IL CORPO UMANO
(a cura di Bruno Silvestrini)
- Anatomia – Studia la forma e la struttura degli organi.
- Biologia – Studia i fenomeni della vita e le leggi che li governano.
- Fisiologia – Studia la funzione degli organi.
- Morfologia – Studia le forme e le loro modificazioni.
- Patologia – Studia le cause e la natura delle malattie.
APPARATO LOCOMOTORE

SCHELETRO – FORMATO DA 208 OSSA
ARTICOLAZIONI
- Scatola cranica: Frontale – parietale – temporale – occipitale.
- Colonna vertebrale : 32 – 33 vertebre; 7 cervicali, 12 dorsali 5 lombari, 5 sacrali, 3 o 4 coccigee.
- Gabbia toracica: 12 paia di coste articolate posteriormente alle 12 vertebre dorsali ed anteriormente: dalla I alla VII singolarmente collegate allo sterno tramite un piccolo ponte cartilagineo, dalla VIII alla X collegate allo sterno con un unico ponte cartilagineo, la XI e la XII non collegate allo sterno (coste fluttuanti).
- Spalla: Clavicola (anteriormente) Scapola (posteriormente).
- Braccio: Omero.
- Avambraccio: Radio (dalla parte del pollice) – Ulna (dalla parte del mignolo).
- Bacino: Sacro – Iliache – Pube – Ischio.
- Coscia: Femore (è il più lungo osso del corpo umano).
- Ginocchio e Gamba: Rotula – Tibia (osso di maggiore dimensione) – Perone.
- Piede: Tarso (7 ossa) – Metatarso (5 ossa).
- Articolazioni Mobili: Gomito, ginocchio, vertebrali, ecc.
- Articolazioni Semimobili: Sinfisi pubica.
- Articolazioni Fisse: (fra le ossa del cranio).
Le superfici articolari sono ricoperte da cartilagine, lubrificate dal liquido sinoviale.
MUSCOLI
Sono un tessuto contrattile. La cellula muscolare sottoposta a stimolo nervoso si contrae e si rilascia quando questo cessa. Ogni muscolo è inserito, tramite tendini, ad uno o più segmenti ossei.
- Muscoli sfinteri: Formano un anello che, contratto, si restringe fino a chiudersi: Occhi, Labbra, Ano, ecc.
- Muscoli volontari: Cioè controllati dal sistema nervoso di relazione.
- Muscoli involontari: Che funzionano indipendentemente dalla nostra volontà: Cuore, ecc.
La Cute: Ha la funzione di: protezione, respirazione, termoregolazione, sensibilità. Sono presenti le terminazioni nervose che ci permettono di riconoscere al contatto la temperatura, forma degli oggetti, qualità. Sono presenti inoltre: i Follicoli piliferi, le Ghiandole sebacee (protegge la pelle dagli agenti esterni, mantiene morbidi gli strati più superficiali). Le Ghiandole sudoripare (la sudorazione, oltre a concorrere alla eliminazione delle sostanze tossiche prodotte dal corpo umano è indispensabile per la regolazione della temperatura corporea.
APPARATO DIGESTIVO
Ogni cellula dell’organismo ha bisogno per vivere di energia e sostanze nutritive: proteine, grassi, zuccheri, acqua, sali minerali. Ha inizio nella bocca con la masticazione e il mescolamento con la saliva da parte della lingua. Successivamente con l’epiglottide che chiude la via aerea, il bolo alimentare progredisce nel faringe e poi nell’esofago. Questa è la fase della deglutizione. L’ulteriore progressione del bolo alimentare, fino allo stomaco e poi attraverso il duodeno e l’intestino tenue fino al colon ed al retto, avviene per la attiva contrazione muscolare delle pareti. La digestione avviene gradualmente nei diversi segmenti del tubo gastroenterico. Per la digestione l’organismo spende una discreta quantità di energia, perciò dopo ogni pasto una notevole quantità di sangue affluisce nell’intestino. (Digestione con i succhi gastrici dello stomaco; mescolamento con la bile proveniente dal fegato e con i succhi pancreatici nel duodeno, assorbimento delle sostanze nutritive nell’intestino tenue).
VIE AEREE

(fosse nasali, faringe, laringe, trachea, bronchi, bronchioli)
Alveoli: dove avvengono gli scambi respiretori
Carrefour Laringo Esofageo: Vi è in questa sede una valvola, l’epiglottide, che chiude le vie aeree quando l’individuo compie movimenti di deglutizione. Questo riflesso impedisce alla saliva e agli alimenti l’entrata nella trachea e nei bronchi. Lo spazio respiratorio intra-polmonare è rappresentato dall’insieme degli alveoli. Le pareti alveolari hanno una superficie totale di circa 80 m². A contatto della parete degli alveoli sono disposti i capillari attraverso i quali i gas passano dagli alveoli al sangue e viceversa. Il volume dello spazio alveolare, al termine di una normale espirazione, è di circa 2.500 cm³. A questo volume possono aggiungersi con profonda inspirazione 2 o 3 litri d’aria. A riposo un adulto muove attraverso le sue vie respiratorie circa 500 cm³. d’aria. Ad ogni inspirazione (14 – 16 volte al minuto) entra nell’ambiente polmonare una massa gassosa uguale a circa 1/5 del volume. La tosse è un fenomeno caratteristico dell’apparato respiratorio e serve a mantenere libere le vie aeree. Consiste nell’introdurre nei polmoni circa 1000-1500 cm³. d’aria, trattenuta un attimo negli alveoli, viene poi bruscamente espulsa con l’ausilio di tutta la muscolatura respiratoria. La veloce corrente d’aria asporta le secrezioni che si formano nelle vie aeree. Quando l’apparato respiratorio non è in grado di inspirare una quantità d’aria sufficiente, ristagnano le secrezioni nelle vie aeree causando complicazioni.
SCAMBI RESPIRATORI
L’aria che respiriamo contiene il 20, 93% di ossigeno e il 79% di azoto. L’organismo assorbe circa ¼ di ossigeno, per cui l’aria espirata ne contiene ancora il 15% circa. L’aria espirata contiene anidride carbonica (CO2) circa uguale al volume di ossigeno consumato ed è inoltre satura di vapore acqueo. Attraverso la respirazione l’organismo elimina 400 cm³. circa di acqua nelle 24 ore e perde anche per evaporazione una discreta quantità di calore. L’ossigeno introdotto negli alveoli penetra nel sangue e si fissa nei globuli rossi. Il sangue non è un liquido semplice: esso è costituito dal plasma, nel quale sono in sospensione i globuli rossi, circa 4/5.000.000 ogni mm³ di sangue. Un litro di sangue contiene circa 200 cc. di ossigeno, di questo 1/3 viene ceduto ai tressuti. Il sangue che lascia i polmoni è ricco di ossigeno (sangue arterioso) ed assume un colore rosso vivo. Il sangue povero di ossigeno è bluastro, colore tipico del sangue che circola nelle vene (sangue venoso). Una cute rosea significa che i tessuti ricevono ossigeno a sufficienza. Una cute bluastra (cianosi) è segno che l’ossigeno a disposizione delle cellule è insufficiente. L’anidride carbonica che viene eliminata dai polmoni non modifica il colore del sangue.
LA RESPIRAZIONE
La respirazione permette ad ogni cellula di ricevere l’ossigeno che le serve per vivere e di espellere l’anidride carbonica (CO2). La ritmica contrazione del muscolo diaframma e della muscolatura del collo e intercostale provoca una dilatazione della gabbia toracica. All’interno i polmoni comunicano con l’esterno tramite il naso e la bocca, la trachea ed i bronchi. Ad ogni contrazione della muscolatura respiratoria l’aria viene aspirata nei polmoni (nell’aria che respiriamo il 20,98% è ossigeno – il 15% nella respirazione bocca a bocca). Qui, attraverso la parete sottile degli alveoli, l’aria entra in contatto con il sangue ed avviene lo scambio dei gas: l’ossigeno passa dall’aria al sangue e l’anidride carbonica dal sangue all’aria, che poi viene espirata. Il sangue, poi va a contatto con tutte le cellule dell’organismo per dare ossigeno e asportare anidride carbonica. L’aria che giunge nei polmoni viene riscaldata ed umidificata nelle prime vie aeree (bocca, naso, laringe), senza umidità si seccherebbero le mucose. La presenza di materiale liquido o solido in trachea, nella persona cosciente, provoca il riflesso della tosse, con cui ogni sostanza viene espulsa.
CIRCOLAZIONE SANGUIGNA
La circolazione sanguigna porta il sangue a tutte le parti dell’organismo. Esso provvede ai bisogni respiratori e nutritivi dei tessuti e porta i residui gassosi e le scorie organiche agli emuntori (reni, fegato, polmoni, ecc.). Equilibra e regolarizza la temperatura del corpo. L’apparato cardiovascolare è formato da organi “cavi”:
- Cuore: è un muscolo particolare, infatti è di tipo striato, ma involontario. Ha due compiti fondamentali: la struttura muscolare pompa il sangue in tutti gli organi attraverso le arterie, mentre il tessuto specifico di conduzione, dà origine al battito cardiaco.
- Vasi sanguigni: strutture che permettono il trasporto del sangue all’organismo. Essi possono essere classificati in:
- Arterie: vasi sanguigni che nascono dai ventricoli e portano il sangue poco ossigenato ai polmoni (attraverso l’arteria polmonare che nasce dal ventricolo destro) e sangue ossigenato a tutto il corpo (attraverso l’aorta che nasce dal ventricolo sinistro);
- Vene: vasi sanguigni che trasportano sangue carico di anidride carbonica ai polmoni e sostanze di rifiuto a fegato e a reni per la depurazione; le loro pareti sono meno spesse di quella delle arterie, poiché la pressione del sangue è meno elevata;
- Capillari: permettono gli scambi fra il sangue e i tessuti, infatti sono di dimensioni microscopiche e si trovano fra le cellule.
Una delle caratteristiche più sorprendenti del sistema circolatorio dei vertebrati è il letto capillare, una fitta rete che collega il circuito arterioso e quello venoso. Il lato arterioso di ciascun letto capillare porta il sangue ossigenato dal cuore ai tessuti, mentre il sangue povero di ossigeno raccolto dai tessuti risale attraverso le vene al cuore, aiutato in questo dalla pompa muscolare, cioè dalla pressione esercitata dai muscoli sulle vene.
- Vasi linfatici: si distinguono in vasi periferici, assorbenti (capillari linfatici) e nei vasi di conduzione, di vario tipo in base al calibro ed alla struttura.
Esistono due grossi circuiti arteriosi: la grande circolazione o circolazione sistemica e la piccola circolazione o circolazione polmonare. La grande circolazione prende l’avvio dal ventricolo sinistro che, contraendosi, spinge il sangue ricco di ossigeno nell’aorta e da qui in tutte le arterie del corpo, che trasportano il sangue ossigenato ai diversi tessuti e apparati. Dai tessuti, il sangue attraverso, il sistema delle vene cave, raggiunge l’atrio destro del cuore. Dal ventricolo destro inizia la piccola circolazione: da qui il sangue viene pompato, tramite l’arteria polmonare, nei polmoni dove negli alveoli circondati da una ricca rete di capillari, cede l’anidride carbonica e si arricchisce di ossigeno. Tramite le vene polmonari raggiunge l’atrio sinistro del cuore e da qui riparte tutto il ciclo precedente.
Strutture Vascolari
Vasi Arteriosi
I vasi arteriosi hanno la caratteristica di essere molto elastici e ricchi di muscolatura liscia. Le arterie sono gli unici vasi (sia sanguigni che linfatici) a possedere un’elevata pressione all’interno del lume che si aggira, in un individuo sano e in stato di riposo, attorno ai 110-120 mmHg di massima e 70-80mmHg di minima; la pressione viene calcolata come differenza di pressione con l’esterno. La componente muscolare permette la pulsatilità delle arterie, che è sincrona con quella del ventricolo: ciò fa sì che se l’arteria viene recisa, il getto di sangue che ne esce non è continuo, ma è intermittente.
