Storia del Matrimonio

L’AMORE NELL’ANTICA ROMA

(a cura di Bruno Silvestrini)

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Matrimonio nell’antica Roma

Il matrimonio ha origini già nella Preistoria, in questo periodo attraverso testimonianze molto semplici di scrittura, ci sono state tramandate le prime forme di unione fra uomo e donna.  La parola matrimonio deriva dal latino “matrimonium”, l’unione di “mater” e “munus”, ossia il compito della madre. Nel diritto romano con questa parola si intendeva un legame che rendeva legittimi i figli nati dall’unione di un uomo con una donna.

Il Matrimonio nella storia ha assunto un valore differente in riferimento alle culture e al periodo storico. La donna tuttavia è sempre stata succube delle decisioni del padre. In molti casi addirittura fidanzata sin dalla nascita. Destinata a passare la vita con uomini estranei e molto più grandi. Scambiata come una merce per accrescere il patrimonio e l’importanza della famiglia.

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Nell’antica Roma il matrimonio era organizzato dai padri dei futuri sposi, che facevano conoscenza solo al momento del loro fidanzamento, in occasione del quale il giovane promesso sposo consegnava alla ragazza un pegno per garantire l’adempimento della sua promessa di matrimonio, un anello che lei si metteva all’anulare della mano sinistra. I motivi erano sempre di natura economica, soprattutto in età repubblicana.

All’inizio della storia di Roma, le ragazze si sposavano giovanissime, dai dodici anni in poi, e i matrimoni erano esclusivamente combinati, come per i Greci. E come le donne greche, anche le romane, imparata la lezione degli uomini castrati, ma capaci di avere un’erezione, non esitavano un attimo a far castrare gli schiavi più belli. A partire dalla fine della Repubblica, le romane acquistarono grande libertà e il divorzio divenne una pratica corrente, al punto che scrittori latini come Giovenale e Marziale, per esempio, raccontano di donne sposate anche dieci volte.

Nel sottile gioco dell’erotismo, la romana impara ad agghindarsi, a truccarsi, a nascondere le imperfezioni fisiche e ad esaltare i suoi punti forti. Nel godere di questa nuova libertà, frequentano le terme (che fino al II sec. d.C. saranno miste), imparano a danzare e a conoscere i giochi di società. E innamorarsi diventa proprio come un gioco. Un proverbio in uso all’epoca diceva: “E’ giocando che spesso nasce l’amore”. Tra le rovine di Pompei, distrutta dall’eruzione del Vesuvio nel 79 a.C., sui muri di alcune strade e di edifici pubblici sono stati trovati graffiti d’amore che recitano: “Se tu avvertissi il fuoco dell’amore, ti affretteresti maggiormente per vedere Venere. Io amo teneramente un ragazzo giovane e bello“.  Oppure:
“Oh, come vorrei avere le tue adorate braccia attorno al mio collo e baciare le tue tenere labbra!”

Ma non era una novità: più di settanta anni prima, a celebrare il corteggiamento e l’amore come piacere, il poeta latino Ovidio aveva scritto “L’arte d’amare”, un vero e proprio manuale per insegnare all’uomo come conquistare una donna, con consigli che al giorno d’oggi possono anche farci sorridere, come questo:
“Basta che tu ti sieda accanto a lei e che al suo fianco tu stringa il tuo quanto più puoi. E se per caso, come succede, le si posa in grembo un granello di polvere, tu, pronto, cogli con le dita quel granello; e se non c’è nulla, coglilo lo stesso.”
Ma ne “L’arte di amare” si parla anche di come curare regolarmente e migliorare il proprio aspetto fisico, del fatto che le donne devono essere pregate a lungo, di come sia importante far loro regali, ricordarsi dei compleanni ed essere gentili e premurosi…

L’amore i tradimenti e le perversioni di un’epoca hanno lasciato molte tracce di sé nei costumi e nella mente dell’uomo moderno. Tutto cambia e tutto rimane quello che una volta era, ancora una volta sarà.

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“Le strappai la tunica; trasparente non era di grande impaccio, ella tuttavia lottava per restarne coperta; ma poiché lottava come una che non vuole vincere, rimase vinta facilmente con la sua stessa complicità. Come, caduto il velo, stette davanti ai miei occhi, nell’intero corpo non apparve alcun difetto. Quali spalle, quali braccia vidi e toccai! La forma dei seni come fatta per le carezze! Come liscio il ventre sotto il petto sodo! Come lungo e perfetto il fianco, e giovanile la coscia. A che i dettagli? Non vidi nulla di non degno di lode. E nuda la strinsi, aderente al mio corpo. Chi non conosce il resto? Stanchi ci acquietammo entrambi. Possano giungermi spesso pomeriggi come questo!” (Ovidio, Amori).

IL TRADIMENTO

Nell’antica Roma la bigamia era punita ma per effetto delle vedovanze e dei divorzi molti uomini e donne finivano per sposarsi più di una volta. Erano frequenti i matrimoni fra persone con una forte differenza di età ciò portava come si può immaginare a casi di adulterio che erano regolati inizialmente con una legge non scritta ma che veniva regolarmente praticata; l’amante della moglie colto in flagrante era alla mercé del marito tradito che poteva sbizzarrirsi infliggendogli varie pene: la tortura del rafano o quella del mugile, con la quale il malcapitato veniva sodomizzato con le radici assai piccanti di rafano o con un mugile (pesce assai noto per la sua voracità); altre pene consistevano nel taglio del naso e delle orecchie, l’evirazione, la sodomizzazione personale da parte del marito tradito o dei suoi schiavi o all’imposizione di praticare la fellatio, che era ritenuta dai romani quanto di più abietto per un cittadino libero. La donna invece veniva più frequentemente condannata alla morte per inedia o sepolta viva. Le donne Romane ricorrevano spesso alla pratica dell’aborto (abortum facere). Giovenale ne da una descrizione calzante: “Giulia libera gli uteri fecondi con ogni sorta di sostanze abortive” e dice che i suoi farmaci erano così potenti da rendere sterile una donna o da uccidere il feto nel suo grembo. Tale pratica fu regolata dalla Lex Cornelia proposta da Silla nell’81 a.C. con cui si puniva con la deportazione e la confisca dei beni chi produceva l’aborto e se questo portava alla morte della donna che vi si sottoponeva, stessa sorte toccava a chi lo praticava.

FILTRI D’AMORE E PRATICHE MAGICHE

Per attirare la donna o l’uomo desiderato, si ricorreva spesso anche a pratiche magiche come filtri amorosi, frasi magiche ecc.  Si racconta che Caligola impazzì per un filtro datogli dalla moglie Cesonia.
Si praticavano anche riti simili a quelli voodoo, come quello delle statuette che venivano messe sul fuoco: una era fatta di cera e si doveva sciogliere (come il cuore della persona amata) l’altra era fatta di terra e si induriva (come il cuore dell’amata nei confronti degli altri spasimanti) diventando terracotta.
Altre pratiche consistevano in sacrifici umani che spesso e volentieri coinvolgevano giovinetti che perdevano così la loro vita in favore di un amore che non si sarebbe mai avverato.

L’OMOSESSUALITA’

La società romana anche se rifiutava gran parte dei costumi che contraddistinguevano quella greca ne dovette subire gli influssi introdotti dal sempre maggior numero di schiavi di origine ellenica. Uno di questi costumi era la pederastia che i romani chiamavano “vizio greco” ed era considerata un segno di debolezza rispetto al fiero e virile carattere con cui si identificava il cittadino romano. Si riteneva che portasse alla corruzione dei giovani romani, infatti molti giovinetti erano nelle mire sessuali di molti maschi adulti e per questo venne pubblicata una legge (Lex Scatinia) in materia di pederastia secondo la quale in caso di rapporto fra adulti e puer o praetextati (da praetexta, la tunica bianca orlata di porpora che portavano i ragazzi ancora non maturi sessualmente) veniva punito solo l’adulto. L’omosessualità non era condannata se praticata con schiavi e liberti (in quanto era dovere di questi compiacere in tutto e per tutto le volontà del loro padrone), ma era deprecabile che un cittadino libero assumesse un ruolo passivo nei confronti di un altro suo pari. La ex Scatinia diceva che in caso di omosessualità tra due cittadini liberi, veniva punito quello che tra i due assumeva l’atteggiamento passivo. La multa era molto salata e ammontava a circa 10.000 sesterzi. Anche il grande Cesare non fu risparmiato da dicerie che lo ritenevano omosessuale, in quanto dopo la conquista della Gallia si diceva che avesse una relazione amorosa con il Re di Bitinia, Nicomede; e sembra che i suoi soldati cantassero “Cesare ha sottomesso la Gallia. Nicomede ha sottomesso Cesare” e gli avversari politici si rivolgevano a lui chiamandolo direttamente “regina”, ma lui non se la prendeva e sfoderava a sua difesa le conquiste femminili: Postumia, Lollia, Tertulla e Mucia, tutte mogli di illustri cittadini romani.

Altro personaggio rimasto famoso per la sua omosessualità era l’Imperatore Adriano che per la sua relazione con Antinoo alla cui morte avvenuta per annegamento nel fiume mentre l’imperatore era in viaggio in Egitto, si era lasciato andare alla disperazione e successivamente aveva dato il nome alla città da lui fondata in quel luogo: Antinoe. Con l’avvento dell’impero si assistette ad un’ondata moralizzatrice fino ad arrivare nel 438 d.C. con Teodosio II, alla condanna al rogo di tutti gli omosessuali passivi. Per finire invece Giustiniano espande la pena a tutti gli omosessuali sia attivi che passivi.

LA PROSTITUZIONE

Si può speculare che la prostituzione sia sempre stata praticata in Grecia sotto varie forme. Agli inizi del VI secolo a.C. finì il periodo della prostituzione incontrollata, quando il legislatore Solone istituì i primi bordelli di Atene, per facilitare gli adolescenti intraprendenti e evitare che commettessero adulterio con donne rispettabili. Si dice che Solone, con il denaro incassato da queste prime case chiuse, fece costruire il tempio dedicato ad Afrodite Pandemo, la dea patrona dell’amore a pagamento (Ataneo, 13, 569d). In greco la parola prostituta è “pòrne”, e deriva del verbo “pérnemi” (vendere), ossia colei che è in vendita. Inizialmente la parola descriveva soltanto la professione e non aveva il significato dispregiativo che assunse successivamente. Le prostitute erano schiave o ex schiave liberate, ma poteva trattarsi anche di “meteci”, ossia libere, ma straniere immigrate, o bambine abbandonate, oppure donne ateniesi cadute in rovina. Ad Atene, indurre una donna alla prostituzione era assolutamente proibito e punito da una legge istituita da Solone. Sappiamo da Plutarco che:
“Se qualcuno funge da lenone, la pena è un’ammenda di venti dracme, a meno che non si tratti di quelle donne che manifestamente si danno a quanti le paghino. E comunque, nessuno deve vendere le proprie figlie o sorelle, a meno che non abbia sorpreso una ragazza non sposata a concedersi a un uomo” (Solone, 23).
I lenoni erano uomini o donne delle più basse condizioni sociali che sfruttavano una o più prostitute; il lenocinio, se denunciato e provato, poteva risultare anche nella pena di morte del IV secolo a.C.:
La legge sancisce che i lenoni, donne o uomini, debbano essere denunciati, e quelli tra loro trovati colpevoli, essere condannati a morte” (Eschine).

