la via dell’identificazione

storia-religioni-29

L’Induismo è l’unità religiosa di spiritualità e tradizioni popolari antiche come l’India. Non è possibile identificare un qualche fondatore particolare. L’India, infatti, è il continente che prende nome dal fiume Indo, e tutto ciò che riguarda l’India è detto Indù: abitanti, razze, culture, filosofie, religioni e sistemi sociali. Il termine usato dai credenti Indù per riconoscere la loro Religione è Dharma – armonia, ordine, legge. Anche se le Divinità sono tante, esiste il corrispondente di un Dio Supremo, Creatore ed Origine di tutto: Brahman. Esso è il Supremo Spirito, senza forma o sembianza, che è ovunque e in ogni essere vivente. Si è anche incarnato in diverse forme umane: Krishna, Vishnù e Rama sono le sue espressioni Divino-Umane più famose. Feste: ovviamente tantissime, diverse a seconda dei luoghi e culture, compresa la più comune Diwali o delle Luci, in novembre-dicembre.

Islam: la via della sottomissione ad Allah

storia-religioni-30

L’Islam (Sottomissione) nacque per la Predicazione del Profeta Muhammad, nato alla Mecca intorno al 570 d.C., morto nel 632 a Medina. L’Islam si sparse a macchia d’olio nel mondo Arabo prima, ed oggi, con un miliardo di fedeli, è divenuta la seconda Religione per numero dopo il Cristianesimo. Per la continuità e diffusione dell’Islam furono decisivi Omar, compagno del Profeta, e Abu Bakr, perché organizzarono la Comunità e fondarono il ruolo di Califfo, cioè il Vicario del Profeta in Terra. Il Testo Sacro è il Corano (Recitazione), che riporta la recitazione del Profeta della Rivelazione ricevuta da Dio e trascritta dai suoi primi Discepoli. Il Corano si pone come il compimento della Rivelazione Divina e Muhammad è l’ultimo dei Profeti di Dio, mentre Cristo fu uno dei precedenti, assieme a Mosè ed Abramo. Il Simbolo è la Mezzaluna con una Stella ad indicare il cammino e, soprattutto, il Paradiso come Meta. Le Feste islamiche o mussulmane sono mobili perché seguono il calendario lunare di 29 o 30 giorni. Il 1° giorno del primo mese (Muharram) è il Capodanno, che ricorda il viaggio (Hijra) del Profeta a Medina. Il nono mese è quello del Ramadan ed al suo termine si ha la festa di Eid-ul-Fitr (Celebrazione). L’ultimo mese dell’anno (Dhul-Hijja) è il mese del pellegrinaggio alla Mecca.

Shintoismo: la via degli Dei (Kami no Michi)

storia-religioni-31

Essa è la Religione del Giappone, i caratteri Shin (Dio) e To (Via) ne danno il senso. Non c’è un Fondatore; infatti lo Shintoismo è storia, cultura, filosofia di un popolo e solo quello, riletta poi sotto forma religiosa da colti letterati imperiali. Il Dio giapponese inoltre non ha niente in comune con le divinità Indù o dei Monoteisti. Esistono solo dei Kami o “Esseri divini” che vivono nella Natura e nei Defunti che hanno avuto gloria in vita, come eroi ed imperatori. Le Feste fino al 1873 seguivano il calendario Cinese, poi il Giappone decise di seguire il Gregoriano dell’Occidente. Il 5 maggio si ha la Festa dei Bambini e della Famiglia più comune. Ogni città e villaggio ha la Festa del Kami locale.

Sikhismo: la via dell’unicità di Dio

storia-religioni-32

“Sikh” significa “discepolo”, infatti i Sikh sono i Discepoli del Guru (Maestro) Nanak, nato in Pakistan, terra di Indù ed Islamici. La Comunità Sikh (Khalsa) crebbe nel Punjab (che divenne India) ed Amritsar, fondata dal IV Guru, è la Città Santa dei Sikh, da visitare almeno una volta in vita. Il Testo Sacro è il “Guru Granth (Libro) Sahib” letteralmente “Il Signore Maestro Libro” che, dopo la morte del decimo ed ultimo Guru diventa punto di riferimento unico della Dottrina Sikh. Esso è posto al centro del Tempio o Gurdwara occupandone il posto più importante. Il Simbolo è una spada a doppio taglio (Khanda) che sta ad indicare che Dio è Verità e Giustizia. L’Umanità è la Famiglia di un Unico Dio è una sintesi del Credo dei Sikh. Esplicito è l’invito ad Amare Dio e Servire (Sewa) i Fratelli e nella Khalsa sono abolite le caste sociali, e prima della Sewa, o Carità, si deve fare Giustizia. Le Feste sono legate alle date dei Guru, il Capodanno è fisso tra il 13 o 14 aprile detto Baisakhi, e ricorda la nascita della Khalsa dei Sikh.

Taoismo: la via della Natura

storia-religioni-33

È considerata la Religione dei Cinesi, anche se il termine “Religio” non ha corrispettivo in Cina. Non esiste l’idea di Creatore Padre o Persona, ma il Tao (Via) è Principio dell’Ordine della Natura. Il Fondatore viene indicato in un Personaggio mitico: il Maestro Lao o Lao-Tze, egli scrisse il Libro, che è una sintesi delle Verità che i cinesi conoscevano sin dalle Origini della Vita. Il “Tao-te-Ching” o “Libro del Tao” riafferma che “La Verità consiste nel vivere secondo Natura”. Feste più importanti: Capodanno e la Pura Luce, quando si ricordano gli avi morti, il 5 aprile circa. Il Capodanno cinese è il primo giorno del primo mese lunare dell’anno. Il Ching Ming (Pura Luce) segue il calendario solare: 5 aprile.


Bibliografia:

  • Ambrogio Donini – Lineamenti di Storia delle Religioni – Ed. Riuniti – anno 1984 – Pag. 341
  • Alfred Bertholet – Dizionario delle Religioni – Ed. Riuniti – 1964 – Pag. 464
  • AA.VV. – La Sacra Bibbia – F.lli Treves Ed. – anno 1928 –
  • Le immagini sono tratte da Internet