Tronco e arterie polmonari
Il tronco polmonare è l’arteria principale della piccola circolazione. Nasce dal ventricolo destro e si porta cefalicamente e lateralmente verso sinistra, anteriormente rispetto all’aorta ascendente e al cuore. Lateralmente si trova in contatto con la pleura mediastinica, ed è ricoperto dal pericardio fibroso. L’arteria polmonare destra è più lunga della sinistra ed ha un calibro maggiore perché il polmone destro ha tre lobi, mentre il sinistro solo due. Entrambe le arterie si portano all’ilo polmonare. Le arterie polmonari non vascolarizzano i polmoni, che sono invece vascolarizzati dalle arterie bronchiali.
Aorta
L’aorta è l’arteria principale della grande circolazione. Origina dal ventricolo sinistro e si porta subito verso l’alto e verso destra, dove prende il nome di aorta ascendente. Dai seni di Valsalva destro e sinistro traggono origine le due arterie coronarie, destra e sinistra, che forniscono il sangue arterioso al cuore. L’arco aortico si porta verso l’alto e verso sinistra per poi curvare verso il basso e a sinistra e proseguire come aorta discendente nel tratto toracico e, sotto il diaframma, nel tratto addominale. L’aorta addominale è retroperitoneale. Tutti i visceri sono irrorati da vasi di calibro sempre più ridotto a seconda delle suddivisioni subite. Due rami, molto più grossi degli altri, sono le due arterie iliache comuni, deputate alla vascolarizzazione della pelvi, della regione glutea e di tutto l’arto inferiore.
Arterie carotidi
L’arteria carotide è un’arteria importante che nasce a destra dal tronco arterioso brachiocefalico e a sinistra dall’arco aortico, medialmente all’arteria succlavia sinistra. Giunta a livello della quarta vertebra cervicale si divide nei suoi rami terminali, le arterie carotide interne e l’arteria carotide esterna. Nella zona della biforcazione terminale si riscontra un rigonfiamento, il seno carotideo che contiene barocettori che misurano la pressione e la pO2 del sangue, i cui impulsi sono raccolti dal nervo glossofaringeo (9ºNC).
I rami terminali dell’arteria carotide interna sono intracranici e sono le arterie cerebrale anteriore, corioidea anteriore, cerebrale media e comunicante posteriore.
Arteria succlavia
La succlavia (dx e sx) prosegue su per la spalla, dopo avere prodotto l’arteria vertebrale, dà un altro ramo, l’arteria intercostale suprema (che nutre le prime coste ed i muscoli della regione circostante) e l’arteria cervicale profonda (per le vertebre cervicali ed i loro muscoli). Sulla faccia anteriore, invece, produce verso il basso l’arteria toracica interna. A livello mediale allo sternocleidomastoideo, produce un tronco diretto verso l’alto (tronco tireocervicale). L’arteria prosegue dietro allo sternocleidomastoideo e va alla regione ascellare, dopo avere dato anche il ramo trasverso del collo. L’arteria ascellare poi continua nel braccio.
CUORE
Situato nel mediastino, ha forma di cono appiattito ed è grande circa come un pugno. La base, corrispondente ai due atrii, guarda in alto, in dietro ed a destra; inferiormente a questa si trovano i due ventricoli. Oltre la base ha due facce (diaframmatica e sterno costale) due margini (acuto ed ottuso) e la punta, o apice.
È un muscolo cavo che può essere considerato come una pompa doppia con le sue valvole unidirezionali. Una sezione della pompa (atrio e ventricolo destro, che è 1/3 di quello sinistro) è a bassa pressione e serve a far passare il sangue attraverso i polmoni (per ossigenarsi attraverso gli alveoli). L’altra (atrio e ventricolo sinistro) è ad alta pressione e manda il sangue a tutto l’organismo. A riposo il cuore espelle 75 – 80 cm³. di sangue. I battiti sono in media 60-80 al minuto. L’attività di pompa è propria dei ventricoli. (il cuore soffre di più con la bassa pressione che con l’alta).
Il cuore è costituito da tre tonache; dall’interno all’esterno esse sono:
- Endocardio con stesse funzioni e struttura dell’endotelio;
- Miocardio: muscolo ibrido tra liscio e striato, infatti ha la capacità di contrarsi velocemente e ritmicamente, ma è un muscolo involontario. È formato da cellule le cui proteine contrattili sono più organizzate dei muscoli lisci, ma meno di quelli striati. Queste cellule sono lunghe 100–500 micron ed hanno un diametro di 100 – 200 micron.
- Epicardio: è la tonaca più esterna ed è assimilabile alla tonaca avventizia dei vasi.
Questo organo è avvolto da una doppia lamina di tessuto fibrosieroso, il pericardio. Superoposteriormente e verso destra il cuore presenta i due atrii; anteroinferiormente ed a sinistra presenta i ventricoli. Entrambi sono formati dalla muscolatura specifica cardiaca (miocardio).
Dal cuore emergono le principali arterie: l’aorta (dal ventricolo sinistro) ed il tronco polmonare (dal destro); in esso sboccano le principali vene, le cave superiore ed inferiore (all’atrio destro) e le vene polmonari (al sinistro). Dall’arteria aorta emergono le arterie coronarie, che irrorano il cuore stesso per poi confluire nel seno coronario, il quale sbocca direttamente nell’atrio destro.
Sulla parte posteriore dell’atrio destro vi è una piccola massa di tessuto specializzato nel “dare il tempo” al cuore, detto anche segnapassi, noto come nodo senoatriale (o nodo di Keith-Flack). Questo invia il segnale di contrazione anche al nodo atrio-ventricolare (o di Aschoff-Tawara), posto all’interno dell’atrio destro, alla base del setto interatriale.
Sezionando il cuore in modo frontale appaiono quattro cavità, due a sinistra e due a destra chiamati atri e ventricoli, destri e sinistri. Le cavità sono divise: dal setto interatriale e dal setto interventricolare, che ha una struttura muscolare più evidente. La muscolatura cardiaca si inserisce nello scheletro fibroso del cuore, formato dalle 4 valvole e dalle strutture fibrose che le tengono insieme.
APPARATO URINARIO
L’apparato urinario ha il ruolo, attraverso la filtrazione del sangue, di liberare l’organismo da una parte dell’acqua in esso contenuta, dalle scorie organiche e dalle sostanze che entrano poi a comporre le urine (urea, sali ammoniacali, cellule morte, cloruro di sodio, acido fosforico, ecc.).

Apparato urinario: Reni, ureteri, vescica, uretra.
Diuresi: Emissione di urina dai reni, è continua e non può essere assente che per poche ore. In mancanza di diuresi occorre la dialisi, poiché l’accumulo di sostanze tossiche conduce gradualmente alla morte.
SISTEMA NERVOSO
Controlla tutte le funzioni del corpo umano. E’ costituito da:
- Cervello e cervelletto: Alloggiano nella scatola cranica, sono il punto di arrivo di tutti gli stimoli sensitivi ed il punto di partenza per tutti gli ordini motori.
- Midollo spinale: alloggia nel canale vertebrale ed è l’insieme di tutte le fibre nervose in partenza e in arrivo al cervello.
- Nervi periferici:
A) Fibre Efferenti – che si distaccano dal midollo spinale raggiungendo tutti i muscoli e apparati del corpo umano.
B) Fibre Afferenti – che giungono al midollo da tutti i punti sensitivi del corpo umano.
L’attività cerebrale presiede alla:
Vita vegetativa: Funzionamento degli organi della circolazione del sangue, del respiro, della digestione, ecc. La vita vegetativa viene così definita perché ci accumuna a tutti gli esseri viventi ed i suoi centri di controllo sono situati nel cervello basale (quando viene a mancare si ha la morte).
Vita di relazione: Funzione sia dei muscoli volontari che permettono il movimento, la parola, il controllo degli sfinteri, ecc., sia dei cinque sensi: tatto, olfatto, udito, vista, gusto. La vita di relazione ci permette un’attività sociale; i suoi centri risiedono nella corteccia, cioè sulla superficie del cervello (quando viene a mancare, si ha solo vita vegetativa e si dice che c’è il coma).
I POLMONI
Il polmone umano è un organo del corpo umano, posizionato in numero di due dentro la gabbia toracica e protetto, quindi, dalle coste. Il polmone ha grosso modo la forma di un cono e il suo peso, molto variabile in ogni individuo, è in media 680 g per il polmone destro e 620 g per il polmone sinistro nel maschio adulto. Sempre nel maschio i polmoni, in media distensione, hanno un diametro verticale massimo di 25-26 cm, un diametro sagittale alla base di 16 cm, un diametro trasverso alla base di 10-11 cm a destra e 7-8 cm a sinistra. I valori nella femmina sono leggermente inferiori rispetto al maschio. Nei polmoni avvengono gli scambi gassosi fra aria e sangue o ematosi e hanno quindi il ruolo di permettere l’ossigenazione del sangue e l’espulsione dell’anidride carbonica.
La superficie dei polmoni si presenta suddivisa in aree poligonali contornate da linee che presentano un colorito più scuro: le aree rappresentano i lobuli più periferici, mentre il contorno pigmentato corrisponde al connettivo dove si depositano particelle di pigmento responsabili della colorazione dei polmoni. Prima della nascita, infatti, il polmone è rosso, nel bambino diventa roseo, nell’adulto grigio biancastro e nell’anziano grigio ardesia. Il cambio di colore è dovuto all’accumulo di pigmento, soprattutto carbone, che viene fagocitato da macrofagi e depositato nel connettivo interstiziale intorno ai vasi.
Ogni polmone è rivestito da una membrana sierosa, la pleura formata da due foglietti: uno addossato al polmone stesso e l’altro alla parete toracica. Nello spazio fra i due foglietti che contiene un velo di liquido, esiste una pressione negativa che permette ai polmoni di espandersi durante l’inspirazione. Sempre all’interno della gabbia toracica i due polmoni delimitano uno spazio mediano, il mediastino che contiene il sacco pericardico con il cuore, il timo, i grossi vasi, parte dell’esofago, la trachea e i bronchi.
Il volume dei polmoni nel cadavere è di 1.600 e 1.300 cm3 rispettivamente nel maschio e nella femmina. La quantità di aria che può essere contenuta viene chiamata capacità polmonare e cambia in base alle fasi della respirazione. Nel vivente in un’inspirazione normale i polmoni possono contenere dai 3.400 ai 3.700 cm3 di aria che possono arrivare a 5.000-6.000 cm3 in un’inspirazione forzata. L’aria respiratoria, che corrisponde all’aria che viene inalata ed emessa con un’inspirazione ed espirazione ordinaria è di circa 500 cm3. In condizioni normali i polmoni sono ripieni di aria e presentano un peso specifico di 0,49, a differenza di un polmone che non ha mai respirato che ha un peso specifico di 1,068. Un polmone quindi, se immerso in acqua, galleggia se pieno d’aria mentre affonda se non ne contiene. Questo dato è molto importante in medicina legale perché consente di discriminare tra un corpo morto annegato o buttato in acqua dopo la morte (nel secondo caso il polmone galleggia).
IL FEGATO
Il fegato è una ghiandola annessa all’apparato digerente dalla forma a cuneo, modellata dai suoi rapporti con gli organi e i muscoli adiacenti. È ricoperto da una capsula connettivale, detta capsula di Glisson, che lo protegge ma non contribuisce in modo determinante alla sua forma. Pesa circa 1,5 kg, corrispondenti al 2,5% del peso corporeo di un uomo adulto di media corporatura; nell’infante il peso del fegato, per il suo maggior sviluppo in rapporto al resto dell’organismo può arrivare a costituire il 5% del totale. Il fegato tende a raggiungere le sue maggiori dimensioni verso i 18 anni di età, dopodiché il suo peso decresce gradualmente con l’avanzare degli anni. La superficie epatica è liscia e soffice, di colore rosso-brunastro, ma nei soggetti obesi può apparire giallastra, ciò è dovuto alle diffuse infiltrazioni di tessuto adiposo nel parenchima epatico (steatosi). Un’ulteriore importante funzione del fegato è quella di detossificare le sostanze tossiche.
Il fegato è localizzato nella cavità addominale superiore, in essa occupa quasi la totalità dell’ipocondrio destro e dell’epigastrio, spingendosi con il lobo sinistro ad occupare anche una parte dell’ipocondrio sinistro, che può risultare più o meno cospicua a seconda del soggetto. La sua superficie superiore si colloca a livello della 6ª costa e della 10ª vertebra toracica, mentre l’apice infero-laterale si spinge fino a livello dell’11ª costa e della 2ª vertebra lombare. Superiormente la capsula di Glisson e il peritoneo (tranne che per una piccola area triangolare) lo separano dal diaframma, antero-lateralmente è in rapporto con il diaframma che lo separa dalla pleura destra, talvolta il lobo sinistro è in rapporto allo stesso modo anche con la pleura sinistra, inferiormente con il colon trasverso, l’antro dello stomaco, rene e ghiandola surrenale destri, posteriormente con la colecisti, il fondo dello stomaco, l’esofago e la vena cava inferiore.