Le prostitute entravano in varie categorie, a seconda dei luoghi che frequentavano e dove esercitavano le professione: perciò, c’erano le “chamaitypaì”, la categoria più antica, così chiamate perché lavoravano all’aperto, sdraiate; le “perepatétikes” (passeggiatrici), che trovavano i clienti passeggiando e poi li portavano nelle loro case; le “gephyrides”, che lavoravano nelle vicinanze dei ponti; altre ancora frequentavano i bagni pubblici e infine c’erano quelle che lavoravano negli “oikìskoi” (piccole case, bordelli). Poco a poco il numero dei postriboli aumentò e a quanto ci dice Ateneo, nessuna città aveva tante prostitute quanto Atene, fatta eccezione di Corinto, dove veniva praticata la Prostituzione Sacra. La tariffa per una visita a un postribolo nel V secolo era di solito di un obole (sei oboles corrispondevano a una dracma), come ci informa lo storico Ateneo, ma le ragazze potevano essere pagate anche in natura. Il costo corrispondeva al guadagno giornaliero di un operaio manuale senza alcuna specializzazione. Numerose sono le illustrazioni che rappresentano scene dalle case di piacere ma la stragrande maggioranza ritrae l’ammissione di clienti, la trattativa con la donna, il pagamento e molto raramente l’atto sessuale in sé. Probabilmente le uniche illustrazioni di coito in un postribolo, e che si possono certamente identificare con quello, sono su una copertura di uno specchio del IV secolo a.C.. Nella parte interna ed esterna sono raffigurate due coppie che fanno l’amore. Ciò che distingue il luogo dove si svolge l’atto sessuale, sono i letti: entrambi hanno coperte e cuscini; i triclini dei simposi non avevano né l’uno né l’altro.

Roma prevedeva tutta una serie di leggi per regolamentare la prostituzione. I lupanara dovevano essere aperti solo di sera e collocati solo fuori città. Le prostitute dovevano essere registrate e non potevano mantenere il nome di famiglia. Giovenale racconta che Messalina frequentava i postribula, travestita e sotto falso nome (Lycisca). Le prostitute dovevano farsi riconoscere indossando una veste speciale e rinunciare alle bende che le matrone oneste mettevano sui capelli. Il fenomeno della prostituzione si andava sempre più espandendo e ci fu chi prese la palla al balzo per rimpinguare le casse dello stato, infatti Caligola introdusse una tassa per chi praticava questa “professione”.

Il termine lupanare viene da “lupa”, il nome con cui venivano chiamate le meretrici; anche la mitologia romana dice che gli stessi fondatori di Roma, Romolo e Remo erano stati adottati da una “lupa”, nome ambiguo, infatti Acca Laurentia  la moglie del pastore che li aveva trovati era una “lupa” cioè prostituta; altri nomi ancora oggi conosciuti sono “puttana” dal latino “putere”,puzzare e “troia” altra radice dispregiativa che fa riferimento alle femmine del maiale e quindi “troiaio”, porcile, il luogo fetido e sporco dove stavano le prostitute. Grande sviluppo alla prostituzione fu dato dall’avvento del culto della Venere Ericina che differentemente dall’antico culto dell’antica Venere tutta castità praticato fino a quel momento era caratterizzato da una spiccato portamento verso la sessualità. Il culto della Venere Ericina venne importato a Roma dalla Sicilia per propiziarsi i suoi favori in vista dell’attacco a Cartagine durante la seconda guerra punica, infatti, la Sicilia era il punto di partenza della spedizione romana; ma la particolarità consisteva nel fatto che le cerimonie propiziatorie alla dea erano gestite da sacerdotesse che praticavano la prostituzione rituale, tutto questo rappresentò una sorta di permesso ad intraprendere la “professione”. Successivamente vennero fatti vari tentativi di restaurare la versione casta della dea, ma ormai la Venere siciliana aveva preso il sopravvento fino a diventare addirittura simbolo di fecondità, fertilità e successo.

Alla fine dell’epoca repubblicana la situazione a Roma si era talmente ingigantita che il fenomeno della prostituzione era diffuso in ogni angolo della città. Nel Satyricon si racconta che Encolpio dopo essersi perso per le vie di Roma chiede indicazioni ad una vecchietta la quale essendo però una procacciatrice di clienti lo accompagna direttamente in un bordello. La diffusione della pratica dell’amore mercenario e la mancanza di adeguate norme di igiene, favorì il propagarsi delle malattie sessuali.
– Il medico romano Celso, riferendosi quasi certamente alla Gonorrea o Scolo descrive una malattia dell’epoca in questi termini: – “La regione sessuale va soggetta ad una malattia che è un flusso di semenza, che senza stimolazione erotica, senza visioni notturne, esce con abbondanza tale da far morire il paziente dopo un certo tempo, per consunzione.”;
– Quinto Sereno descrivendo alcune ulcerazioni sui genitali dice: – ” strane piaghe ulceranti deturpano fortemente ed in modo orribile le parti genitali, esse si possono curare con i rami di rovo.”;
– Marziale riferendosi presumibilmente alla sifilide: – “Una malattia vergognosa ha distrutto la ghiotta parte.”, mentre sia Celso che Plinio fanno riferimento ai Condylomata, malattie di trasmissione sessuale oggi conosciute come Condilomi o Creste di gallo. A parte tutto, i Romani apprezzavano molto l’amore a pagamento, ciò è dimostrato dal fatto che Domiziano, per attirarsi le grazie del popolo, durante i festeggiamenti per la vittoria riportata sui Germani, fece lanciare i gettoni per una “consumazione” nei lupanari.

L’AMORE NELL’ANTICA GRECIA

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Nella Grecia la donna vive tutta la vita sottoposta all’autorità di un padrone che normalmente è prima il padre e poi il marito: la donna libera non differisce dagli schiavi per quanto riguarda i diritti politici e giuridici. La sfera di influenza di cui gode è esclusivamente la casa: la donna sposata che gode della fiducia dello sposo governa la casa con autorità e per gli schiavi essa è la padrona. Ma ella è priva di diritti, dipende completamente dal marito, e la fiducia di cui gode può essere revocata in qualsiasi momento. Caso a sé è Sparta, dove, per la preoccupazione di migliorare i geni dei futuri guerrieri, si incoraggiava l’educazione fisica delle ragazze al pari di quella dei ragazzi, per cui si potevano vedere giovani Lacedemoni con vesti corte e cosce nude. Comunque anche se le giovani Spartane erano agili e muscolose, la possibilità di una educazione intellettuale mancava a loro come alle ragazze di Atene. Venivano loro date solo poche nozioni pratiche sui lavori domestici più qualche elemento di lettura, di calcolo, talvolta di musica e di danza (famosi sono i cori di giovinette a Sparta). Queste gravi lacune nell’educazione delle ragazze spiegava la mancanza di comunione intellettuale tra moglie e marito, che era generalmente ben istruito.

A Sparta almeno giovani e ragazze si conoscevano di vista prima del matrimonio ed erano addirittura al corrente della loro autonomia, mentre ad Atene i futuri sposi potevano non essersi mai visti. In questa concezione di matrimonio le considerazioni economiche dominano ancora le idee morali. Nell’Atene classica, infatti, il padre cede la figlia al futuro sposo con un atto legale, confermato e accompagnato dall’assegnazione della dote, che garantisce la legittimità dell’unione e dei figli che ne saranno frutto. Si riteneva che, per contrarre un matrimonio conveniente, l’uomo dovesse sposare una ragazza del suo stesso ambiente, né inferiore né superiore: ciò a cui si dava risalto era la prosperità materiale della famiglia e, ovviamente, la fecondità della donna. Stando così le cose è difficile immaginare che tra gli sposi ateniesi dell’età classica ci fosse una reale comunanza di spirito e di sentimenti, un affetto coniugale, ed erano scarsi lo scambio intellettuale e il vero amore tra gli sposi: le mogli legittime erano considerate unicamente come madri di famiglia e guardiane del focolare.

Nella’antica Grecia il matrimonio avveniva solo dopo l’istituzione fra il padre della sposa e lo sposo di un contratto con il quale la sposa veniva promessa al suo futuro marito. Il mese in cui venivano celebrati la maggior parte dei matrimoni era Gennaio, tant’è che ad Atene esso era chiamato mese delle nozze. Il matrimonio era festeggiato con grandiosi banchetti (per dimostrare il consenso paterno al matrimonio della figlia e quindi la legittimità del matrimonio), bagni purificatori e sacrifici animali.
La società egizia (a differenza delle altre) era fondata sull’eguaglianza tra uomo e donna, la completezza dell’esistenza umana era data dalla completezza con l’altro genere. I giovani erano liberi di sposare la persona amata senza intromissione da parte delle famiglie. L’uomo era tenuto a offrire dei doni alla futura sposa prima del matrimonio mentre la donna veniva data in moglie con una cospicua dote. Per gli egiziani non avere figli era considerato un disonore.

L’AMORE NELLA FILOSOFIA GRECA

Il concetto di amore nelle teorie filosofiche si estende, dal suo significato primo di sentimento di affezione ad una altra persona e che implica una scelta che tende alla reciprocità e all’unione, ad una vasta gamma di sentimenti, dal desiderio di possesso di un qualsiasi oggetto che ci procura piacere all’amore verso enti ed oggetti ideali fino all’amore considerato come principio cosmico. E’ in quest’ultima accezione che l’amore compare per la prima volta e viene assimilato da Empedocle a una forza agente nell’universo contrapposta all’Odio e alla Contesa (neìkos).

IL MATRIMONIO

Il matrimonio rappresenta l’evento culminante della vita del tìaso (celebrazione di un culto a un dio); è infatti il principale obiettivo a cui le ragazze si sono preparate grazie all’educazione di Saffo. La cerimonia nuziale aveva luogo di sera, quando apparivano le prime stelle e durante la processione che accompagnava la sposa nella casa del novello sposo veniva cantato un inno nuziale, un imenéo e fino al mattino successivo venivano poi eseguiti altri canti. L’apparizione della stella della sera rappresenta l’inizio della cerimonia e uno dei temi ricorrenti è proprio l’invocazione a Espero: “Espero, tutto riporti quanto disperse la lucente Aurora: riporti la pecora, riporti la capra, ma non riporti la figlia alla madre.”

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Un esempio di cattiva salute del matrimonio ci viene dal libro XIV dell’Iliade intitolato Dios Apàte (inganno a Zeus). La dea, per distogliere dalla battaglia il marito e permettere così la vittoria greca lo seduce servendosi di tutte le armi di seduzione femminile e utilizzando una cintura magica, ottenuta anche qui con l’inganno da Afrodite. Era cerca di alimentare il desiderio di Zeus con gli strumenti propri della seduzione, ma il suo vero intimo desiderio è ostile a Zeus: nonostante nel culto essi siano congiuntamente i patroni del matrimonio, nel mito sono spesso in discordia e lottano tra loro per il predominio. Era non è una docile casalinga né una sposa innamorata e Zeus intrattiene legami sentimentali con altre donne. Tutti questi elementi forniscono un’importante testimonianza della situazione piuttosto critica dell’Eros nelle relazioni coniugali già al tempo di Omero.

LE OCCASIONI AMOROSE DELL’UOMO GRECO IN ETA’ CLASSICA

“Abbiamo le etere per il piacere, le concubine per la soddisfazione quotidiana del corpo, le mogli per darci figli legittimi e per avere una custodia fedele della casa“.
Così l’orazione pseudo demostenica contro Neera (etèra vissuta nel IV sec. a.C. in Grecia), definisce la varia configurazione dei rapporti erotici dell’Atene dell’età classica. Al vertice della considerazione sociale stava la sposa, con la quale l’uomo aveva contratto matrimonio. Lo scopo del matrimonio era la procreazione di figli legittimi, che potessero ereditare e mantenere il patrimonio di famiglia. Il marito poteva nutrire grande rispetto per la sposa in quanto madre dei suoi figli e organizzatrice dell‘oìkos, la casa di famiglia, ma raramente nutriva un autentico sentimento di amore per una donna che non aveva scelto di persona e che poteva non avere mai visto prima del matrimonio.

LA CONDIZIONE DELLA DONNA

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In Atene la donna non gode di diritti politici né giuridici. La città è principalmente un mondo di uomini, e la vita del maschio adulto è suddivisa tra le due attività della guerra e della politica. In questa civiltà maschilista, la donna tuttavia è indispensabile per la procreazione di figli legittimi che assicurino la trasmissione dei beni di famiglia e la continuità della polis. Essa pertanto seppur in una condizione di minorità trova il suo ambiente ideale all’interno delle pareti domestiche, ove sovrintende da padrona alle faccende svolte dalla servitù, tanto più che il marito passa il suo tempo fuori anche per più giorni, intento nei lavori agricoli o nella partecipazione alla vita politica e giudiziaria. Rare parentesi di vita fuori casa sono per la donna le occasioni connesse con il culto. Per la vita della donna libera ateniese, dunque, il matrimonio è l’evento più importante, quello che ne fissa definitivamente il ruolo civile, a meno che non intervenga una separazione o un ripudio. Nel primo caso la donna fa ritorno alla tutela della propria famiglia, nel secondo, qualora il ripudio sia dovuto all’adulterio, la donna è rovinata perché perde l’unico diritto civile che le é riconosciuto, quello di partecipare alle cerimonie pubbliche a lei riservate, rappresentando la famiglia con dignità matronale. Il matrimonio non ha una precisa istituzionalità giuridica, in quanto condivide gli aspetti di consuetudine che sono propri di tutto il diritto greco. Essa si formalizza all’atto della eggùe, pegno o garanzia, cioè di un impegno verbale privato, assunto da due famiglie in presenza di testimoni, mediante il quale il padre consegna la ragazza allo sposo. La giovane diventa una sposa legittima dal giorno in cui inizia la coabitazione: questa può seguire immediatamente, ma può anche essere rinviata. E’ significativo il caso della sorella di Demostene, che il padre aveva legato con una promessa di matrimonio poco prima di morire, quando la figlia aveva solo cinque anni. Si tratta di un caso estremo, ma utile a capire che il matrimonio era un contratto legato alla successione dei beni di famiglia, certo non era il frutto della libera scelta di due giovani. Questa particolare fisionomia patrimoniale ne determinava la forza e, nel contempo, la debolezza: se si evitava un divorzio perché avrebbe comportato la rescissione del contratto patrimoniale e la restituzione della dote, il matrimonio, così concepito, doveva prevedere poca intimità e poco vero amore tra i coniugi. Ciò comportava necessariamente un deterioramento dei rapporti uomo-donna, che diede vita anche in campo letterario a una vasta produzione misogina.

I RAPPORTI EXTRACONIUGALI

Al matrimonio non mancavano altre occasioni per soddisfare tanto i suoi impulsi erotici quanto il bisogno d’affetto o di rapporti intellettuali. Sebbene nell’età classica fosse di regola la monogamia, talora entro le pareti domestiche poteva essere tollerata ed era legalmente tutelata la presenza di una concubina (pallakè). Questa costituiva in pratica un doppione della moglie legittima, dalla quale si differenziava principalmente perché la sua presenza non era garantita da alcun impegno formale, e pertanto poteva essere congedata quando il padrone lo riteneva. D’altra parte si può ritenere che l’uomo greco, che teneva in casa una concubina, nutrisse per lei un rapporto affettivo o, quanto meno, sentisse una attrattiva materiale molto più intensi a confronto della moglie.

Figura completamente diversa è quella dell’etera. Il termine hetaìra, propriamente amica, compagna, viene spesso tradotto in italiano con cortigiana, ma è ben distinto dalla pòrne, la prostituta dietro compenso. L’etera solitamente una straniera o una schiava, è la figura di donna veramente libera: si mostra in pubblico, partecipa a banchetti con uomini, è spesso colta, esperta nella danza e nella musica e con queste arti intrattiene i commensali suonando il flauto o danzando. Se la bellezza e l’intelligenza dell’etera in assoluto più famosa, la milesia Aspasia per la quale Pericle aveva ripudiato la moglie legittima, sarà stata eccezionale, si può tuttavia ritenere che il fascino di queste donne derivasse in gran parte dalla loro bellezza e raffinatezza, forse più che dalla soddisfazione sessuale che potevano offrire, e che mostrarsi in pubblico con un’etera di gran classe fosse per l’uomo che poteva permettersi di mantenerla un simbolo di successo.

Più rischiosa la pratica dell’adulterio, che era considerato reato e disciplinato da una legge a noi nota attraverso l’orazione demostenica contro Aristocrate: “Qualora uno uccida un uomo suo malgrado nei giochi o abbattendolo per strada o in guerra senza conoscerlo, o per averlo sorpreso presso la moglie o la madre o la sorella o la figlia o la concubina che mantenga per procreare figli legittimi, l’uccisore non sia soggetto ad accusa”.
L’impunità riconosciuta all’uccisore dell’adultero non è da attribuire, come si potesse pensare, a una sorta di giustificazione per causa d’onore o a una considerazione psicologica dello stato d’animo dell’uccisore. L’uccisione dell’adultero è infatti assimilata ad altre tre circostanze di reato non omogenee, la terza delle quali, l’uccisione del brigante, prevede il caso della legittima difesa. Il fatto che la legge intenda come adulterio intrattenere rapporti non solo con una donna maritata, ma anche con una donna nubile o con una concubina, dimostra che il reato non lede l’interesse del marito alla fedeltà della sposa, ma l’interesse del gruppo familiare, dell’oìkos, che può essere inquinato dall’introduzione di figli bastardi.

La soppressione dell’adultero è quindi una atto di legittima difesa, esercitato dal capo dell’oìkos a tutela di un bene di sua proprietà, non diverso da quello del padrone di casa che uccide il ladro sorpreso a rubare. Questo spiega perché fare violenza a una donna fosse considerato un reato meno grave che sedurla: l’atto di violenza, ratto o stupro che fosse, si configurava dal punto di vista della parte lesa come una offesa che non implicava il consenso della donna e quindi non le alienava la fiducia del marito.

Malgrado il rigore delle leggi non era raro che anche le donne ingannassero i loro mariti: l’orazione di Lisia per Eufileto racconta con abbondanza di particolari piccanti come la moglie di Eufileto conobbe durante un funerale il seduttore Eratostene, che riuscì poi a raggiungere la donna grazie all’aiuto di una ancella e a goderne l’affetto finché, tradito da una amante gelosa che aveva lasciato, fu sorpreso dal marito in flagranza di reato e ucciso.

ESPRESSIONE E INIBIZIONE

Da quanto si è detto parrebbe di dover concludere che l’uomo greco godesse della più ampia libertà sessuale. In realtà, il primo contrassegno di inibizione sessuale si incontra a livello linguistico: a partire da Omero, che pure, secondo gli statuti enciclopedici dell’epica, descrive meticolosamente ogni attività quotidiana, l’attività sessuale non trova descrizioni adeguate. Anche l’età classica si esprime all’insegna dell’eufemismo: “andare con qualcuno” è, come per noi, una perifrasi che indica il rapporto intimo; “sappiamo che cosa” è un modo per indicare gli organi genitali. Si potrebbe pensare che il tabù linguistico dipenda dall’eleganza letteraria, ma l’atteggiamento dei filosofi esprime disprezzo per il sesso: soprattutto il cinismo, nella sua spasmodica ricerca dell’autosufficienza, vedeva nella masturbazione il modo più semplice per soddisfare il desiderio fisiologico. Socrate paragonava il desiderio di Crizia per Eutidemo al bisogno che prova un maiale setoloso di calmare il prurito sfregando il dorso contro una pietra. La castità era praticata sia per vincoli di ordine religioso sia per necessità inerenti alle pratiche guerriere, che rappresentano la più prestigiosa attività dell’uomo greco. In questo senso, l’autodisciplina del sesso, era assimilata alla capacità di sopportare la fame, la sete, il sonno, e rientrava tra le forme di privazione che venivano incoraggiate presso i giovani per temprare la resistenza fisica dei futuri soldati.

LA SESSUALITA’

Un’idea precisa sul sesso e la sua concezione nell’antica Grecia lo si può avere della pitture vasali. Vi erano vasi a carattere religioso-devozionale, il più delle volte associati alla fertilità, altri erano a carattere apotropaico, altri ancora erano sicuramente intesi a stimolare sessualmente. Infine vi erano alcuni vasi di intento umoristico, nei quali l’artista dipingeva le sue fantasie, rappresentando soprattutto creature mitologiche nell’atto di compiere il rapporto sessuale in ogni modo possibile. Nella prima categoria rientrano vasi che rappresentano il Matrimonio Sacro, ossia rapporti sessuali di uomini e animali; questi vasi venivano offerti a un tempio o a un santuario, con la supplica per la fertilità di una donna, un gregge o un campo. Il Matrimonio Sacro era un rito rurale collegato alla fertilità della terra e associato al culto di Dioniso.

Nella seconda categoria rientrano vasi e sculture che, attraverso la rappresentazione del fallo, erano intesi a scacciare il male: di conseguenza Atene era piena di erme, ossia colonne quadrangolari sormontate dalla testa di Ermes e con un fallo in erezione. Infine, nell’ultima categoria rientrano vasi con rappresentazioni erotiche intese all’eccitazione sessuale, da non confondere con la pornografia, in quanto venivano usati nei simposi. Questi vasi nella maggior parte rappresentano uomini con donne, mentre sono pochi quelli con temi pederastici. Sono rappresentati tutti i modi e le posizioni possibili del coito: vaginale, anale, il contatto sulle cosce, la fellatio, il cunnilingus, l’onanismo, l’uso di strumenti di piacere, ménage a trois, sessantanove, sadismo, orge, bestialità ecc..