Il fegato, secondo la distinzione classica, è suddivisibile in quattro lobi: destro, sinistro, quadrato e caudato.
- Il lobo destro è il più voluminoso dell’organo, ha forma vagamente cupolare che comprende almeno in parte tutte le cinque facce del fegato.
- Il lobo sinistro ha un volume pari a circa la metà del destro ed esso è più sottile, ha forma triangolare.
- Il lobo quadrato si trova sulla superficie posteriore del fegato, ed appare come una sporgenza quadrangolare; è funzionalmente correlato al lobo sinistro. I suoi confini sono a destra la fossa cistica e la colecisti, superiormente l’ilo epatico, lateralmente il legamento rotondo.
- Il lobo caudato o lobo di Spigelio è una sporgenza della superficie posteriore del fegato, formato dal processo papillare e dal processo caudato; è funzionalmente correlato anch’esso al lobo sinistro. È delimitato inferiormente dall’ilo epatico, lateralmente dal legamento venoso, superiormente dalle vene epatiche e medialmente dalla vena cava inferiore.
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VARIE
(analisi sangue e urine – patologie – farmaci – ecc.)
Mentre si sogna si entra in uno stato detto di “paralisi onirica” (sonno REM) evita di seguire il sogno (es. sognare di correre e mettersi a correre).
Il sorriso è contagioso, anche per il nostro cervello: la scoperta arriva dagli University College e dell’Imperial College di Londra. Quando qualcuno ride o ha un sussulto di giubilo e soddisfazione, nel cervello dell’ascoltatore si accendono le aree attive, come se il solo vedere l’altro ridere inducesse il nostro cervello a imitarlo.
Secondo uno studio americano l’indole altruista è scritta nel solco superiore del cervello. Secondo Ippocrate, il padre della medicina nella sua “Teoria degli umori”:
- nel fegato aveva origine la collera
- nel cuore l’amore
- nel cervello l’apatia
- nella milza la malinconia
Il sesto senso – È quella sfera delle nostre percezioni che orienta le azioni ma al di fuori di ogni consapevolezza. Percezioni che si possono chiamare di volta in volta intuito, ispirazione, premonizione. Sensazioni che trascendono la logica e sono spiegabili semplicemente con una frase: “Me lo sentivo”. Il sesto senso è quell’istinto che aggiusta la rotta dei nostri comportamenti, che ci fa evitare gli ostacoli, bloccarci quando vorremmo partire, voltarci all’improvviso mentre attraversiamo la strada, ma è anche ciò che ci fa sentire conosciute persone mai viste, prendere decisioni contro ogni logica. È l’intuizione rapida che collega in una frazione di secondo elementi distanti. Sono stati condotti esperimenti che dimostrano che l’uomo ha ancora ha ancora queste capacità primitive ereditate dai suoi antenati che non sono andate perdute. Queste competenze sono mediate da strutture sottocorticali, dal collicolo superiore, e si riattivano in alcune situazioni. Esistono delle capacità che sono al di fuori della consapevolezza cosciente che influenzano la quotidianità. Il nostro cervello è in grado di elaborare informazioni al di fuori della coscienza mandandoci messaggi che determinano scelte apparentemente incomprensibili.
- Il sesto senso risiede nella corteccia cerebrale anteriore, in una regione tra i due emisferi.
- È un allarme che parte dal cervello e attiva il sistema nervoso, migliorando i riflessi.
- Ci avverte quando qualcosa non va o quando qualche nostra azione potrebbe provocare danni.
Le cellule contengono un enzima che favorisce la riproduzione delle stesse, dopo un certo numero di volte dalla riproduzione, le cellule perdono questo enzima e questa perdita favorisce l’invecchiamento.
Melanina – Quando i melanociti non funzionano più determinano l’imbiancamento dei capelli.
Cosa pensano i neonati: gli scienziati cominciano a svelare i misteri della mente dei bambini. Le ultime ricerche americane, hanno scoperto che i neonati fin dalle prime settimane di vita provano gelosia, simpatia, rabbia, frustrazione sintomi di depressione. Proprio come gli adulti. Anzi, di più: i ricercatori hanno evidenziato che alla mente dei più piccoli appaiono evidenti dettagli che noi riusciamo più a notare. Nel cervello di un neonato e apparentemente inconsapevole di tutto accade molto più di quanto si possa supporre.
Normalmente all’età di due anni un bambino è alto tra gli 82 e i 93 cm. circa, ossia raggiunge la metà di quello che sarà la sua statura da adulto.
ANALGESIA
L’analgesia è uno stato in cui non si prova dolore (analgia deriva dal greco Ανά, “senza”, e -ἄλγος, “dolore”). Esiste una classe di farmaci, quella degli analgesici o antalgici, che conducono a tale stato.
Definizione di dolore
Il dolore è stato definito dall’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP) come “un’esperienza spiacevole, sensoriale ed emotiva, associata ad un danno dell’organismo attuale o potenziale”. Il dolore ci avverte che qualcosa sta funzionando male nel corpo o sta per avvenire un danno. Nella pelle ci sono migliaia di cellule che sono recettori per il calore, per il freddo, per la pressione, per il tatto e per il dolore. Quando c’è un danno al corpo (per esempio dopo una ferita) queste piccole cellule spediscono informazioni al cervello. Ciò prima produce una situazione d’allarme ma poi, se persiste, procura sofferenza e disagio.
Dolore acuto e dolore cronico
- Il dolore acuto è un dolore ad inizio recente e di durata limitata. Esso generalmente ha una correlazione identificabile con un danno del corpo o con una malattia. Spesso va via contemporaneamente alla guarigione. Il dolore acuto è un sintomo d’allarme che segnala quindi un danno attuale o possibile. Ad esempio il dolore alla mano avvicinata al fuoco e quindi subito retratta.
- Il dolore cronico invece continua per periodi più lunghi di tempo, qualche volta anche nonostante la guarigione del danno originale. In questi casi non ha funzione di allarme e diventa dannoso per le sofferenze che causa. Il dolore cronico, a lungo andare, può produrre sentimenti di rabbia, di tristezza e di disperazione. Può modificare la personalità, procurare insonnia, interferire con le relazioni interpersonali. Generalmente un programma terapeutico completo può prevedere anche farmaci antiansia o antidepressivi che oltre ad intervenire sui sintomi collaterali servono ad aumentare l’efficacia degli stessi antidolorifici.
I medici che si occupano di terapia del dolore
Sono soprattutto gli anestesisti; infatti le responsabilità principali dell’anestesista durante l’intervento chirurgico sono rivolte principalmente alla soppressione del dolore. Molte delle tecniche e delle conoscenze che essi usano durante l’anestesia sono impiegate per alleviare anche altri tipi di dolore. Inoltre ci sono, per le rispettive competenze, i reumatologi, i neurologi, gli ortopedici, ecc. I medici che si occupano di terapia del dolore non solo sono esperti nel trattamento del dolore ma soprattutto sono preparati a diagnosticare la fonte del dolore. Attraverso visite, esami di laboratorio ed indagini radiografiche possono individuare le cause del dolore. Gli antidolorifici vengono spesso somministrati ai pazienti del pronto soccorso, in attesa dei risultati delle indagini del malessere.
Le cure per sopprimere il dolore
I progressi della medicina moderna hanno reso disponibili vari farmaci e trattamenti per curare e sedare il dolore. Il livello di dolore varia da persona a persona e da malattia a malattia per cui il trattamento relativo sarà studiato in base alle necessità specifiche del paziente. Per meglio rispondere alle esigenze individuali il trattamento può includere un unico antidolorifico o una combinazione di medicazioni e di metodi differenti. Gran parte dei pazienti che si rivolge alle Unità di terapia del dolore hanno già sperimentato altre terapie. I problemi comunemente trattati includono il dolore postoperatorio, il dolore da parto, la lombalgia, il dolore da cancro, le nevralgie, il mal di testa e le artriti. La maggior parte delle condizioni dolorose possono essere diagnosticate e trattate con successo dal medico di famiglia. Se il dolore persiste e non migliora con la cura il dolorante deve consultare uno specialista in terapia del dolore.
ANSIA
Ecco perché le donne sono più ansiose degli uomini (e non è solo un preconcetto). Hanno una diversa regolazione della serotonina a causa dell’alterazione dei livelli di estrogeni nel ciclo mestruale. L’ansia è un’emozione che tutti gli esseri umani provano, come la gioia, la rabbia, la paura. Stati d’animo diversi che guidano le nostre scelte, influenzano le nostre relazioni sociali. In particolare, l’ansia ha la funzione di segnalare situazioni pericolose o spiacevoli, attraverso modificazioni fisiologiche innescate da una maggiore quantità di adrenalina che entra in circolo nel sangue: il cuore batte più forte, aumenta la sudorazione, così come la pressione sanguigna. Entro certi livelli è fondamentale, in quanto ci mette in allerta e ci prepara ad affrontare situazioni stressanti. Se però l’ansia supera certi limiti, può sfociare in situazioni patologiche e innescare attacchi di panico e fobie. A quanto pare, esiste una certa predisposizione genetica a essere ansiosi e uno studio, condotto dall’Istituto di scienze neurologiche del Cnr di Catanzaro in collaborazione con l’Irccs Fondazione Santa Lucia di Roma, conferma che le donne per natura sono più ansiose degli uomini. Le donne, infatti, hanno fisiologicamente una diversa regolazione della serotonina, a causa dell’alterazione dei livelli di estrogeni per via del ciclo mestruale: hanno cioè livelli maggiori rispetto agli uomini di questo neurotrasmettitore che modula i comportamenti emotivi. «Insomma non è solo un preconcetto culturale – spiega Antonio Cerasa, ricercatore del Laboratorio di neuroimmagini dell’Istituto di scienze neurologiche di Catanzaro –. Alla base della predisposizione femminile all’ansia c’è una variante del gene 5-Httlpr che è implicato nella regolazione della serotonina e causa al soggetto portatore un aumento della quantità di questo ormone». Il gene vulnerabile, in pratica, produce più serotonina, eccesso che innesca stati emotivi ansiosi e difficoltà nel gestire le relazioni sociali. «Si tratta di una variazione genetica che riguarda il 20% circa della popolazione, ma il nostro studio ha evidenziato che nelle donne, più che negli uomini, sviluppa comportamenti ansiosi».
ANATOMIA DEL CERVELLO
Come spiegano sulla rivista Social Cognitive and Affective Neuroscience, i ricercatori hanno riscontrato questo effetto grazie a una ricerca sull’anatomia cerebrale di 138 soggetti adulti (uomini e donne). «In pratica, l’effetto di questa variante genetica che conferisce una dis-regolazione della serotonina è molto influenzata dal sesso: le donne, portatrici di questo polimorfismo, sono infatti più ansiose degli uomini con la stessa alterazione genica». La ricerca è stata condotta utilizzando avanzate tecniche di neuroimaging strutturale al fine di scoprire l’interazione tra predisposizione genetica e sesso e studiare più a fondo le basi neurobiologiche dell’ansia, «con l’obiettivo di verificare l’esistenza o meno di un biomarcatore cerebrale implicato nella patologia affettiva» precisa Cerasa. E in effetti, è emerso che questa predisposizione femminile si manifesta, a livello neurobiologico, con un’alterata anatomia dell’amigdala, una regione chiave nella regolazione delle emozioni. «In altri termini, un più ampio volume dell’amigdala può essere considerato il marcatore neurobiologico dell’ansia, un fattore predittivo dello sviluppo patologico di disturbi emotivi, fattore dunque di cui si potrà tener conto, anche a livello clinico, per far sì che l’ansia non prenda il sopravvento fino a compromettere la qualità della vita di chi ne soffre».