Il fatto che questo genere di illustrazioni siano riconducibili ai simposi è deducibili da particolari quali le corone di fiori sul capo degli uomini, i flauti e le nacchere tenuti e suonati dalle etere, triclini ecc.. Questo probabilmente indica che tale condotta era accettata solo nel contesto dei simposi. Il cunnilingus era ritenuta comunque una pratica impropria (come si può dedurre anche da alcuni passi tratti dalle commedie di Aristofane (Pace), in quanto era considerato sminuente per un uomo dare piacere a una donna senza trarne a propria volta. Nel caso della fellatio, in cui è la donna a dare piacere, l’uomo di fatto resta passivo, essendo la donna a svolgere la parte attiva, ed essere passivo era inaccettabile per un uomo. Per bilanciare la passività dell’uomo, l’artista rappresenta sempre le donne inginocchiate, in una posizione di sottomissione, e con i tratti del viso alterati. E’ interessante notare come la più diffusa posizione del missionario non si trovi raffigurata da nessuna parte, ma di solito si vedano donne piegate in avanti, inginocchiate, sdraiate sulla schiena con i piedi appoggiati sulle spalle dell’uomo: quest’ultima posizione ha il vantaggio di offrire una buona visuale dei genitali maschili, cosa che era nell’intenzione dell’artista. Le posizioni tradizionali non sono rappresentate in quanto non erano abbastanza esplicite e secondariamente l’artista non voleva rappresentare la donna in stato di sottomissione. Nei visi dei protagonisti è comunque assente un’espressione sentimentale, fatta accezione di una oinokè dove sono rappresentati un giovane uomo e un’etera della stessa età. Per qual che riguarda il coito anale, pare fosse socialmente accettabile, in quanto non risultano testi o illustrazioni di condanna. Non vi era nessuna legge contro la bestialità, probabilmente per il fatto che non era praticata dai Greci: le sole scene del genere o erano associate a soggetti mitologici o riguardavano Satiri e Menadi. Tuttavia esisteva una legge contro lo stupro per proteggere le donne e i bambini, sia nati liberi sia schiavi. La pena consisteva in un’ammenda e il colpevole doveva pagarla due volte: una alla vittima e una allo stato. Lo stupro era un serio atto criminale e quindi l’ammenda doveva essere alta in proporzione: secondo una legge emanata da Solone, il violentatore doveva pagare cento dracme (Plutarco, Solone).

Si può speculare che la prostituzione sia sempre stata praticata in Grecia sotto varie forme. Agli inizi del VI secolo a.C. finì il periodo della prostituzione incontrollata, quando il legislatore Solone istituì i primi bordelli di Atene, per facilitare gli adolescenti intraprendenti e evitare che commettessero adulterio con donne rispettabili. Si dice che Solone, con il denaro incassato da queste prime case chiuse, fece costruire il tempio dedicato ad Afrodite Pandemo, la dea patrona dell’amore a pagamento (Ataneo, 13).

In greco la parola prostituta è pòrne, e deriva del verbo pérnemi (vendere), ossia colei che è in vendita. Inizialmente la parola descriveva soltanto la professione e non aveva il significato dispregiativo che assunse successivamente. Le prostitute erano schiave o ex schiave liberate, ma potava trattarsi anche di meteci, ossia libere, ma straniere immigrate, o bambine abbandonate, oppure donne ateniesi cadute in rovina. Ad Atene, indurre una donna alla prostituzione era assolutamente proibito e punito da una legge istituita da Solone. Sappiamo da Plutarco che: “Se qualcuno funge da lenone, la pena è un’ammenda di venti dracme, a meno che non si tratti di quelle donne che manifestamente si danno a quanti le paghino. E comunque, nessuno deve vendere le proprie figlie o sorelle, a meno che non abbia sorpreso una ragazza non sposata a concedersi a un uomo” (Solone, 23). I lenoni erano uomini o donne delle più basse condizioni sociali che sfruttavano una o più prostitute; il lenocinio, se denunciato e provato, poteva risultare anche nella pena di morte del IV secolo a.C.: “La legge sancisce che i lenoni, donne o uomini, debbano essere denunciati, e quelli tra loro trovati colpevoli, essere condannati a morte” (Eschine).

Le prostitute entravano in varie categorie, a seconda dei luoghi che frequentavano e dove esercitavano le professione: perciò, c’erano le chamaitypaì, la categoria più antica, così chiamate perché ,lavoravano all’aperto sdraiate; le perepatétikes (passeggiatrici), che trovavano i clienti passeggiando e poi li portavano nelle loro case; le gephyrides, che lavoravano nelle vicinanze dei ponti; altre ancora frequentavano i bagni pubblici e infine c’erano quelle che lavoravano negli oikìskoi (piccole case, bordelli). Poco a poco il numero dei postriboli aumentò e a quanto ci dice Ateneo, nessuna città aveva tante prostitute quanto Atene, fatta eccezione di Corinto, dove veniva praticata la Prostituzione Sacra. La tariffa per una visita a un postribolo nel V secolo era di solito di un obole (sei oboles corrispondevano a una dracma), come ci informa lo storico Ateneo (13, 568-9), ma le ragazze potevano essere pagate anche in natura. Il costo corrispondeva al guadagno giornaliero di un operaio manuale senza alcuna specializzazione. Numerose sono le illustrazioni che rappresentano scene dalle case di piacere ma la stragrande maggioranza ritrae l’ammissione di clienti, la trattativa con la donna, il pagamento e molto raramente l’atto sessuale in sé. Probabilmente le uniche illustrazioni di coito in un postribolo, e che si possono certamente identificare con quello, sono su una copertura di uno specchio del IV secolo a.C.. Nella parte interna ed esterna sono raffigurate due coppie che fanno l’amore. Ciò che distingue il luogo dove si svolge l’atto sessuale, sono i letti: entrambi hanno coperte e cuscini; i triclini dei simposi non avevano né l’uno né l’altro.

L’OMOSESSUALITA’

Dai Greci dell’età classica era considerato vergognoso il rapporto omosessuale tra adulti; non destava invece nessuno stupore che un uomo si sentisse sessualmente attratto da un bel ragazzo imberbe e che intrattenesse con lui rapporti erotici. Non si trattava però di una vera e propria omosessualità, nel senso che l’amore omosessuale coesisteva con le pratiche eterosessuali e probabilmente, in qualche misura, anche le influenzava: la pittura vascolare a alcuni epigrammi ellenistici mostrano casi di sodomia eterosessuale. D’altra parte, il ragazzo, una volta adulto prendeva regolarmente moglie e a sua volta amava donne e ragazzi.

Le ragioni di questa sorta di polivalenza sessuale sono da ricercare sia nella segregazione dei sessi nell’adolescenza, che avrà contribuito ad instaurare pratiche destinate a mantenersi in età adulta, sia, soprattutto, nel fatto che il rapporto tra gli uomini era l’unico che prevedesse un partner di pari livello, scelto liberamente e conquistato dopo un regolare corteggiamento: una soluzione all’insegna del disinteresse delle parti, che certo non aveva luogo né con la sposa legittima, frutto di un accordo familiare né con etere e prostitute, che erano per lo più straniere o schiave prezzolate, e forse nemmeno con la concubina, che pure beneficiava di integrazione familiare.

Non mancano gli esempi nella letteratura come nel mito: la poetessa Saffo canta il suo amore per le ragazze del circolo del tiaso, il lirico Teognide dedica interi componimenti alla formazione morale del suo giovane amante Cirno, Zeus per avere il bel Ganimede sempre accanto a lui lo porta sull’Olimpo donandogli l’immortalità. L’amore omosessuale è stato dunque uno spunto fondamentale per la produzione letteraria dall’epoca arcaica all’età classica e assumeva un ruolo basilare e quasi istituzionale nella formazione intellettuale dei giovani preparandoli ad affrontare i diversi aspetti della vita da adulti.

E’ opinione comune che nella Grecia antica l’omosessualità, da intendersi come rapporto tra due soggetti adulti dello stesso sesso, fosse una pratica diffusa. In realtà, la relazione sessuale tra due adulti non era ammessa, e non si trattava di semplici legami sessuali, ma di relazioni pederastiche.
In epoca classica, quando la filosofia, la poesia, la musica e l’atletica sono in continua evoluzione, gli uomini diventano sempre più raffinati, sia fisicamente sia mentalmente, mentre le donne rimangono escluse da tutto questo. Il risultato fu che gli uomini non avevano argomenti di discussioni con le proprie mogli, le quali, essendo sempre confinate all’interno delle mura domestiche, non potevano sviluppare alcun interesse spirituale o avere cura del proprio corpo, in quanto non avevano accesso all’atletica. Perciò i Greci, che erano sempre stati amanti della bellezza, non ebbero altra scelta che rivolgersi all’armonia del corpo maschile, ben allenato, ed al suo colto spirito. Le due cose andavano insieme, come attesta la massima: “sano nel corpo, sano nella mente”. Il corpo veniva allenato nelle palestre, e la mente nelle scuole, che fornivano una preparazione culturale rudimentale, come insegnare a leggere ed a scrivere, l’aritmetica e la musica. Al giovane mancava dunque l’insegnamento dei meccanismi della vita sociale, le funzioni dello stato, la virtù, il senso morale, ma anche una preparazione alle insidie e ai pericoli della vita.

L’omosessualità femminile nell’antica Grecia aveva una funzione pedagogica analoga a quella maschile e rappresentava per l’adolescente una fase di passaggio dall’età infantile al mondo degli adulti, durante la quale la giovane veniva educata e preparata al matrimonio e ad una delle funzioni essenziali per i greci: la procreazione. Intorno al VII sec. a.C. in Grecia fiorirono delle comunità femminili nelle quali le relazioni omoerotiche avevano il valore di rito d’iniziazione sessuale analogo a quello della pederastia.

Di rilevante importanza fu il circolo di Saffo, che rappresenta il principale modello di questa pseudo-omosessualità. L’attività della poetessa a Mitilene assolveva una ben precisa funzione sociale: Saffo educava fanciulle nobili nella ristretta cerchia del tìaso, una sorta di associazione femminile in cui le ragazze entravano a farne parte prima del matrimonio e dove trascorrevano un periodo d’istruzione e preparazione alle nozze; poi, una volta sposate, si separavano dal gruppo.