L’AMIGDALA
Il ruolo dell’amigdala, infatti, è già ben noto in ambito clinico: «Pazienti affette da disturbi psichiatrici con base ansiosa, come la bulimia nervosa o fobie sociali, sono caratterizzate da alterazioni a livello anatomico e funzionale di quest’area» precisa il ricercatore. «Ora, grazie ai risultati del nostro studio è possibile immaginare che un giorno, non molto lontano, con un semplice esame del sangue e una risonanza magnetica, sarà possibile individuare le persone che possono avere una più marcata vulnerabilità allo sviluppo di comportamenti patologici». E così, conoscendo i fattori che innescano l’ansia sarà possibile intervenire con una mirata terapia psicologica cognitivo-comportamentale. Anche se, naturalmente, non solo il sesso e i geni influenzano il comportamento umano: «non bisogna trascurare, infatti, le componenti ambientali che possono favorire o meno comportamenti ansiosi» aggiunge Cerasa. «Gli effetti biologici e comportamentali del polimorfismo del gene 5-Httlpr sono infatti modulati non solo dal genere ma anche da fattori ambientali – ribadisce –. Ma per misurare l’effetto negativo dei fattori di stress che si verificano nel corso di vita, cioè come l’ambiente può amplificare comportamenti ansiosi patologici, e ottenere risultati statisticamente rilevanti abbiamo bisogno di estendere lo studio a migliaia di soggetti». (26 novembre 2013)
ANTIBIOTICO
Si definisce antibiotico una sostanza di origine naturale prodotta da un microrganismo, capace di ucciderne un altro. Il significato della parola (dal greco) è «contro la vita». Il termine nell’uso comune attuale indica un farmaco, di origine naturale (antibiotico in senso stretto) o di sintesi (chemioterapico), in grado di rallentare o fermare la proliferazione dei batteri. Gli antibiotici si distinguono pertanto in batteriostatici (cioè bloccano la riproduzione del batterio, impedendone la scissione) e battericidi (cioè uccidono direttamente il microrganismo). Non hanno effetto contro i virus (a parte una possibile attività antivirale della rifampicina nei Poxvirus) e i parassiti, sui quali agiscono altri generi di chemioterapici.
L’uso di muffe e piante particolari nella cura delle infezioni era già noto in molte culture antiche – greca, egiziana, cinese – la cui efficacia era dovuta alle sostanze antibiotiche prodotte dalla specie vegetale o dalla muffa; non si aveva però la possibilità di distinguere la componente effettivamente attiva, né di isolarla. Le ricerche moderne iniziarono con la scoperta casuale della penicillina nel 1928 da parte di Alexander Fleming. Oltre dieci anni dopo Ernst Chain e Howard Walter Florey riuscirono a ottenerla in forma pura. I tre per questo conseguirono il premio Nobel per la medicina nel 1945. In realtà Vincenzo Tiberio, medico molisano dell’Università di Napoli, già nel 1895 descrisse il potere battericida di alcune muffe.
Meccanismo d’azione
Poiché gli antibiotici non agiscono su una sola struttura batterica, si distinguono a seconda che agiscano:
- attaccando la parete cellulare batterica: penicilline, cefalosporine, monobattami, carbapenemi, bacitracina, glicopeptidi (vancomicina) e cicloserina;
- attaccando la membrana plasmatica del batterio: polimixine;
- interferendo con la sintesi degli acidi nucleici: chinoloni, rifampicina, nitrofurantoina, nitroimidazoli;
- interferendo con la sintesi proteica: aminoglicosidi, tetracicline, cloramfenicolo, macrolidi, clindamicina, spectinomicina, mupirocina;
- interferendo col metabolismo energetico: sulfamidici, trimetoprim, dapsone, isoniazide;
Spettro d’azione
È possibile distinguere gli antibiotici in base alla loro efficacia contro:
- cocchi e bacilli Gram-positivi (aerobi): penicillina ad ampio spettro, vancomicina;
- cocchi e bacilli Gram-negativi (aerobi): cefalosporine, chinoloni, tetracicline, aminoglicosidi;
- batteri gram – anaerobi: penicillina, clindamicina.
Effetti indesiderati
Gli antibiotici possono colpire il microbiota umano e dare, di conseguenze, alterazioni dell’alvo, compensabili con l’assunzione di fermenti lattici.
Gli antibiotici possono provocare effetti indesiderati, come reazioni allergiche, dovute alla sensibilità dell’individuo verso uno o più componenti, oppure tossicità ad alto livello di vari distretti dell’organismo o, ancora, intolleranza provocata dall’interazione con altri farmaci. La dipendenza da questi farmaci e l’abuso degli stessi possono portare alla morte.
Abuso di antibiotici e resistenza batterica
L’abuso di antibiotici, con l’andare del tempo, ne causa l’inefficacia, in quanto i microrganismi sono in grado di sviluppare una resistenza nei confronti di un antibiotico che viene assunto con frequenza. Questa resistenza, è il risultato di una mutazione a livello genetico, la quale può essere di due tipi:
Cromosomica; ovvero una mutazione che si verifica a livello di cromosoma batterico.
Extracromosomica o Plasmidica; ovvero quando la mutazione avviene a livello del DNA extracromosomico, e, con precisione, a livello dei plasmidi R.
L’antibiotico-resistenza, rende il microrganismo immune all’antibiotico, annullandone gli effetti.
ANTISTAMINICI
Un antistaminico è un farmaco di varia natura chimica che ha l’effetto di contrastare l’azione dell’istamina, uno dei principali responsabili delle manifestazioni allergiche. Gli antistaminici agiscono su recettori specifici dell’istamina, inibendo la sua attività. Essi sono perciò degli antagonisti, hanno cioè un’alta affinità per il recettore, bassa affinità per l’istamina ed attività intrinseca nulla. I recettori per l’istamina sono tre: H1, H2 e H3, di cui l’ultimo non ancora ben conosciuto (sembra agire a livello del sistema nervoso centrale). I recettori H1 si trovano soprattutto a livello della cute e dei bronchi; i recettori H2 sono localizzati, invece, a livello dello stomaco.
L’effetto collaterale che si presenta nella maggior parte dei casi è la sedazione, ma possono anche presentarsi capogiri, stanchezza e offuscamento della vista. Per quel che riguarda la farmacocinetica, questi farmaci sono ben assorbiti per via orale. Sito di biotrasformazione è il fegato; piccole quantità di farmaco immodificato vengono escrete con le urine. Dal punto di vista dell’evoluzione chimica del farmaco, i principi attivi sono suddivisi per generazioni. La prima generazione di antistaminici, introdotta nella farmacopea ufficiale a partire dalla fine degli anni cinquanta, era caratterizzata da una bassa selettività verso i recettori H1 e da un’importante azione a livello del sistema nervoso centrale mediata dai recettori muscarinici (blocco degli effetti dell’acetilcolina). Pertanto gli antistaminici di prima generazione erano gravati da pesanti effetti sul sistema nervoso centrale (disturbi della vigilanza, sonnolenza, effetti sulla guida di veicoli) e non vengono più usati; oggi molti di essi sono addirittura diventati sedativi o anticinetosici (farmaci contro il mal di movimento). Le molecole di seconda generazione sono caratterizzate da una maggiore selettività verso il recettore H1, pertanto presentano una minore frequenza e intensità di effetti collaterali a carico del sistema nervoso centrale. Queste molecole vengono attualmente usate nel trattamento sintomatico della rinite e dell’orticaria e, pur essendo meglio tollerate, necessitano in ogni caso di prudenza nell’uso perché possono ugualmente provocare sonnolenza o interferire, soprattutto se assunte con alcool, con la capacità di guida di veicoli a motore. L’istamina è una sostanza endogena che influisce in modo rilevante su nervi, vasi sanguigni e altri tessuti. Un’alterazione può indurre stati di depressione, apatia, perdita di concentrazione riflessi, in particolare alla guida. Il consumo di alcol e sedativi intensificano tali effetti.
IL COLESTEROLO
I valori ematici di colesterolo sono influenzati soltanto in parte dall’alimentazione. Il nostro corpo possiede infatti un efficace meccanismo di sintesi epatica che gli consente di far fronte alle esigenze metaboliche senza contare troppo sulla quota assunta con la dieta. Esprimendo tale concetto in termini quantitativi scopriamo che l’alimentazione influenza i valori di colesterolo soltanto del 10-20%. Quando si parla di dieta per il colesterolo è importante capire innanzitutto quali siano i reali obiettivi di una simile strategia alimentare. Il colesterolo, è un grasso importantissimo per l’organismo e proprio in virtù di questo suo ruolo metabolico di primo piano sarebbe impossibile farne a meno.
Per distribuirsi ai vari tessuti il colesterolo circola nel sangue legato a diverse proteine con densità differente, quello legato alle HDL (dall’inglese “high density lipoproteins”, lipoproteine ad alta densità) viene chiamato colesterolo buono, mentre quello legato alle LDL (lipoproteine a bassa densità) è conosciuto come colesterolo cattivo. Il colesterolo cattivo è così chiamato per via del suo forte potere aterogeno: se presente in eccesso tende infatti a depositarsi sulle pareti interne delle arterie formando a lungo andare delle placche che ostacolano in maniera più o meno importante il flusso sanguigno. L’effetto negativo del colesterolo LDL è controbilanciato da quello buono o HDL, vero e proprio spazzino che ripulisce le arterie impedendo che si formino depositi.
La distinzione fra questi due diversi tipi di colesterolo è fondamentale dato che rappresenterà il filo conduttore della nostra dieta. Non si tratterà quindi di ridurre semplicemente il colesterolo totale ma di migliorare il rapporto tra colesterolo buono HDL e colesterolo cattivo LDL.
E’ possibile controllare i valori di colesterolo buono con la dieta? La dieta, e più in generale lo stile di vita, sono in grado di incidere positivamente o negativamente sui livelli di colesterolo nel sangue. Proprio dal connubio di questi due fattori nasce un’arma estremamente efficace che ognuno di noi può utilizzare per difendersi dall’ipercolesterolemia.
Stile di Vita: Abolire il fumo dato che i composti tossici che si sviluppano durante la combustione sono in grado, da soli, di abbassare i livelli di colesterolo buono (HDL): l’attività fisica, indipendentemente dalla dieta, è in grado di aumentare la frazione di colesterolo buono senza influenzare significativamente i livelli di quello cattivo. Ne consegue che il colesterolo totale tende complessivamente ad aumentare; tale situazione non deve comunque spaventare più di tanto dato che – come abbiamo visto – il vero fattore di rischio è il rapporto tra colesterolo totale e colesterolo buono (HDL). Tale rapporto dev’essere inferiore a cinque nell’uomo e a quattro e mezzo nella donna (ad esempio se il colesterolo totale di una persona è 250 mg/dl e l’HDL è 60 mg/dl, l’indice di rischio è pari a 4,16; si tratta pertanto di una condizione ottimale mentre, secondo le vecchie tabelle di riferimento, il paziente si collocherebbe in una fascia di rischio medio).
IL CORTISONE
Il cortisone è un ormone usato come farmaco. Chimicamente è un corticosteroide di formula C21H28O5 strettamente correlato al corticosterone. Corticosteroidi e adrenalina sono ormoni rilasciati nel sangue dalle ghiandole surrenali in situazioni di stress. Essi elevano la pressione arteriosa e preparano l’organismo alla reazione di lotta o fuga. Il cortisone è il precursore inerte della molecola del cortisolo. Esso viene attivato per riduzione del 11-cheto gruppo mediante un enzima chiamato 11-β-steroide-deidrogenasi. La forma attiva del cortisone è il cortisolo, detto anche idrocortisone. In chimica farmaceutica il cortisone è usato nel trattamento di diversi disturbi, somministrato per via orale, endovenosa e cutanea. Uno degli effetti del cortisone sull’organismo, potenzialmente dannoso per certi aspetti, è di deprimere il sistema immunitario; ciò spiegherebbe l’evidente correlazione tra uno stress elevato e numerose malattie. Il cortisone fu scoperto per primo dal chimico americano Edward Calvin Kendall al quale venne attribuito il Premio Nobel per la medicina e la fisiologia – insieme a Philip S. Hench e Tadeusz Reichstein – per la scoperta degli ormoni della corteccia surrenale, delle loro strutture e funzioni. Negli anni sessanta le ricerche sull’alimentazione condotte dal dr. Peter J. D’Adamo tendevano a mostrare come i livelli di cortisone siano correlati al gruppo sanguigno dell’individuo: in media i più alti sono nel gruppo A e i più bassi nel gruppo 0. In realtà tali affermazioni non sono mai state confermate dalla medicina convenzionale né da successive ricerche.