L’ESPERIENZA AMOROSA

L’aspetto predominante della poesia di Saffo è l’amore per le ragazze della sua cerchia, che aveva un ruolo fondamentale nel processo educativo delle adolescenti e rappresentava la preparazione alla sessualità della fase adulta. L’amore che Saffo provava verso le ragazze era un sentimento sincero, totalizzante e appassionato, che è strettamente legato al culto di Afrodite, come appare nell’Ode ad Afrodite, che apre il primo libro dell’opera di Saffo e costituisce un’accorata invocazione alla dea perché venga in aiuto della poetessa che soffre per un amore non ricambiato. Di rilevante importanza sono  la concezione dell’amore come una forza di origine divina, che trascende la volontà dei mortali e alla quale non é lecito sottrarsi e lo svilupparsi di quest’ode sotto forma di preghiera. Riversando un’esperienza personale in un’ode che veniva cantata tra le fanciulle del tìaso riunite davanti alla statua della dea, Saffo trasforma l’esperienza individuale in collettiva e il suo intento è paradigmatico in quanto attraverso le parole di Afrodite vuole definire le “regole” dell’amore proponendo dei precisi modelli di comportamento. Saffo in questo modo vuole sanzionare il proprio ruolo e la sacralità dei rapporti che stabiliva con le ragazze della comunità. La poetessa concepisce l’eros come una forza molto possente, un’esperienza psicologica sconvolgente, dolorosa e capace di porre una persona in conflitto con se stessa; Saffo presenta molteplici immagini efficaci per esprimere l’effetto dell’amore sulla persona che ne fa esperienza, come nel frammento 47 Voigt, nel quale viene espressa l’idea dell’eros come una pulsione che investe l’anima dall’esterno: “Squassa Eros l’animo mio, come il vento sui monti che investe le querce.” (trad. F. Sisti). Talvolta designa eros come una mescolanza di piacere e tormento, in quanto è in grado di recare gioia e serenità.

La dimensione della memoria assume un’importanza tutta speciale nella poesia saffica riveste la tematica della memoria. Ciò é spiegato dal fatto che l’esperienza di una ragazza nel tìaso era temporanea, destinata a concludersi col ritorno alla casa paterna o con il matrimonio: per questo si spiega l’esigenza di trovare, proprio nel ricordo, una forma di continuità capace di annullare in qualche modo gli effetti dell’inevitabile separazione.

LE DIVINITA’ – EROS E AFRODITE

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Eros e Afrodite possono essere utilizzati in modo intercambiabile in rapporto alla sessualità, al desiderio sessuale e al piacere, sia singolarmente che in coppia. Tuttavia Eros si riferisce più specificatamente all’istinto del desiderio amoroso, mentre Afrodite è implicata nell’intero campo di azioni comprese tra l’esercizio del fascino sessuale e la concreta nascita dell’atto sessuale. Alcuni sostengono che Eros, uscito dall’uovo cosmico, fu il primo degli dei, poiché senza di lui nessuna delle altre divinità sarebbe potuta nascere. Così si sostiene che fosse coevo della Madre Terra e del Tartaro, e si nega che egli potesse avere un padre e una madre. Una altra tradizione dice che egli nacque da Afrodite e da Ermete o da Ares o da Zeus stesso. Eros era un fanciullo ribelle, che non rispettava né la condizione né l’età altrui, ma svolazzava con le sue ali d’oro scoccando frecce a caso e infiammando i cuori con i suoi temibili dardi. Come la cultura greca ribadisce più volte, Eros è un’emozione, una immagine, una figura, una idea, una forza sovrannaturale che ha effetto sia sul corpo sia sulla mente: obnubila l’intelletto, causa il rilassamento delle membra (Saffo); nessuno è immune dall’influsso erotico, né animali né uomini, né mortali né immortali, e il suo impero, al pari di quello di Afrodite, si esercita sul cosmo intero: terra, mare, cielo, ed è la celebrazione della vita istintuale intera quale commistione di piaceri e pericoli. Eros era venerato come dio del desiderio e in quanto tale vi erano una serie di culti a lui dedicati. Molti templi gli furono consacrati, per lui si svolgevano feste con agoni musicali e ginnici e concorsi dedicati alle Muse. Anche le etere svolgevano un ruolo importante nella celebrazione del dio, infatti nel santuario di Afrodite a Corinto si era immessa la pratica concreta dell’amore nella sfera religiosa e questo costume dissocia la prostituzione dal rapporto commerciale e innalza l’unione sessuale ad atto di culto. Il culto di Eros si trova anche nel cuore di Atene: non solo vi era un altare di Eros all’entrata dell’Accademia, ma anche il santuario dedicato ad Afrodite ed Eros, situato alle pendici settentrionali dell’acropoli.

Afrodite emerse nuda dalla spuma delle onde del mare fecondata dai genitali di Urano, che Crono aveva gettato in mare per impossessarsi del potere.

Inoltre sembrerebbe essere la stessa dea dall’immenso potere che nacque dal Caos e danzò sul mare, la dea insomma che era venerata in Siria e in Palestina come Ishtar. Il centro più famoso del suo culto era Pafo dove, tra le rovine di un grandioso tempio romano, si vede ancora la bianca primitiva immagine aniconica (che ha scarsa corrispondenza con la realtà rappresentata) della dea. La dea fondava il suo potere non solo sulla incredibile bellezza e sul fascino, ma era anche stata dotata da Zeus, padre adottivo, di una cintura magica che la rendeva irresistibile per gli occhi di chiunque, dei e mortali. Non c’è da stupirsi dunque se veniva ritenuta la più potente di tutti gli immortali, proprio perché il suo potere era il più divino, al quale tutti dovevano soggiacere e al quale nessuno poteva opporre resistenza. Gli Elleni cercarono anche di svilire la Grande Dea del Mediterraneo, che per molto tempo aveva avuto il potere supremo a Corinto, Sparta, Tespie e Atene, condannando le sue solenni orge sessuali come se fossero sregolatezze adulterine.

L’AMORE NELL’EPICA

Spesso nella produzione epica arcaica, della quale i primi esempi possono essere considerati i poemi omerici, il motore delle vicende che agisce indistintamente su mortali e dei è il sentimento amoroso, manifesto in tutte le sue forme, e concepito dalla mentalità eroica come un impulso incontrastabile che muove l’uomo contro la razionalità della morale comune. Questa convenzione avrà fortuna anche in età classica e influenzerà la produzione letteraria successiva. E le vicende narrate da Omero e da altri epici Apollodoro ricalcano schemi provenienti dalla mentalità micenea, giunta a loro tramite l’instancabile opera degli aedi che componevano e tramandavano versi ispirati ad avvenimenti reali, come appunto la guerra di Troia.

CONSUETUDINI E TRADIZIONI
RELATIVE AL MATRIMONIO: 200 d.C.

EUROPA SETTENTRIONALE

Tra i goti germanici, un uomo sposava una donna della propria comunità. Quando c’era scarsa disponibilità di donne, rapiva la sua futura sposa fra gli abitanti di un villaggio vicino. Il futuro sposo, accompagnato da un amico, prendeva qualsiasi ragazza si fosse allontanata dalla casa natale. La nostra usanza del testimone è un residuo di questo espediente adottato da due uomini nerboruti. Sempre da tale pratica del rapimento, che richiedeva il sollevamento della ragazza per trasportarla nel proprio villaggio, più tardi derivò l’atto simbolico di “varcare la soglia della nuova casa tenendo in braccio la sposa”. La tradizione secondo la quale la sposa sta alla sinistra dello sposo, rappresentava a sua volta molto più che una consuetudine d’etichetta priva di significato. Tra i barbari dell’Europa settentrionale (definiti in tal modo dai romani), lo sposo teneva alla propria sinistra la sposa per proteggerla da un possibile attacco improvviso, lasciando in tal modo libera la mano destra, quella che doveva impugnare la spada.

TRADIZIONE DELL’ANELLO

Un anello fu usato per la prima volta nella Terza Dinastia dell’Antico Regno d’Egitto, intorno al 2800 a.C. Per gli egiziani, un cerchio, non avendo inizio né fine, significava eternità, per cui il matrimonio era un legame eterno. Gli anelli d’oro erano quelli più apprezzati dai ricchi egiziani e in seguito anche dai romani. È provato che i giovani romani di scarsi mezzi andavano spesso in fallimento per le loro future spose.

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Tertulliano, un prete cristiano che scriveva nel secondo secolo d.C., osservava che “la maggior parte delle donne non conosceranno altro oro che quello dell’anello nuziale che portavano al dito”. In pubblico, la casalinga romana del ceto medio portava con orgoglio la sua fede d’oro, ma a casa, secondo Tertulliano, “portava un anello di ferro”. Molti anelli romani ancora esistenti recavano una piccola chiave saldata da un lato. Questo non significava, sentimentalmente, che una sposa aveva aperto il cuore del marito, ma piuttosto, in accordo con la legge romana, simboleggiava un punto centrale del contratto matrimoniale, ovvero che una moglie aveva diritto alla metà della ricchezza del marito e che quando voleva poteva prendere qualunque cosa fosse contenuta nella dispensa. Un documento veneziano relativo al un matrimonio, datato 1503 nomina “un anello nuziale con diamante”. L’anello nuziale d’oro, di una certa Maria di Modina, faceva parte dei primi anelli di fidanzamento che presentavano un diamante incastonato. Iniziarono una tradizione che probabilmente durerà per sempre. I veneziani furono i primi a scoprire che il diamante è una delle sostanze più dure e più resistenti che esistano in natura, e che un taglio accurato e una levigatura ne rivelano lo splendore.

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Uno dei primi anelli di fidanzamento con diamante della storia fu anche il più piccolo, portato da una futura sposa di due anni d’età. L’anello venne creato per il fidanzamento della principessa Mary, figlia di Enrico VIII, con il delfino di Francia, figlio di Re Francesco I. Per motivi politici e ragioni di stato, al delfino nato il 28 febbraio 1518, venne assegnata subito una fidanzata, in modo da garantire una più stretta alleanza tra Inghilterra e Francia. Sebbene sia nota l’origine dell’anello di fidanzamento con diamante, quella dell’anello di fidanzamento in generale non è altrettanto certa. La consuetudine, tuttavia, risale a molto prima del XV secolo. Per i cattolici romani, l’introduzione ufficiale dell’anello di fidanzamento è inequivocabile. Nell’860 d.C., papa Nicolò I decretò che il dono dell’anello di fidanzamento divenisse il simbolo dell’affermazione formale dell’intenzione di convolare a nozze. Nicolò, che era un difensore intransigente della santità del matrimonio, una volta scomunicò due arcivescovi che erano stati coinvolti nel matrimonio, nel divorzio e nel successivo matrimonio di Lotario II di Lorena, accusandoli di “complicità nel reato di bigamia”. Per Nicolò non era sufficiente un anello qualsiasi, di qualunque materiale e valore. L’anello di fidanzamento doveva essere di un metallo pregiato, preferibilmente d’oro, fatto che per il futuro marito rappresentava un sacrificio finanziario; in tal modo prese il via una tradizione. In quel secolo vennero stabilite altre due usanze: la perdita per confisca dell’anello da parte di un uomo che recedeva dalla promessa di matrimonio; la restituzione dell’anello da parte di una donna che rompeva il fidanzamento. La Chiesa divenne inflessibile riguardo alla serietà di una promessa di matrimonio e alla punizione in caso questa non venisse mantenuta. Il Concilio di Elvira condannava a tre anni di scomunica i genitori di un uomo che poneva fine a un fidanzamento. E se una donna decideva che non voleva più sposarsi per ragioni che non erano accettabili da parte della Chiesa, il parroco della sua parrocchia aveva l’autorità di ordinarla suora. Gli antichi ebrei infilavano l’anello nuziale al dito indice. In India le fedi erano sul pollice. L’usanza occidentale di infilare l’anello nuziale al “terzo” dito (senza contare il pollice) ebbe inizio con i greci, in seguito a una certa trascuratezza riguardante la classificazione anatomica dell’uomo.