Durante la seconda guerra mondiale, i piloti tedeschi della Luftwaffe e i kamikaze in Giappone facevano uso di un prodotto, derivante dagli estratti delle ghiandole surrenali di origine bovina dall’Argentina. Edward Calvin Kendall, ricercatore della Mayo Clinic di Rochester (Stati Uniti), si interessò agli effetti di questi estratti e condusse ricerche sulla componente corticale delle ghiandole surrenali. Isolò così da questi tessuti otto composti cristallini, assegnando a ciascuno una lettera dell’alfabeto. Il composto isolato come quinto in ordine di tempo, chiamato per questo “E”, possedeva un elevato potere antinfiammatorio. Dopo complessi processi produttivi, Lewis H. Sarett nel 1944 arrivò alla sintesi del composto E, chiamandolo cortisone. Nel 1949 fa il giro del mondo la notizia di un “artritico in bicicletta”. In seguito infatti a una intuizione, Philip S. Hench, ex medico militare, usò il cortisone in un paziente affetto da artrite reumatoide, consentendogli di ritrovare la mobilità perduta.
A metà ottocento Thomas Addison, un medico inglese, aveva descritto dei particolari casi di persone colpite da una strana malattia mortale. Eseguendo delle autopsie, scoprì che tutti questi pazienti avevano le surrenali semidistrutte. A quei tempi pochi conoscevano o avevano sentito parlare delle ghiandole surrenali. Nel 1716 la Bordeaux Academy of Sciences aveva bandito un concorso, con tanto di premio finale, il titolo “Qual è l’importanza delle surrenali?”, ma nessun concorrente aveva presentato qualcosa di serio e meritevole. Delle surrenali si sapeva soltanto che erano ghiandole senza condotto, cioè quelle che riversano il loro prodotto direttamente nel sangue, oggi chiamate “ghiandole endocrine”. Ebbe così inizio una ricerca affannosa dei principi attivi prodotti dalle ghiandole. Si vide che nelle surrenali erano distinguibili due parti, la midollare e la corticale, che la prima produceva un ormone detto adrenalina, ma che fosse la corticale ad essere di vitale importanza per l’organismo. Molti laboratori stavano facendo ricerche per trovare il principio attivo della corticale, da più parti erano arrivate notizie circa la produzione di un estratto rilevatosi utile in pazienti colpiti dal morbo di Addison. Alla fine degli anni trenta si arrivò alla conclusione che la corticale liberava sia ormoni regolatori dell’equilibrio salino, o minerale, dunque chiamata mineralcorticoidi, sia ormoni che controllavano il metabolismo degli zuccheri, o glucidi, detti per questo glucocorticoidi.
La corticale produceva una miscela di composti diversi, che studiarono Edward Kendall (USA) e Tadeus Reichstein (Basilea). Scoprirono che queste sostanze erano degli steroidi che chiamarono composto A, B, C, ecc. Kendall scoprì che i composti A, B, E e F restituivano agli animali privi di surrenali la possibilità di resistere a particolari situazioni di stress. Durante la seconda guerra mondiale i servizi segreti statunistensi scoprirono che alcune delle sostanze studiate da Kendall, in particolare il composto E, veniva somministrato agli aviatori della Luftwaffe, e li faceva sentire a proprio agio anche oltre i 13.000 metri di altezza. Questo fece in modo che ci fosse una brusca accelerata delle indagini, era necessario che il composto E fosse disponibile anche per gli aviatori statunitensi. All’inizio del 1941, al termine di un convegno, Kendall e Hench (un altro medico che analizzava le sostanze, cercando di aiutare i pazienti che soffrivano di artrite reumatoide), presero il formale impegno di provare il composto E nei pazienti con artrite reumatoide non appena la sostanza fosse stata disponibile. Nel 1944, Lewis Sarett, un chimico della casa farmaceutica Merck, era riuscito a sintetizzare in laboratorio il composto E, a partire da un’altra molecola, l’acido deossicolico, ricavato dalla bile dei bovini macellati. Così Hench chiese alla casa farmaceutica di sperimentare la nuova sostanza in una ventinovenne affetta da una grave forma di artrite reumatoide. La risposta fu affermativa, e così il 28 settembre 1948 fu fatta la prima storica iniezione del farmaco. La risposta fu immediata, dopo appena tre giorni la signora era già migliorata e continuò a migliorare ulteriormente nei giorni successivi. La sostanza fu poi sperimentata anche a pazienti affetti dalla malattia di Addison e gli effetti furono ottimi. Le notizie girarono per tutto il mondo, ma ci fu una confusione, molti pensarono che il composto E e la vitamina E fossero la stessa cosa, così per evitare ogni equivoco, Kendall e Hench decisero di chiamare la sostanza cortisone. Mentre il cortisone liberava da infiammazione le doloranti articolazioni dei malati, la scoperta del cortisone fu paragonata a quella della penicillina. Il cortisone fu poi prodotto in diversi modi, da patate dolci messicane a ormoni femminili, ecc. Nel 1950, Kendall, Hench e Reichstein vinsero il premio Nobel per la fisiologia e la medicina.
Avvertenze
Modalità di utilizzo: impiegare la posologia minima di cortisone necessaria per il controllo della malattia, attuando una graduale riduzione non appena possibile. Dosi tendenzialmente alte di idrocortisone o di cortisone possono provocare un aumento della pressione arteriosa, ritenzione idrosalina, o eccessiva deplezione di potassio e calcio. Durante la terapia corticosteroidea possono quindi essere necessari un regime dietetico povero di sodio e un apporto supplementare di potassio. I derivati sintetici del cortisone presentano una probabilità inferiore di influenzare l’omeostasi idrosalina rispetto al cortisone, ma la differenza tende ad attenuarsi alle dosi elevate.
In corso di terapia prolungata può essere opportuno instaurare una profilassi per l’ulcera e monitorare i valori della pressione arteriosa e della glicemia. Poiché lo stress aumenta il consumo di cortisone, valutare la somministrazione di corticosteroidi a rapida azione.
Modalità di sospensione: l’interruzione della somministrazione di corticosteroidi per via sistemica va effettuata gradualmente, per evitare il rischio di insufficienza surrenalica, in particolare in caso di assunzione di cicli ripetuti, dopo trattamenti prolungati (oltre le 3 settimane) e/o dosaggi elevati (es. superiori a 200 mg/die di cortisone acetato), in presenza di possibili cause aggiuntive di soppressione surrenalica. In assenza di una probabile recidiva della malattia, la terapia corticosteroidea per via sistemica non richiede necessariamente una riduzione graduale. Comunque, dovendo adottare una riduzione della posologia, questa può essere rapida fino al dosaggio fisiologico, quindi dovrebbe procedere più lentamente.
Soppressione surrenalica: la somministrazione prolungata di corticosteroidi può portare a un’atrofia surrenalica che può persistere per anni dopo la sospensione della terapia. L’interruzione improvvisa dopo trattamento a lungo termine può comportare insufficienza surrenalica, ipotensione e morte.
La sospensione può essere accompagnata da febbre, mialgie, artralgie, rinite, congiuntivite, noduli cutanei dolorosi e pruriginosi e perdita di peso. In caso di malattie gravi, traumi o interventi chirurgici, condizioni che richiedono all’organismo un aumento della sintesi endogena di ormoni corticosurrenalici, potrebbe essere necessario aumentare temporaneamente la dose di cortisone o in alternativa, se il trattamento era appena terminato, reintrodurre il farmaco.
Vaccinazioni: la vaccinazione antivaiolosa è controindicata nei pazienti in terapia corticosteroidea. Se il paziente è in terapia corticosteroidea, è preferibile posticipare qualsiasi tipo di vaccinazione perché si potrebbe avere una risposta anticorpale non ottimale (i corticosteroidi possiedono attività immunosoppressiva) e per un aumento del rischio di complicanze neurologiche. La terapia corticosteroidea sostitutiva (morbo di Addison) non rappresenta una controindicazione alla vaccinazione.
Tubercolosi in atto: nei pazienti con tubercolosi, il cortisone può essere somministrato solo in caso di tubercolosi fulminante o disseminata, in associazione alla terapia antitubercolare.
Tubercolosi latente: in caso di tubercolosi latente o nei pazienti con risposta positiva alla tubercolina, l’uso del cortisone richiede cautela e un attento monitoraggio, perché potrebbe indurre una riattivazione della malattia. Se la terapia corticosteroidea prevede tempi di somministrazione prolungati, è necessario istituire un trattamento di chemioprofilassi.
Ulcera peptica, coliti ulcerative aspecifiche, diverticoliti: queste condizioni patologiche richiedono cautela nella somministrazione del cortisone per il rischio di perforazione.
Miastenia grave: il cortisone deve essere usato con cautela in pazienti affetti da miastenia grave.
Insufficienza cardiaca congestizia e ipertensione: poiché i corticosteroidi possono indurre ritenzione idrica con formazione di edemi e aumento ponderale, la somministrazione a pazienti con insufficienza cardiaca o ipertensione richiede cautela.
Edemi: in caso di edema adottare una dieta iposodica (meno di 1 g/die); se il paziente non risponde in modo ottimale alla riduzione dell’apporto di sodio, cioè si osserva persistenza dello stato edematoso, valutare una riduzione del dosaggio di cortisone e/o un aumento dell’intervallo di somministrazione fino a normalizzazione della diuresi. In alternativa somministrare un diuretico in associazione a 1-2 g di potassio cloruro. Se l’edema persiste, sospendere il cortisone.
Osteoporosi: la somministrazione di corticosteroidi, in particolare a dosaggi elevati e/o per tempi prolungati, può indurre perdita di massa ossea con un aumento del rischio di frattura.
Valutare, sulla base del dosaggio e della durata del trattamento, la necessità di un monitoraggio periodico della densità ossea, tramite esame radiografico della colonna vertebrale. Alcuni autori raccomandano nei pazienti in terapia corticosteroidea superiore a 3 mesi, per la prevenzione dell’osteoporosi, oltre alla supplementazione di calcio, vitamina D, dieta proteica e regolare esercizio fisico, l’uso di bifosfonati o di analoghi dell’ormone paratiroideo nei pazienti con rischio elevato di frattura ossea.
Diabete: nei pazienti diabetici in terapia corticosteroidea potrebbe essere necessario aumentare i dosaggi di insulina o di ipoglicemizzanti orali.
Herpes simplex oftalmico: i corticosteroidi devono essere impiegati con cautela nei pazienti con herpes simplex oftalmico, per il rischio di perforazione della cornea.
Ipotiroidismo e cirrosi: somministrare con cautela il cortisone in caso di ipotiroidismo o cirrosi in quanto nei pazienti affetti da tali patologie gli effetti dei corticosteroidi risultano più marcati.
Infezioni: i corticosteroidi possono mascherare alcuni sintomi di infezione e durante il loro impiego si possono manifestare infezioni sovrapposte. In corso di terapia corticosteroidea si può osservare una ridotta resistenza alle infezioni e la tendenza, da parte dei processi infettivi, a non localizzarsi. In caso di infezioni ricorrenti, va sempre valutata l’opportunità di una terapia antibiotica.
Varicella: la somministrazione corticosteroidea aumenta il rischio di contrarre l’infezione della varicella nei pazienti non immunizzati. Il rischio è elevato in caso di terapia orale o parenterale, è minore in caso di terapia topica, inalatoria o rettale. I segni di un’infezione fulminante di varicella comprendono: polmonite, epatite e coagulazione intravascolare disseminata, mentre l’esantema cutaneo rimane un sintomo non particolarmente rilevante. L’esposizione al virus della varicella durante la terapia corticosteoidea sistemica o nei tre mesi successivi richiede un trattamento di immunizzazione passiva con immunoglobuline per varicella-zoster. Le immunoglobuline dovrebbero essere somministrate preferenzialmente entro 3 giorni dall’esposizione e non oltre i 10 giorni. I corticosteroidi non devono essere sospesi; potrebbe anzi essere necessario un aumento della dose.
Morbillo: in caso di esposizione al virus del morbillo trattare i pazienti non immunizzati, in terapia corticosterioidea, con immunoglobuline intramuscolari normali.