I medici greci del III secolo a.C. credevano che una certa vena, la “vena dell’amore”, partisse dal “terzo dito” e arrivasse direttamente al cuore. L’anulare divenne perciò il dito al quale era più logico portare un anello che fosse simbolo di una questione di cuore. I romani, plagiando le tavole anatomiche dei greci, adottarono ciecamente la consuetudine dell’anello. Questo divenne inoltre il “dito curativo” per i medici romani, usato per mescolare le pozioni medicinali. Poiché si supponeva che la vena dell’anulare raggiungesse il cuore, qualunque preparato potenzialmente tossico sarebbe stato prontamente riconosciuto da un medico “nel suo cuore” prima che questi lo somministrasse al paziente. I cristiani mantennero l’usanza dell’anulare, ma si facevano strada attraverso tutta la mano per raggiungere la vena dell’amore. Inizialmente lo sposo infilava l’anello sulla punta del dito indice della sposa, pronunciando le parole “Nel nome del Padre”. Poi, continuando la preghiera “nel nome del Figlio”, spostava l’anello sul medio, e infine, concludendo con le parole “e dello Spirito Santo, Amen”, sull’anulare. Questa era nota come formula della Trinità. In oriente gli anelli non erano tenuti in grande considerazione, si credeva fossero semplicemente degli ornamenti, privi di simbolismo sociale o di significato religioso.

PUBBLICAZIONI MATRIMONIALI

Durante il feudalesimo, in Europa, tutti gli avvisi pubblici riguardanti morti, tasse o nascite venivano chiamati “pubblicazioni”. Oggi utilizziamo questo termine esclusivamente per la dichiarazione fatta da due persone che hanno intenzione di sposarsi. Tale interpretazione iniziò in seguito a un’ordinanza di Carlomagno, re dei Franchi, che il giorno di Natale nell’800 d.C., venne incoronato Imperatore dei romani, decretando la nascita del Sacro Romano Impero.

Carlomagno, dovendo governare su un territorio vastissimo, aveva un motivo medico e pratico per istituire l’uso delle pubblicazioni matrimoniali. Sia tra i ricchi sia tra i poveri, non era sempre chiaro chi fossero i genitori di un bambino; una scappatella extraconiugale poteva portare, come spesso accadeva, al matrimonio tra un fratellastro e una sorellastra. Carlomagno, allarmato dall’alta percentuale di matrimoni tra fratellastri, e dalle conseguenti menomazioni genetiche della prole, emanò un editto in tutto il suo impero unificato. Ogni matrimonio doveva essere proclamato pubblicamente almeno sette giorni prima della celebrazione della cerimonia. Per evitare la consanguineità tra i futuri sposi, chiunque fosse in possesso di informazioni riguardanti il fatto che l’uomo e la donna in questione fossero imparentati come fratello e sorella, oppure come fratellastro e sorellastra, aveva l’ordine di farsi avanti. Tale consuetudine si rivelò talmente efficace, che venne ampiamente adottata da popoli appartenenti a diversi credi religiosi.

TORTA NUZIALE

Un tempo la sposa non mangiava la torta nuziale; in origine, infatti, la torta le veniva lanciata addosso. Quest’usanza si diffuse come uno dei tanti simboli di fertilità insiti nella cerimonia nuziale. Infatti, fino a tempi recenti, si riteneva che i bambini dovessero arrivare subito dopo il matrimonio proprio come la notte viene dopo il giorno. Il frumento, per molto tempo un simbolo di fertilità e prosperità, fu una delle prime granaglie che venivano gettate alla sposa durante la cerimonia; e le giovani donne non ancora sposate dovevano affannarsi a raccogliere i chicchi, come fanno oggi per il bouquet della sposa.  Gli antichi fornai romani, la cui abilità nel preparare i dolci era più apprezzata del talento dei grandi costruttori delle città, alterarono tale consuetudine. Intorno al 100 a.C. iniziarono a utilizzare il frumento nuziale per cuocere dei dolcetti che venivano mangiati, invece di essere gettati alla sposa. Secondo il poeta e filosofo romano Lucrezio, autore del De rerum natura (“la natura delle cose”), si diffuse la consuetudine di un rito di compromesso, durante il quale i dolci di grano venivano sbriciolati sul capo della sposa. E come ulteriore simbolo di fertilità, alla coppia veniva richiesto di mangiare una parte delle briciole, un’usanza nota con il nome di confarreatio, o “mangiare insieme”. Dopo aver esaurito la riserva di dolci, agli ospiti venivano offerte delle manciate di confetti, un misto di noci, frutta secca e mandorle con miele.

SCARPE VECCHIE

Oggi, in alcuni paesi delle scarpe vecchie vengono legate dietro alle macchine dei novelli sposi. Fin dai tempi antichi il piede era considerato un potente simbolo fallico. In molte civiltà, e in particolare tra gli eschimesi, alle donne che avevano difficoltà nel concepire un figlio veniva suggerito di portare sempre con sé un pezzo di scarpa vecchia.

 

 

LUNA DI MIELE

Esiste un’ampia differenza tra il significato originale di “luna di miele” e la connotazione che questo termine ha ai nostri giorni, ovvero un delizioso ritiro molto atteso, che prelude alla vita matrimoniale. L’origine della parola, che deriva dal norvegese antico hjunottsmanathr, con un significato cinico, e l’isolamento tanto atteso, un tempo era tutt’altro che delizioso. Quando un uomo appartenente a una comunità del nord Europa rapiva una sposa da un villaggio vicino, era obbligato a tenerla nascosta per un certo periodo. Gli amici gli garantivano la segretezza, e soltanto il testimone sapeva dove si trovasse. Quando la famiglia della sposa rinunciava a continuare a cercarla, i due tornavano al villaggio dello sposo. Fare la luna di miele significava nascondersi.

La parola scandinava che significa “luna di miele” deriva in parte da un’antica usanza nord europea. Le coppie appena sposate, durante il primo mese di vita matrimoniale, bevevano quotidianamente una tazza di vino e miele, chiamata idromele. Sia questa bevanda che la consuetudine di rapire le spose, fanno parte della storia di Attila, re degli unni asiatici dal 433 d.C. al 453. Il guerriero in questione, gozzovigliò con boccali di tale distillato alcolico in occasione del suo matrimonio nel 450 con la principessa romana Onoria, sorella dell’imperatore Valentiniano III. Attila la rapì da un precedente matrimonio e la dichiarò sua, non senza aver avanzato pretese sulla metà occidentale dell’impero Romano. Tra anni dopo, in occasione di un altro banchetto, l’insaziabile passione di Attila per l’idromele lo portò a berne una quantità eccessiva che gli provocò vomito, perdita della conoscenza, coma, e che lo condusse alla morte. Il miele nella locuzione “luna di miele” deriva direttamente dal vino e miele chiamato “idromele”, mentre il termine “luna” richiamava il ciclo mensile percorso dal corpo celeste; combinarla con il termine miele significava che non tutte le lune, o mesi di vita matrimoniale, sarebbero stati dolci come il primo. Nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, gli scrittori e i poeti britannici utilizzavano spesso l’interpretazione nordica della luna di miele per indicare una diminuzione e un indebolimento dell’amore coniugale.

MATRIMONIO IN CHIESA

Il matrimonio tradizionale in chiesa comprende due marce nuziali, di due diversi compositori classici. La sposa attraversa la navata al suono della maestosa musica moderatamente misurata del “Coro nuziale” dall’opera del 1848, di Richard Wagner, Lohengrin. I novelli sposi escono accompagnati dalle note più esultanti e sostenute della “Marcia Nuziale” dal Sogno di una notte di mezza estate di Felix Mendelssohn del 1826.

L’usanza risale al matrimonio regale, nel 1858, della principessa di Gran Bretagna e imperatrice di Germania, Vittoria, con il principe Federico Guglielmo di Prussia. Fa Vittoria stessa, figlia maggiore della regina britannicaVittoria, a scegliere la musica. Mecenate delle arti, apprezzava le opere di Mendelssohn e venerava quelle di Wagner. Conoscendo l’abitudine degli inglesi di copiare tutto ciò che vedevano fare dalla monarchia, ben presto le spose inglesi, sia nobili che appartenenti alla gente comune, avanzarono al suono della musica scelta da Vittoria, istituendo una tradizione matrimoniale tipicamente occidentale.

ABITO NUZIALE E VELO

Per secoli il bianco è stato simbolo di purezza e di verginità, ma nell’antica Roma era il giallo il colore socialmente accettato per l’abito indossato dalla sposa, la quale portava anche un velo tinto di giallo vivo, il flammeum che le copriva il volto. Gli esperti di storia della moda sostengono che il velo che copriva il volto fu un’invenzione decisamente maschile, e uno dei più antichi sistemi per mantenere umili, sottomesse e nascoste agli altri uomini le donne, quelle sposate quanto quelle nubili. Sebbene il velo, in vari momenti della sua lunga storia, abbia anche avuto la funzione di simbolo d’eleganza e di seduzione, di riserbo e di lutto, si tratta di un elemento dell’abbigliamento femminile che le donne probabilmente non avrebbero mai creato da sole. Nati in oriente almeno quattromila anni fa, i veli venivano portati per tutta la vita dalle donne nubili come segno di riserbo e dalle donne sposate come segno di sottomissione al marito. Nelle religioni musulmane le donne dovevano coprirsi il capo e parte del volto ogniqualvolta uscivano di casa. Con il passare del tempo le regole (dettate dagli uomini) divennero più severe, e soltanto gli occhi della donna potevano restare scoperti, una concessione dettata dalla necessità, dato che gli antichi veli erano a trama fitta, fatto che impediva di vedervi attraverso.

Le usanze erano meno rigide nei paesi del nord Europa. Soltanto le mogli rapite portavano il velo. Tra i greci e i romani del IV secolo a.C., ai matrimoni erano di moda i veli leggeri e trasparenti. Erano puntati ai capelli o tenuti fermi da nastri, e il giallo era divenuto il colore preferito, sia per il velo che per l’abito nuziale. Durante il medioevo il colore cessò di essere un fattore di primaria importanza: vennero invece sottolineati la preziosità del tessuto e gli ornamenti decorativi.

In Inghilterra e in Francia, la consuetudine di indossare il bianco in occasione dei matrimoni fu commentata per la prima volta dagli scrittori del XVI secolo. Il bianco era l’affermazione visiva della verginità della sposa, e si trattava di un’asserzione talmente evidente e pubblica, che non risultò gradita a tutti. I religiosi, per esempio, ritenevano che la verginità, un presupposto del matrimonio, non avrebbe dovuto essere sbandierata così pubblicamente. Alla fine del XVIII secolo, il bianco era diventato il colore classico per la sposa.

DIVORZIO
antichità: Africa e Asia

Prima che ci possa essere uno scioglimento ufficiale di un matrimonio, deve avere luogo un’unione ufficiale. Il più antico certificato di matrimonio esistente venne rinvenuto tra i papiri aramaici, vestigia di una guarnigione ebraica assegnata a Elefantina, in Egitto, nel V secolo a.C.

Il contratto è un atto di vendita conciso, disadorno, privo di romanticismo: sei mucche in cambio di una ragazza di quattordici anni.

Con i romani, che erano grandi esperti in legislazione, il certificato di matrimonio si ampliò fino a diventare un documento scritto in un complesso linguaggio legale e composto di varie pagine. Stabiliva chiaramente termini quali le condizioni della dote e la divisione della proprietà in seguito a morte o divorzio. Nel I secolo d.C., tra gli ebrei venne ufficialmente introdotto un certificato di matrimonio riveduto, che viene usato ancor oggi, soltanto con alcune minime modifiche. Anche il divorzio iniziò come una procedura semplice e in qualche modo informale.

Nelle antiche Atene e Roma, non esistevano argomenti legali per lo scioglimento di un matrimonio; un uomo poteva divorziare da sua moglie in qualsiasi momento si stancasse di lei. E anche se doveva procurarsi un atto di divorzio presso un magistrato locale, non abbiamo ragione di credere che ne sia mai stato negato uno.

Ancora nel VII secolo, un marito anglosassone poteva divorziare da sua moglie per i motivi più disparati e assurdi. Un testo legale del tempo afferma che “Una moglie potrebbe venir ripudiata se viene provato che è sterile, deforme, sciocca, irascibile, lussuriosa, volgare, abitualmente ubriaca, ingorda, troppo loquace, litigiosa o ingiuriosa”.

Gli antropologi che hanno studiato le usanze relative al divorzio nelle società moderne e antiche, sono tutti concordi su un punto; storicamente, il divorzio che implicava un mutuo accordo era maggiormente diffuso nelle tribù matriarcali, in cui la moglie deteneva il ruolo di capofamiglia in qualità della sua forza procreativa. Invece, in una cultura patriarcale, in cui i diritti procreativi e sessuali della sposa erano spesso simbolicamente trasposti sul marito con il pagamento del denaro per comprare la sposa, il divorzio favoriva notevolmente i desideri e i capricci del maschio.

MATRIMONIO
(CHIESA CATTOLICA)

Il matrimonio è uno dei sette sacramenti della Chiesa cattolica. Allo stesso modo è considerato dalla Chiesa Ortodossa. Le comunità riformate, invece, seguendo la tesi di Lutero, celebrano il matrimonio ma non lo considerano un sacramento. Secondo il Codice di diritto canonico il matrimonio è «il patto con cui l’uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione e educazione della prole», che «è stato elevato da Cristo Signore alla dignità di sacramento».

All’incirca per i primi mille anni della storia della Chiesa, il matrimonio non fu un sacramento, la cui somministrazione era regolamentata dalle leggi ecclesiastiche: come già nel diritto romano, esso era piuttosto un patto privato, un contratto stipulato tra gli interessati e le rispettive famiglie, che poi in un secondo momento poteva essere benedetto da un sacerdote, tanto che si hanno prove documentate fino al secolo nono che il matrimonio era ancora molto simile a quello contratto nell’antica Roma. Solo nel 1215, nel corso del Concilio Lateranense IV la Chiesa cattolica regolamentò la liturgia per il matrimonio e gli aspetti giuridici relativi ad esso e solo nel 1439 nel Concilio di Firenze, agli inizi del Rinascimento, la Chiesa esplicitò chiaramente che il matrimonio doveva essere considerato dai fedeli come un sacramento.

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Natura ed effetti del sacramento

Secondo la dottrina cattolica, oltre ai vantaggi dell’inviolabile stabilità, dal Sacramento derivano altri vantaggi poiché Cristo elevando il matrimonio dei suoi fedeli alla dignità di vero e proprio sacramento, lo rese in effetto segno e fonte di quella speciale grazia interna, con la quale «portava l’amore naturale a maggior perfezione, ne confermava l’indissolubile unità, e i coniugi stessi santificava».
I fedeli che esprimono il consenso matrimoniale «aprono a sé il tesoro della grazia sacramentale, ove attingere le forze soprannaturali occorrenti ad adempiere le proprie parti ed i propri doveri fedelmente, santamente, con perseveranza fino alla morte».

Il sacramento «non solo accresce il principio di vita soprannaturale, cioè la grazia santificante, ma vi aggiunge ancora altri doni speciali, disposizioni e germi di grazia affinché i coniugi possano non solo bene intendere, ma intimamente sentire, con ferma convinzione e risoluta volontà stimare e adempiere quanto appartiene allo stato coniugale e ai suoi fini e doveri; ed a tale effetto infine conferisce il diritto all’aiuto attuale della grazia, ogniqualvolta ne abbisognino per adempire agli obblighi di questo stato».

Tuttavia, alla grazia sacramentale l’uomo è chiamato a cooperare per «far fruttificare i preziosi semi della grazia». In questo modo gli sposi potranno sopportare i pesi della loro condizione e adempiere i doveri, e sentirsi confortati, santificati e come consacrati dalla potenza del sacramento. Per la virtù indelebile del sacramento, i fedeli, uniti una volta con il vincolo del matrimonio, non sono mai privati mai né dell’aiuto, né del legame sacramentale. La «grazia propria del sacramento del Matrimonio è destinata a perfezionare l’amore dei coniugi, a rafforzare la loro unità indissolubile». Cristo «rimane con loro, dà loro la forza di seguirlo prendendo su di sé la propria croce, di rialzarsi dopo le loro cadute, di perdonarsi vicendevolmente, di portare gli uni i pesi degli altri, di essere sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo e di amarsi di un amore soprannaturale, delicato e fecondo».

Il sacramento del matrimonio cristiano viene fatto originare dalla prescrizione contenuta nel libro della Genesi 2,24, che contiene già alcuni elementi fondamentali: l’indissolubilità del vincolo coniugale e la complementarietà di uomo e donna.

Il primo miracolo di Gesù fu compiuto alle nozze di Cana, segno inteso ad affermare il valore positivo del matrimonio. Inoltre Cristo stesso ribadisce l’insegnamento dell’indissolubilità.

L’attesa dell’imminente venuta del Regno di Dio predicata da Gesù e dagli apostoli, fra cui Paolo di Tarso e la necessità di evitare legami terreni comportò che la Chiesa dei primi secoli attribuisse un minor valore al matrimonio rispetto al celibato e considerasse il matrimonio una condizione meno preferibile. San Paolo aveva raccomandato che al matrimonio facessero ricorso solo i quali trovavano troppo difficile rimanere celibi.

Il matrimonio negli scritti dei Padri della Chiesa

Sant’Agostino riteneva il matrimonio un sacramento, anche in quanto simbolo usato da san Paolo per esprimere l’amore di Cristo per la Chiesa: «Il bene del matrimonio presso tutte le genti e tutti gli uomini consiste nello scopo della generazione e nella casta fedeltà; ma per ciò che riguarda il popolo di Dio vi si aggiunge la santità del sacramento » . (Agostino, De bono conjugii, XXIV)

Segue a questo passo un esplicito accostamento al sacramento dell’ordine, basato sia sull’incancellabilità sia sulla fruttuosità di entrambi i sacramenti. In un altro brano di Agostino troviamo la fedeltà coniugale come essenza del sacramento e l’idea paolina del matrimonio come simbolo usato per esprimere l’amore di Cristo per la Chiesa: «La realtà di questo sacramento è che l’uomo e la donna, uniti in matrimonio, perseverino nell’unione per tutta la vita e che non sia lecita la separazione di un coniuge dall’altro, eccetto il caso di fornicazione. Questo infatti si osserva tra Cristo e la Chiesa che vivendo l’uno unito all’altro non sono separati da alcun divorzio per tutta l’eternità». (Agostino, De nuptiis et concupiscientia, I, X)

Altri padri della Chiesa dubitarono che il matrimonio rappresentasse una vera e valida vocazione cristiana. San Girolamo scrisse: “Preferire la verginità non significa disprezzare il matrimonio. Non si possono paragonare due cose se una è buona e l’altra cattiva”.
Tertulliano, all’epoca già influenzato dal montanismo, reputava che il matrimonio “consistesse essenzialmente nella fornicazione“. Cipriano di Cartagine spiegò che il primo comandamento dato all’uomo fu di crescere e di moltiplicarsi, ma siccome la terra era già tutta popolata non c’era ragione di continuare a moltiplicarsi. Agostino scrisse che se tutti avessero cessato di sposarsi e di generare figli sarebbe stata una cosa ammirevole; avrebbe comportato che la seconda venuta di Cristo si sarebbe realizzata più rapidamente. San Giovanni Crisostomo pur considerando il matrimonio un dono di Dio, dice: «Unicamente per questo motivo bisogna sposarsi: affinché ci teniamo lontani dalla fornicazione». Inoltre ammonì i vedovi cristiani a non risposarsi, perché avendo già conosciuto i difetti del matrimonio, non avrebbero dovuto compiere due volte il medesimo errore.

Il matrimonio nella liturgia

I libri liturgici e i sacramentari delle diverse Chiese d’Oriente e d’Occidente presentano per il matrimonio preghiere liturgiche e riti dai tempi più remoti. Differiscono fra loro in molti dettagli, ma le loro caratteristiche principali possono essere fatte risalire ai tempi apostolici. In tutti questi rituali e raccolte liturgiche il matrimonio viene contratto dinanzi al presbitero, durante la celebrazione della Messa ed è accompagnato da cerimonie e preghiere simili a quelle usate per gli altri sacramenti; infatti alcuni rituali definiscono esplicitamente il matrimonio come un sacramento e, poiché è un “sacramento dei vivi”, richiede la contrizione per i peccati e l’assoluzione sacramentale prima che il matrimonio sia contratto. Ma l’antichità del matrimonio come sacramento è ancor più chiaramente messa in luce dai rituali o libri liturgici delle Chiese Orientali, anche da quelle che si separarono dalla Chiesa cattolica nei primi secoli, che circondano la celebrazione del matrimonio con cerimonie e preghiere significative e notevoli. I nestoriani, i monofisiti, i copti, i giacobiti sono tutti d’accordo su questo punto. Le numerose preghiere usate nella cerimonia si riferiscono ad una grazia speciale che viene conferita agli sposi e alcuni commentari mostrano che questa grazia fosse ritenuta sacramentale. Il patriarca nestoriano Timoteo II, nell’opera De septem causis sacramentorum, tratta il matrimonio come uno dei sacramenti ed enumera diverse cerimonie religiose senza le quali il matrimonio è invalido.