Alterazioni psichiche: la somministrazione sistemica di corticosteroidi, soprattutto se a dosaggio elevato, può indurre una alterazione dello stato d’animo del paziente i cui sintomi comprendono euforia, incubi, insonnia, irritabilità, instabilità dell’umore, ideazione suicidaria, reazioni psicotiche e disturbi del comportamento. Nei pazienti con anamnesi positiva per disturbi psichici possono manifestarsi paranoia o depressione grave. La maggior parte dei pazienti rispondono alla riduzione della dose o alla sospensione del farmaco; in alcuni casi è stato necessario istituire un trattamento farmacologico specifico.
Effetti sull’occhio: l’impiego prolungato dei corticosteroidi può causare cataratta subcapsulare posteriore, glaucoma con possibile lesione dei nervi ottici, e infezioni oculari secondarie dovute a funghi o a virus.
Terapia anticoagulante: monitorare il tempo di protrombina nei pazienti che ricevono corticosteroidi e anticoagulanti cumarinici contemporaneamente poiché i corticosteroidi potrebbero modificare la risposta del paziente agli anticoagulanti..
Ipoprotrombinemia: in presenza di ipoprotrombinemia, l’acido acetilsalicilico dovrebbe essere impiegato con cautela in corso di terapia corticosteroidea.
Fenitoina (difenilidantoina), efedrina, fenobarbitale, rifampicina: questi farmaci possono indurre un aumento del metabolismo e della clearance dei corticosteroidi. Valutare un eventuale aumento della dose di steroide.
Diuretici depletori di potassio: quando i corticosteroidi sono somministrati insieme a diuretici depletori di potassio, monitorare la concentrazione ematica di potassio per evidenziare un eventuale stato di ipokalemia.
Estrogeni, isoniazide: si consiglia una riduzione del dosaggio di cortisone quando somministrato in concomitanza con estrogeni o isoniazide.
Menopausa: l’utilizzo del cortisone durante la menopausa richiede cautela per i possibili effetti sull’osteoporosi.
Età pediatrica: i bambini e i ragazzi sottoposti a terapia corticosteroidea prolungata dovrebbero essere controllati accuratamente per quanto riguarda la crescita e lo sviluppo. Monitorare segni o sintomi di insufficienza surrenalica nei bambini nati da madri in terapia corticosteroidea durante la gravidanza.
Gravidanza e allattamento: la somministrazione di cortisone in gravidanza e durante l’allattamento è subordinata alla valutazione del rapporto rischio/beneficio.
Effetti e usi
Il cortisolo – un derivato del cortisone – e l’adrenalina sono i principali ormoni rilasciati in un corpo come reazione allo stress. Come già detto, alzano la pressione sanguigna e preparano il corpo al combattimento o alla fuga. Uno degli effetti potenzialmente dannosi del cortisone è però quella di sopprimere il sistema immunitario (una possibile spiegazione della correlazione tra stress e malattie), ma appunto per questo motivo è deliberatamente usato per sopprimere le risposte autoimmuni in persone sottoposte a trapianti di organi, al fine di prevenirne il rigetto. Il cortisone è un farmaco oggi usato in una numerosa varietà di trattamenti, e può essere somministrato per via orale, intravenosa o cutanea. Il cortisone e i corticosteroidi possono avere vari effetti collaterali, (anche se usati topicamente o per inalazione). Possono incrementare il rischio di diabete e osteoporosi.
Il Cervello Umano
«Il cervello umano non può più crescere» La teoria del neurobiologo di Cambridge Simon Laughlin
In millenni di evoluzione l’intelligenza avrebbe raggiunto il limite massimo: problemi di spazio e di energia. Il cervello umano avrebbe raggiunto i suoi limiti massimi: se si sviluppasse di più, comprometterebbe le altre funzioni vitali. Insomma, chi sognava che un domani la razza umana potesse acquisire chissà quali poteri telepatici o telecinetici dovrebbe ricredersi: più intelligenti di così, non saremo mai. È quanto sostiene Simon Laughlin, professore di Neurobiologia all’università di Cambridge, nel libro «Work Meets Life», di cui è coautore. Le tesi di Laughlin sono state riportate domenica da diversi giornali britannici, come il Sunday Times, l’Observer, il Daily Mail e il Sun. Secono Laughlin, in milioni di anni di evoluzione umana il cervello avrebbe ormai raggiunto il massimo livello possibile. Pieno fino all’orlo.
Non c’è spazio – A questo punto un’ulteriore crescita si scontrerebbe contro due barriere. La prima è che la miniaturizzazione delle cellule del cervello sarebbe ormai arrivata a un punto limite. Insomma, è un problema di fisica: non c’è spazio sufficiente per un’ulteriore significativa crescita. Inoltre, anche il numero di connessioni tra le cellule – da cui dipende l’intelligenza di una persona – non potrebbe più aumentare in modo significativo a causa della quantità di energia necessaria per farle lavorare.
Troppa energia – La seconda «barriera» all’evoluzione sarebbe costituita dal fatto che il cervello umano, pur rappresentando solamente il 2% del peso dell’organismo, consuma il 20% dell’energia: anche minimi aumenti nel potere di azione del cervello provocherebbero dunque un netto aumento dell’energia necessaria a sostenerli. «Abbiamo dimostrato che il cervello deve consumare, per funzionare, tanta energia quanto il cuore, e che i requisiti sono abbastanza alti da limitarne la performance», ha detto Laughlin al Sunday Times. Il collega Ed Bullmore ha aggiunto al Sun: «L’intelligenza ha un prezzo. Diventare più intelligenti significa sviluppare connessioni tra le diverse aree del cervello, ma questo si scontra con i limiti dell’energia disponibile, oltre che con lo spazio necessario per le connessioni».
Rischio involuzione – Secondo i neurobiologi di Cambridge esiste la possibilità che in futuro, anziché evolversi ulteriormente, la razza umana possa addirittura involvere dal punto di vista dell’intelligenza. Laughlin sostiene che, se la condizione degli esseri umani dovesse cambiare drasticamente, per esempio se venissero a mancare le riserve di cibo, il cervello potrebbe regredire, perché l’energia andrebbe convogliata su altre più utili funzioni. Insomma, altro che superpoteri: potremmo tornare ad assomigliare al nostro antenato, l’uomo di Neanderthal. (Corriere della Sera – 31 luglio 2011).
IL CUORE
Il cuore può rigenerare le sue cellule: il segreto in molecole simili al Dna
La capacità, finora osservata in alcuni rettili e nei pesci, può essere replicata nei mammiferi grazie ai microRna. Lo studio di un gruppo di ricercatori dell’Icgeb di Trieste. Il cuore dei mammiferi, uomo compreso, può riparare i danni prodotti dall’infarto e dall’invecchiamento, rigenerando le sue cellule. Una capacità osservata in alcuni rettili, in particolare le salamandre, e nei pesci. Si riteneva fosse una loro facoltà esclusiva, ma ora la capacità di autoriparazione del cuore si può ridare ai mammiferi. Lo ha scoperto un gruppo di ricercatori coordinati da Mauro Giacca dell’Icgeb (International Centre for Genetic Engineering and Biotechnology) di Trieste. Lo studio apre finalmente le porte alla possibilità di mettere a punto farmaci che rigenerino un cuore ormai incapace di nutrire il corpo, mandando in circolo troppo poco sangue. Attualmente le cure disponibili per l’insufficienza cardiaca, che segue lentamente e in modo inarrestabile l’infarto, una grave ipertensione o il diabete, sono in grado solo di rallentarne la progressione. E così lo scompenso cardiaco, fase finale dell’insufficienza, in cui il soggetto ha il fiato corto e non riesce neanche a camminare, sta diventando una epidemia con costi umani ed economici altissimi, pari se non superiori a quelli del cancro. Ogni anno nel mondo si hanno 15 milioni di nuovi casi di scompenso cardiaco, di cui l’80% avviati da un infarto anni prima. Le cure e le degenze si portano via il 2% del Pil dei Paesi industrializzati, per trattamenti che non sono risolutivi, risalenti agli anni ’90. Altrettanto se ne va in costi sociali per perdita di produttività dei malati e dei familiari impegnati nell’assistenza. La causa di questa catastrofe sta nell’incapacità delle cellule del cuore, una volta diventate adulte, di moltiplicarsi e rimpiazzare quelle uccise, ad esempio da un infarto. Le sopravvissute sono costrette a ingrossarsi per compensare la forza mancante nel muscolo cardiaco. Vanno così incontro a squilibri metabolici che lentamente le uccidono, indebolendo ancor di più il cuore e innescando un circolo vizioso che lo porta allo sfiancamento.
La soluzione sta in piccole molecole simili al Dna (microRna) che, si sta scoprendo in questi anni, funzionano da regolatori dei geni. “Tramite uno screening robotizzato – spiega Mauro Giacca nell’articolo scientifico pubblicato oggi su Nature – abbiamo analizzato la funzione di tutti i microRNA prodotti dal genoma umano. Abbiamo scoperto che 40 di questi sono in grado di stimolare la proliferazione delle cellule adulte del cuore. Alcuni di questi microRNA sono proprio quelli normalmente attivi durante lo sviluppo embrionale, quando il cuore sta crescendo e quindi le sue cellule sono in replicazione. Subito dopo la nascita, non vengono più prodotti. Quando questi microRNA vengono somministrati ad un cuore che ha subito un infarto, sono in grado di rimettere in moto la replicazione dei cardiomiociti e quindi stimolare la reale riparazione del danno. Non si forma più una cicatrice, come avviene normalmente, ma si ha la moltiplicazione di nuove cellule cardiache, che è la stessa modalità con cui si ripara il cuore delle salamandre e dei pesci, capacità persa dai mammiferi durante l’evoluzione”. La scoperta di questi microRNA potrebbe avere straordinarie applicazioni terapeutiche. Da questi piccoli elementi genetici si possono sviluppare farmaci che, iniettati nel cuore subito dopo l’infarto o nei pazienti con scompenso cardiaco, stimolano la rigenerazione delle parti del muscolo cardiaco danneggiato. (da: La Repubblica – 5 dicembre 2012)
ERNIA DEL DISCO LOMBARE
Le note dolenti: Lombalgia, mal di schiena, sciatica e cruralgia.
Cos’è – L’ernia del disco (freccia blu) ed il suo rapporto col nervo (la radice, freccia rossa) è rappresentata nella figura qui a sinistra. Qui a destra è rappresentato l’aspetto nel cadavere, in una colonna vertebrale tagliata a metà (taglio sagittale). Il disco sporge dal margine vertebrale e schiaccia la radice nervosa provocando dolore, spesso la sciatica.
Solitamente il disco ernia ai lati del legamento longitudinale posteriore (una sorta di nastro che unisce e copre i corpi vertebrali ed i dischi interposti) che è anche la zona prossima alla radice nervosa. Gli spazi L4-L5 ed L5-S1 (L sta per lombare e S per Sacrale!) sono interessati nel 95% con una quota rispettiva del 45 e 50%. Segue lo spazio L3-L4 col 5% circa. Il dolore ed i più rari deficit muscolare o sfinterico corrispondono al livello dell’ernia discale e quindi al nervo compresso (la radice in termini medici ). Il livello L4-L5 interessa la radice di L5, L5-S1 interessa S1. L’ ernia rimane di solito contenuta negli involucri naturali del disco (l’anulus), altre volte viene espulsa come frammento libero, che nel 70% dei casi migra verso il basso.
IL COLPO DELLA STREGA
Come si manifesta – Classicamente si manifesta in due tempi successivi: dolore lombare o lombalgia (“mal di schiena”) cui col tempo si associa la sciatica, o dolore lungo la faccia posteriore dell’arto inferiore, fino alla pianta o al dorso del piede. Il dolore all’esordio può essere improvviso e violento, tanto da meritarsi il nome di “colpo della strega”. Indica un mal di schiena improvviso e violento, che “blocca” il paziente in flessione. Questo atteggiamento persiste anche per molti giorni e si attenua quando il dolore comincia a calmarsi. La lombalgia spesso precede la sciatica, ma nella fase di acuzie il dolore lungo la gamba può “mascherare” la lombalgia, ed essere il sintomo rilevante
L’ernia del disco si manifesta tipicamente con la sciatica, ossia dolore lungo la gamba (vedi la figura sopra). Il dolore esprime la sofferenza radicolare (della radice nervosa, all’origine del nervo sciatico). Si tratta della radice di L5 o S1, con prevalenza dei sintomi verso il dorso (L5), o il malleolo esterno (l’osso che sporge sul collo del piede!) e la pianta del piede (S1).