Tuttavia altri, sulla scorta di Calvino, obiettano che la Chiesa avesse una liturgia matrimoniale. Secondo questa linea di pensiero, la concezione negativa del matrimonio di alcuni padri della Chiesa si sarebbe rispecchiata in una mancanza di interesse per la liturgia matrimoniale. A differenza delle cerimonie per la celebrazione del Battesimo e dell’Eucaristia, non sarebbe esistita una speciale liturgia matrimoniale e gli sposi non avrebbero ritenuto importante ricevere la benedizione di un presbitero.

Inizialmente i cristiani conservarono l’antica cerimonia pagana, modificata in senso cristiano. Il primo resoconto dettagliato di un matrimonio cristiano in Occidente risale al IX secolo e appare ancora molto simile alle nozze dell’antica Roma.

Il Concilio Lateranense IV

Con il Concilio Lateranense IV nel 1215, la Chiesa cattolica regolamentò il matrimonio:

  • impose l’uso delle pubblicazioni (per evitare i matrimoni clandestini)
  • per evitare i divorzi il matrimonio fu ribadita l’indissolubilità del matrimonio, salvo per morte di uno dei due coniugi
  • fu richiesto il consenso libero e pubblico degli sposi, da dichiarare a viva voce in un luogo aperto
  • fu imposta un’età minima per gli sposi (per evitare il matrimonio di bambini, e in particolare di ragazze molto giovani)
  • furono regolamentate le cause di nullità del matrimonio, in caso di violenze sulla persona, rapimento, non consumazione, matrimonio clandestino, etc.

Tale concilio fissò delle regole largamente riprese in seguito nel matrimonio civile, istituito in Francia nel 1791 durante la rivoluzione francese.

Il Concilio di Firenze

Nel bolla di unione con gli Armeni del 22 novembre 1439 il Concilio di Firenze dichiara a proposito del matrimonio: «Settimo è il sacramento del matrimonio, simbolo dell’unione di Cristo e della Chiesa, secondo l’Apostolo, che dice: Questo sacramento è grande; lo dico in riferimento al Cristo e alla Chiesa. Causa efficiente del sacramento è regolarmente il mutuo consenso, espresso verbalmente di persona. Triplice è lo scopo del matrimonio: primo, ricevere la prole ed educarla al culto di Dio; secondo, la fedeltà, che un coniuge deve conservare verso l’altro; terzo, l’indissolubilità del matrimonio, perché essa significa l’unione indissolubile di Cristo e della Chiesa».

Il Concilio di Trento

Il Concilio di Trento rinforzò la regolamentazione: il matrimonio deve essere celebrato davanti ad un parroco e dei testimoni, gli sposi devono firmare un registro, fu vietata anche la coabitazione al di fuori del matrimonio, per evitare il concubinato e i figli illegittimi.

Il Concilio Vaticano II

Nella costituzione pastorale Gaudium et spes il Concilio Vaticano II, riprendendo fra l’altro il magistero dell’enciclica Arcanum Divinae di papa Leone XIII, insegna che «l’intima comunione di vita e di amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie, è stabilita dal patto coniugale», che «Dio stesso è l’autore del matrimonio» e che «per la sua stessa natura l’istituto del matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati alla procreazione e alla educazione della prole e in queste trovano il loro coronamento».

Il Concilio ha anche parole di chiaro apprezzamento per una vita sessuale serena e ordinata all’interno del matrimonio: «Gli atti coi quali i coniugi si uniscono in casta intimità sono onesti e degni; compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano ed arricchiscono vicendevolmente nella gioia e nella gratitudine gli sposi stessi. Quest’amore, ratificato da un impegno mutuo e soprattutto consacrato da un sacramento di Cristo, resta indissolubilmente fedele nella prospera e cattiva sorte, sul piano del corpo e dello spirito; di conseguenza esclude ogni adulterio e ogni divorzio».

Il MATRIMONIO NEL DIRITTO CANONICO

Condizioni per il matrimonio sacramentale

La Chiesa cattolica richiede per il sacramento che sia l’uomo sia la donna siano battezzati, liberi di sposarsi e che esprimano liberamente il proprio consenso. La Chiesa istituisce corsi prematrimoniali alcuni mesi prima del matrimonio per aiutare i futuri sposi a comprendere il senso del sacramento e ad esprimere un consenso informato. In generale prima del matrimonio gli sposi debbono aver completato il cammino dell’iniziazione cristiana. Nel periodo prematrimoniale uno o entrambi gli sposi ricevono il sacramento della confermazione, se non l’avessero già ricevuto in precedenza o se non sono già sposati civilmente o conviventi. In quest’ultimo caso la confermazione si riceve dopo il matrimonio.

Libertà di contrarre il matrimonio

Gli sposi devono essere liberi di contrarre matrimonio e liberi di sposarsi fra loro. L’uomo e la donna non devono essere già sposati e devono essere privi degli impedimenti previsti dal diritto canonico. Oltre alla libertà, gli sposi devono avere l’intenzione di sposarsi. Nella Chiesa cattolica il matrimonio ha origine dal consenso. Il consenso consiste in un atto umano con il quale gli sposi si promettono fedeltà e reciproco affidamento per tutta la vita. Il consenso dev’essere un atto di libera volontà dei contraenti, non influenzato da coercizione o da grave errore esterno. Quando manca la libertà, il consenso è invalido.

Impedimenti

Il Codice di diritto canonico prevede i seguenti impedimenti:

  • difetto dell’età minima, stabilita in sedici anni per l’uomo e quattordici per la donna e modificabile dalla Conferenza episcopale
  • impotenza copulativa antecedente e perpetua, o dell’uomo o della donna
  • precedente vincolo matrimoniale di uno dei due contraenti
  • difetto del battesimo di uno dei due contraenti
  • lo sposo ha ricevuto l’ordine sacro
  • uno dei contraenti ha emesso un voto perpetuo di castità in un istituto religioso
  • rapimento della sposa allo scopo di forzarne la volontà
  • uno dei contraenti ha commesso omicidio del proprio coniuge o del coniuge dell’altro contraente
  • i contraenti sono parenti in linea retta o fino al quarto grado in linea collaterale
  • i contraenti sono affini in linea retta
  • vita in comune e concubinato pubblico e notorio dell’uomo con le consanguinee della donna e viceversa
  • i contraenti sono parenti in linea retta o fino al quarto grado in linea collaterale, quando la parentela è frutto di adozione

MINISTRI DEL SACRAMENTO

Nel rito latino

«Secondo la tradizione latina, sono gli sposi, come ministri della grazia di Cristo, a conferirsi mutuamente il sacramento del Matrimonio esprimendo davanti alla Chiesa il loro consenso». Questo non esclude la necessità di coinvolgere la Chiesa nella celebrazione del matrimonio; in circostanze normali, il diritto canonico richiede la presenza di un presbitero o un diacono e almeno due testimoni.

Nei riti orientali

«Nelle tradizioni delle Chiese Orientali, i sacerdoti – Vescovi o presbiteri – sono testimoni del reciproco consenso scambiato tra gli sposi, ma anche la loro benedizione è necessaria per la validità del sacramento».. Il sacramento viene conferito attraverso l’incoronazione degli sposi. L’emissione dei voti avviene in precedenza e non è ritenuta vincolante.

SCIOGLIMENTO DEL MATRIMONIO

Dichiarazione di nullità

In alcuni casi ai cattolici può essere riconosciuta la nullità del matrimonio. Esso non consiste in una specie di divorzio religioso, in quanto la Chiesa cattolica considera il matrimonio come indissolubile, ma nel constatare da parte della legittima autorità canonica costituita (tribunale) che il matrimonio non è mai esistito, in quanto mancavano quelle che la Chiesa cattolica ritiene condizioni essenziali perché si possa celebrare un matrimonio valido: ad esempio, uno o entrambi i coniugi negavano in partenza qualcuna delle proprietà essenziali del matrimonio (esempi: indissolubilità, unicità, procreazione), oppure uno o entrambi dei coniugi non erano in grado per qualche motivo di assumersi tutte le responsabilità e i doveri legati al contrarre matrimonio (esempi: immaturità psicologica o affettiva; incapacità di intendere e di volere; mancanza di libertà, costrizione da parte dei genitori).

La dichiarazione di nullità è diversa per l’ordinamento canonico e per quello civile. Quindi una coppia potrebbe ricevere il divorzio dallo stato, ma non avere la dichiarazione di nullità dalla Chiesa cattolica. Potrebbe avvenire anche il contrario: la Chiesa riconosce la nullità di un matrimonio, ma lo stato non accetta tale sentenza (rifiutando la procedura di delibazione), perché lo stato non è d’accordo con la Chiesa sul fatto che il matrimonio possa essere dichiarato nullo in quel particolare caso. Quindi di fatto molti cattolici intentano i due procedimenti in modo separato, per ottenere sia la dichiarazione di nullità dalla Chiesa, sia il divorzio concesso dallo stato: questo permette agli ex coniugi di sposare un’altra persona sia per la Chiesa che per lo stato.

La nullità del matrimonio religioso ha effetto immediato dopo due sentenze conformi emesse dal tribunale canonico. Quindi, se la prima istanza si conclude in modo affermativo, è comunque necessario appellarsi in seconda istanza per ottenere una seconda sentenza affermativa; se le prime due sentenze non sono conformi, è necessaria una terza sentenza per dirimere la questione.

Proibizione del divorzio

Con l’indissolubilità del matrimonio religioso viene sancito che l’istituto del divorzio non è permesso: la Chiesa dichiara che ciò che Dio unisce, l’uomo non può dividere (Marco 10,9). Di conseguenza le persone che ottengono un divorzio civile sono ancora considerate sposate agli occhi della Chiesa cattolica, che non consente loro di celebrare un nuovo matrimonio religioso, anche se possono ovviamente contrarre un matrimonio civile.

ANNIVERSARI

  • 1 anno – Nozze di Carta
  • 2 anni – Nozze di Cotone
  • 3 anni – Nozze di Cuoio
  • 4 anni – Nozze di Seta
  • 5 anni – Nozze di Legno
  • 6 anni – Nozze di Ferro
  • 7 anni – Nozze di Rame
  • 8 anni – Nozze di Bronzo
  • 9 anni – Nozze di Ceramica
  • 10 anni – Nozze di Stagno
  • 11 anni – Nozze d’Acciaio
  • 12 anni – Nozze di Lino
  • 13 anni – Nozze di Pizzo
  • 14 anni – Nozze d’Avorio
  • 15 anni – Nozze di Cristallo
  • 20 anni – Nozze di Porcellana
  • 25 anni – Nozze d’Argento
  • 30 anni – Nozze di Perle
  • 35 anni – Nozze di Corallo
  • 40 anni – Nozze di Rubino
  • 45 anni – Nozze di Zaffiro
  • 50 anni – Nozze d’Oro
  • 55 anni – Nozze di Smeraldo
  • 60 anni – Nozze di Diamante
  • 70 anni – Nozze di Grazia