La cruralgia indica invece la sofferenza di L4, ed il dolore è nella parte anteriore della coscia. Il dolore è accentuato dai movimenti della schiena, da posizioni protratte (specie la lunga permanenza in piedi o in posizione seduta), da tosse, starnuto e defecazione. Al contrario il giacere con le gambe flesse attenua il dolore.
Altri sintomi – Al dolore si associano parestesie (sensazioni anomale della gamba, tipo formicolii) e deficit sensitivi (45%), alterazioni dei riflessi (51%) ed ipostenia o diminuzione della forza (28%). La diminuzione della forza riguarda soprattutto i movimenti del piede e può essere verificata sollevandosi sui talloni o sulle punte. Nel primo caso indica un deficit dell’estensore lungo dell’alluce e delle dita (sofferenza di L5), nel secondo caso un deficit del tricipite surale (sofferenza di S1). Molto raramente l’ ernia si manifesta con la sindrome della “cauda equina” ossia disturbi sensitivi perineali a sella e difficoltà nel controllo delle urine e delle feci, oltre che deficit della forza degli arti inferiori, specie nei movimenti del piede.
La manovra di Laségue – La presenza di sciatica viene verificata con la manovra di Laségue, che si esegue col paziente supino (sdraiato sul dorso): si eleva la gamba estesa fino a provocare tensione e poi dolore nel territorio sciatico (deve comparire al di sotto dei 60°). è positivo nell’83% dei casi specie nei pazienti giovani e per ernie L5-S1. Il Laségue crociato (elevazione dell’arto non dolente) è positivo quando evoca dolore controlaterale indicando la presenza quasi certa di ernia (97%, ma con un’alta incidenza di falsi negativi). Per verificare la presenza di cruralgia si mette in tensione il nervo femorale, ossia col paziente prono (sdraiato sul ventre) si eleva la gamba. La pressione nelle aree algiche, lungo i punti paravertebrali e lungo il decorso dei nervi interessati (sciatico o femorale) causa od accentua il dolore. Talora bisogna differenziare la sofferenza radicolare da una patologia dell’anca. Questa si evidenzia a ginocchio flesso o semiflesso, ruotando, abducendo e flettendo la coscia così da mettere in tensione l’articolazione coxo-femorale.
Gli esami strumentali – La sofferenza della radice è obiettivata dall’esame elettromiografico. La radiografia diretta mostra la colonna vertebrale con le modificazioni (transitorie), indotte del dolore (irrigidimento, scoliosi etc.), o le modificazioni indotte da processi degenerativi (permanenti), come la riduzione dello spazio discale o la presenza di osteofiti. In proiezione laterale si valutano i diametri del canale neurale e la posizione delle faccette articolari, queste meglio evidenziabili in posizione obliqua. (A cura del dottor © F. Caputi. – 28 Agosto 2008).
ORGANO SESSUALE FEMMINILE – Punto “G”
Un’ecografia svela il punto “G” : per la prima volta è stato individuato e fotografato grazie a un’ecografia, sulla parete che separa la cavità dell’uretra da quella della vagina. Ecco la conferma della scienza che non tutte le donne possono contare su questa parte del corpo, ma solo quelle che hanno questa parete più ispessita. Il “punto G” esiste. Il professor Angelo Jannini, docente di Sessuologia Clinica all’Università de l’Aquila ha risolto il dilemma sull’esistenza del famoso punto del piacere: c’è, si vede con un’ecografia, ma non tutte le donne ce l’hanno. Il ricercatore dopo più di cinquant’anni ha dato credibilità scientifica alla tesi di Ernst Grafenberg, il ginecologo tedesco che per primo, nel 1950, aveva ipotizzato l’esistenza del “punto G”. Esiste ed è un’area della parete interna della vagina, responsabile del cosiddetto “orgasmo vaginale”.
Bisogna precisare che non esistono due tipi di orgasmo. La distinzione che abitualmente si fa tra orgasmo clitorideo e vaginale, dipende solamente dall’origine del piacere femminile. Mentre nel primo caso, infatti, la “responsabilità” è della clitoride, nel secondo entra in gioco il cosiddetto “punto G”. che in pratica non è altro che un ispessimento della parete interna tra la vagina e la vescica. Un piccolo ammasso di ghiandole, nervi e corpi cavernosi che, sollecitati a dovere, danno origine al piacere. Non tutte le donne hanno questo particolare anatomico, anche se non si sa spiegarne il perché. La vera sfida, adesso è capire quali siano i fattori che influenzano il funzionamento di questa particolare area della vagina. Si sa già, ad esempio, che ormoni come il testosterone ne regolano il funzionamento. Il testosterone, tipicamente maschile, è presente anche nelle donne e in grandi quantità può provocare spiacevoli effetti collaterali, come un’eccessiva peluria sul viso. Ma questo ormone, è responsabile anche del desiderio femminile e del buon funzionamento dell’apparato genitale delle donne. Le ricerche hanno dimostrato che le donne irsute hanno un “punto G” più esteso e sviluppato. Mentre quelle che vanno in menopausa precoce, “il punto G” tende a riassorbirsi fino quasi a scomparire. Non si può e non si deve, però, limitare tutto a ispessimenti e ormoni. La sessualità femminile è molto complessa e come sempre le emozioni giocano un ruolo fondamentale.
ESAMI DEL SANGUE
Il sangue umano viene prelevato dal paziente e trasferito ad apparecchiature e analizzatori per valutarne la composizione e i fattori che indicano problemi o patologie. Spesso gli esami vengono condotti in un laboratorio di analisi, ma negli ultimi anni, grazie alla miniaturizzazione della tecnologia è possibile spostare l’attrezzatura verso il paziente, con gli analizzatori portatili o point of care. La valutazione delle misure effettuate, per derivarne un quadro clinico, viene fatto da un medico specializzato, che ha bisogno di valutare il complesso di più parametri e conoscere elementi essenziali sul paziente, quali l’età, il sesso, l’etnia e l’attuale stato di salute. Il solo confronto con le misure di riferimento (cosiddetti valori di riferimento) è spesso dannoso e disinformativo.
Solitamente il prelievo viene effettuato al mattino per ottenere una migliore standardizzazione e ridurre la variabilità biologica. Si utilizza sangue venoso prelevato dalle vene dell’avambraccio o, più raramente e per esami specifici, il sangue capillare dei polpastrelli (digitopuntura).
Diversi fattori possono influenzare o alterare i risultati dei test come ad esempio l’attività fisica, diversi farmaci, l’ora della raccolta, la postura, la prolungata costrizione del laccio emostatico durante il prelievo, etc.
Possibili parametri valutabili (valori di riferimento) – Proprietà fisico-chimiche del sangue ed emogas analisi.
Esprimono importanti caratteristiche del sangue. Il valore del pH è uno dei parametri più stabili; una sua variazione si osserva negli stati di acidosi ed alcalosi (metabolica o respiratoria).
L’osmolalità (analoga alla osmolarità è un indice che valuta la forza osmotica del sangue; stati di eccessiva disidratazione (coma iperosmolare) sono eventi patologici frequenti nei diabetici. Inoltre, il gap osmolare, calcolato sottraendo dal dato sull’osmolarità offerto dal laboratorio il dato trovato mediante la formula 2 x [Na+] + [Glucosio]/18 + [Azotemia]/2.8, è un importante parametro da tenere in considerazione nelle acidosi metaboliche con gap anionico aumentato.
Normalmente questo gap non dovrebbe superare il valore di 10 – 15 unità; la presenza nel torrente ematico di sostanze a basso peso molecolare come composti tossici acidi aumenta il gap osmolare. In definitiva, un pH ematico diminuito, con gap anionico aumentato e gap osmolare aumentato dovrebbe far sospettare un’acidosi metabolica causata da ingestione di sostanze tossiche acide.
La viscosità rappresenta l’insieme delle forze chimiche che contribuiscono allo svilupparsi dell’attrito interno nei fluidi. Una sua diminuzione comporta lo stabilirsi di circoli ipercinetici (anemie); l’aumento della viscosità si ha negli stati infettivi e nella disidratazione.
La pressione parziale dell’ossigeno e della anidride carbonica sono parametri spesso utilizzati per valutare lo stato della ventilazione nei soggetti ospedalizzati. Si conduce mediante prelievo del sangue arterioso.
Parametro, Sigla e descrizione, Valori di riferimento, Diminuzione, Aumento
pH, pH – valore del pH ematico., 7.35-7.45, acidosi, alcalosi
Osmolalità, Misura le (milli) osmoli per litro del sangue., 275-295 mOsm/kg (giovane adulto) / 280-301 mOsm/kg (sopra 60 anni), iposmolalità, iperosmolalità
Viscosità, Misura il grado di attrito interno del fluido ematico., 1.1-1.22 cP (centiPoise)
Anidride carbonica, Concentrazione dell’anidride carbonica nel plasma., 18-23 mEq/L
Pressione parziale dell’anidride carbonica, PCO2; misura della pressione parziale dell’anidride carbonica nel plasma., 35-45 mmHg, ipocapnia, ipercapnia
Pressione parziale dell’ossigeno, PO2; misura della pressione parziale dell’ossigeno nel plasma, 83-108 mmHg, ipossiemia, iperossiemia
Esame emocromocitometrico
Parametro, Sigla e descrizione, Valori di riferimento, Diminuzione, Aumento
Globuli bianchi, WBC (White Blood Cells): il numero di GB per µL o mm³ di sangue.,4.000-11.000, leucopenia, leucocitosi
Globuli rossi, RBC (Red Blood Cells): il numero di GR per µL o mm³ di sangue, 4.000.000-5.500.000 (donna) / 4.500.000-5.900.000 (uomo), anemia,poliglobulia o eritrocitosi
Emoglobina, Hb (Hemoglobin): la quantità in grammi di Hb presente in un L o in un dL di sangue.,12-16 g/dL (donna) / 13-17 g/dL (uomo), anemia,
Ematocrito, Ht (Hematocrit): la percentuale del volume del sangue che è occupato dalle cellule.,36-47 (donna) / 39-50 (uomo), ,
Volume corpuscolare medio, MCV (Mean Corpuscular Volume): il volume medio dei globuli rossi.,80-100[1], microcitosi,macrocitosi
Contenuto cellulare medio di emoglobina, MCH (Mean Corpuscolar Hemoglobin): la quantità media di emoglobina in ogni globulo rosso, 27-31 pg, anemia ipocromica,
Concentrazione cellulare media di emoglobina, MCHC (Mean corpuscolar Hemoglobin Concentration): la concentrazione media di emoglobina in un globulo rosso.,32-36 g/dL[1], ,
Ampiezza della distribuzione eritrocitaria, RDW (Red cells Dispersion Width): l’ampiezza della distribuzione del volume dei GR attorno al suo valore medio.,11.5-14.5, ,
Reticolociti, Percentuale (%) di reticolociti circolanti nel sangue. I reticolociti sono i precursori degli eritrociti maturi, 0.5-2.0, reticolocitosi
Piastrine, PLTS (Platelets): il numero di piastrine presenti nel campione esaminato, 150.000-400.000, piastrinopenia o trombocitopenia,piastrinosi o trombocitosi
Volume piastrinico medio, MPV (Mean platelet Volume): il volume medio delle piastrine.
Prove di emocoagulazione
Parametro, Sigla e descrizione, Valori di riferimento
Antitrombina III, Concentrazione dell’antitrombina III nel plasma.,21-30 mg/100 mL
Fibrinogeno, Concentrazione del fibrinogeno nel plasma.,200-400 mg/100 mL
Tempo di protrombina, PT: tempo necessario alla formazione del coagulo dopo aggiunta di tromboplastina e calcio.,11-15 sec
Tempo di Tromboplastina, PTT: tempo necessario affinché il plasma citrato addizionato di calcio e fosfolipidi coaguli.,60-85 sec
Elettroliti sierici
Gli elettroliti contenuti nel plasma possono essere misurati nel plasma o nel siero con un elettrodo a membrana (ISE).
Parametro, Sigla e descrizione, Valori di riferimento
Basi totali, Concentrazione nel numero totale delle basi che concorrono alla genesi del pH ematico.,145-160 mEq/L
Calcio, Concentrazione totale del calcio – sia libero che legato alle sieroproteine.,8.4-10.2 mg/100mL
Cloruro, Concentrazione dello ione cloro nel plasma.,98-106 mEq/L
Fosfato inorganico, Concentrazione dello ione fosfato nel plasma.,2.3-4.1 mg/100 mL (giovani adulti) / 4.5-5.5 mg/100 mL (bambino)
Magnesio, Concentrazione dello ione magnesio nel plasma.,1.3-2.1 mEq/L
Potassio, Concentrazione dello ione potassio nel plasma.,3.5-4.5 mEq/L
Sodio, Concentrazione dello ione sodio nel plasma.,136-146 mEq/L
Funzionalità renale
Parametro, Sigla e descrizione, Valori di riferimento
Azotemia, Concentrazione dell’azoto non proteico nel plasma.,10-50 mg/100mL
Creatinina, Concentrazione della creatinina nel plasma.,0.8-1.2 mg/100mL
Clearance della creatinina, Volume di sangue depurato dalla creatinina in un minuto.80-120 mL/minuto
Proteinemia, Concentrazione delle proteine nel plasma.,6.5-7.5 g/100mL
Albuminemia, Concentrazione dell’albumina nel plasma.,3.5-4.5 g/100mL
Bilirubina totale, Concentrazione della bilirubina glicosilata e non nel plasma.,massimo 1.2 mg/100mL
GOT, Attività della aspartato transaminasi (AST) nel plasma.,10-50 U/L (unità per litro)
GPT, Attività della alanina transaminasi (ALT) nel plasma.,10-40 U/L (unità per litro)
γ-GT, Attività della gammaglutammiltransferasi nel plasma.,7-33 U/L (unità per litro)
ALP, Attività della fosfatasi alcalina nel plasma.,80-260 U/L (unità per litro)
Metabolismo
Parametro, Sigla e descrizione, Valori di riferimento
Azotemia, Concentrazione dell’azoto non proteico nel plasma.,10-50 mg/100mL
Acido lattico, Concentrazione dell’acido lattico nel plasma. Aumentano dopo attività fisica – attività anaerobica e coma da biguanidi.,4.5-19.8 mg/100mL (sangue venoso) / 4.5-14.4 mg/100mL (sangue arterioso)
Acido piruvico, Concentrazione della acido piruvico nel plasma.,0.3-0.9 mg/100mL
Acido urico, Concentrazione dell’acido urico nel plasma. Elevate concentrazioni si riscontrano dopo trattamento con chemioterapici e nella gotta cronica.,4.5-8.2 mg/100mL (maschi) / 3.0-6.5 mg/100mL (femmine)
Ceruloplasmina, Concentrazione della ceruloplasmina nel sangue – proteina responsabile del trasporto dello ione rame.,23-43 mg/100ml
Coenzima Q10, Concentrazione del coenzima Q10 nel plasma; una sua diminuzione è documentata nei cardiopatici e in talune malattie neurologiche.,0.4-1.9 µg/mL
Corpi chetonici, Concentrazione dei corpi chetonici nel plasma. Aumentano in caso di chetoacidosi – grave conseguenza in caso di iperglicemia.,0.3-2.0 mg/100mL
Creatinina, Concentrazione della creatinina nel plasma – metabolita della creatina – eliminato dai reni. Un aumento della creatininemia è indice di insufficienza renale.,0.8-1.5 mg/100mL
Crioglobulina, Concentrazione della crioglobulina nel plasma. Questa proteina (presente ad esempio nell’epatite C) precipita a temperature molto basse (di qui il nome).,Assente
Fenilalanina, Concentrazione della fenilalanina nel plasma – utile parametro per il follow-up dei pazienti con fenilchetonuria.,0.8-1.8 mg/100mL
Ferro, Concentrazione del ferro nel plasma – diminuita nell’anemia ferro carenziale.,75-175 µg/100mL
Glucosio, Concentrazione del glucosio nel plasma – parametro richiestissimo e utile per il controllo dei pazienti diabetici.,20-60 mg/100mL (nei neonati prematuri) / 40-80 mg/100mL (neonati) / 60-100 mg/100mL (bambini) / 70-100 mg/100mL (adulti)
Colesterolo, Concentrazione del colesterolo nel plasma, massimo 200 mg/100mL (totale) / 30-70 mg/100mL (HDL) / massimo 100 mg/100mL (LDL)
Trigliceridi, Concentrazione dei trigliceridi nel plasma.,massimo 170 mg/100mL
Piombo, Concentrazione del piombo nel plasma – da valutare per scongiurare patologie legate ad attività professionale od avvelenamenti (saturnismo).,massimo 40 µg/100mL (adulti) / massimo 30 µg/100mL (bambini)
Elettroforesi delle sieroproteine
Parametro, Valori di riferimento, Significato
Albumina,55-70%, L’albumina è la proteina quantitativamente più presente nel plasma. Diminuisce negli stati di iponchia.
Alfa1 globulina – (α1),2.5-6 %, Antitripsina e glicoproteina acida sono le proteine che costituiscono principalmente la banda Alfa1 . Si ha un aumento della sua percentuale nei processi infiammatori acuti.
Alfa2 globulina – (α2),6.5-14%, Aptoglobulina – alfa2-antiplasmina e alfa;2-macroglobulina sono le proteine che costituiscono principalmente la banda Alfa2. Si ha un aumento della percentuale nei processi infiammatori acuti – nei processi infiammatori cronici e nella sindrome nefrosica.
Beta – (β),5-15%, La transferrina – le lipoproteine a bassa densità (LDL) e la frazione c3 del complemento – costituisco principalmente la banda beta. Si ha un aumento nella sindrome nefrosica (unitamente all’aumento di α2).
Gamma – (γ),11-21%, In questa banda si concentrano le immunoglobuline (IgA – IgD – IgE – IgG e IgM). Un aumento si può avere in cirrosi epatica (curva a cupola) e nel mieloma multiplo (curva a campanile).
Immunoglobuline
Parametro, Valori nei maschi, Valori nelle femmine
IgA,90-410 mg/100mL,50-373 mg/100mL
IgD,0-15 mg/100mL (valore medio: 3),0-15 mg/100mL (valore medio: 3)
IgE,0-250 UI/mL,0-175 UI/mL
IgG,565-1765 mg/100mL (valore medio: 1047),565-1765 mg/100mL (valore medio: 1047)
IgM,60-250 mg/100mL,70-280 mg/100mL
Vitamine
Parametro Valori di riferimento Significato
Vitamina A,30-65 µg/100mL (adulti) / 30-80 µg/100mL (bambini) – La concentrazione plasmatica della vitamina A viene valutata per stabilire eventuale carenza – caratterizzata da ritardi della crescita e turbe visive.
Vitamina B12,330-990 pg/mL – La concentrazione della vitamina B12 è un importantissimo parametro da tenere in considerazione nel trattamento delle atrofie della mucosa gastrica – connesse alla scarsa capacità di garantire un corretto assorbimento della vitamina B12. La carenza di vitamina B12 può portare ad anemia perniciosa – aumento dei livelli ematici di omocisteina e danni neurologici.
Vitamina C,0.6-2 mg/100mL – La concentrazione della vitamina C si valuta per diagnosticare eventuali complessi sindromici riconducibili allo scorbuto.
ESAME DELLE URINE
L’esame delle urine è un insieme di esami di laboratorio che consente di analizzare le caratteristiche chimiche e fisiche delle urine e del relativo sedimento. Esso permette di individuare o sospettare condizioni patologiche dei reni o delle vie urinarie, oltre che diverse malattie sistemiche; sulle urine è inoltre possibile ricercare tracce di sostanze tossiche o di farmaci assunti di recente. È un esame di routine da eseguire fra quelli pre-operatori o in un ricovero ospedaliero. Nell’analisi delle urine vanno considerati diversi componenti, molti dei quali sono analizzati tramite l’utilizzo di strisce reattive (dipstick), seguiti, se necessario, dall’osservazione al miscroscopio.
Prelievo
A seconda del tipo di esame delle urine si deve raccogliere l’urina in modo differente:
- Urine del mattino, urinocoltura e urina causale: Il prelievo del campione va realizzato raccogliendo il mitto intermedio (scartando la parte iniziale e finale della minzione) in un contenitore sterile preferibilmente con sonda integrata nel tappo. Lo scarto iniziale è necessario per pulire l’uretra dal mitto precedente e da eventuali batteri che potrebbero contaminare il campione, mentre il mitto finale può essere più concentrato e ricco d’impurità date dal residuo presente in vescica.
- Urine delle 24 ore: si inizia la raccolta al mattino, scartando la prima minzione e termina con la raccolta della prima minzione del mattino seguente, bisogna miscelare tutta l’urina raccolta in modo da omogeneizzarlo ed eseguire il prelievo.
Descrizione
L’esame delle urine è diviso in tre parti:
- Esame fisico
- Esame chimico
- Esame microscopico del sedimento urinario
Esame fisico
L’esame fisico consiste nel rilevare colore ed aspetto del liquido fisiologico in esame. Questo esame dà un giudizio preliminare sulle urine: l’aspetto, il colore, il sedimento e il peso specifico sono importanti indizi diagnostici. La prima operazione consiste nel rimescolare il campione per renderlo omogeneo. Si osserva l’urina per apprezzare il suo aspetto che può essere limpido, opalescente (presenza di lipidi) o torbido(presenza di batteri, sangue o alterazioni del pH) quindi si rileva il colore che può variare in diverse sfumature di giallo che vanno dal giallo pallido al giallo bruno. Per semplicità si distinguono in tre tinte:
- Vogel 1 (urine gialle, giallo pallido, giallo chiaro)
- Vogel 2 (urine giallastre, rossastre, rosse)
- Vogel 3 (urine rosso brunastre, brune)
L’aspetto è relativo alla quantità di particelle sospese, il colore varia in condizioni fisiologiche in relazione alla quantità prodotta ed in condizioni patologiche in base alla presenza di bilirubina, sangue ecc… Ha perso di interesse l’analisi dell’odore, ma ancora viene utilizzato per la valutazione della presenza di chetonuria.
La densità delle urine è espressa dal loro peso specifico, che dipende dalla quantità relativa di acqua contenuta e dal tipo di soluti disciolti. I valori normali oscillano tra 1017 e 1025.
Esame chimico
L’esame chimico ha la funzione di rilevare ed eventualmente quantificare le principali sostanze presenti nelle urine in condizioni fisiologiche e patologiche. Viene effettuato o con strumenti in grado di effettuare l’analisi della frazione corpuscolata delle urine con metodo citofluorimetrico o ponendo 10 ml di urina ben mescolata in una provetta in cui sarà immerso per alcuni secondi un multistick che presenta una serie di tamponcini reattivi che varieranno il loro colore in base alla presenza e alla quantità delle sostanze ricercate. Tra queste normalmente vengono ricercate:
Esterasi leucocitaria
È un enzima che viene prodotto dai leucociti, quando vi sono batteri nelle urine. È un test molto sensibile, perciò sono rari i falsi negativi: se il test fosse positivo è necessario proseguire le indagini con una urinocoltura
Glucosio
Normalmente assente. La presenza di glucosio nelle urine indica che si è superata la “soglia renale” per questo composto, cioè che la quantità di tale sostanza nel sangue è superiore alla capacità del tubulo renale di riassorbirla. In condizioni fisiologiche, la soglia di riassorbimento tubulare del glucosio è di circa 180 mg/dl. Il glucosio che non riesce ad essere riassorbito completamente dai reni finisce nelle urine. Questa situazione può verificarsi in condizioni patologiche che determinano un aumento del glucosio nel sangue, come il diabete mellito, o in caso di diminuita capacità di riassorbimento tubulare, come ad esempio nel diabete renale.
Proteine
Normalmente assenti o comunque non dosabili. La presenza di proteine dosabili nel semplice esame delle urine richiede esami più approfonditi per escludere il sospetto di malattie dei reni o delle vie urinarie, poiché normalmente la membrana di filtrazione glomerulale non permette il passaggio delle grosse molecole proteiche.
Sangue
In condizioni fisiologiche non si trova sangue nelle urine. L’ematuria e/o l’emoglobinuria possono essere indice di patologie di diversi distretti:
- L’ematuria renale può essere causata da glomerulonefriti, neoplasie, traumi renali, malformazioni vascolari renali;
- L’ematuria non di origine renale può indicare patologie dell’uretere, della vescica, dell’uretra, dell’apparato genitale maschile e femminile. Ad esempio, sono cause frequenti di ematuria la calcolosi e le infezioni delle vie urinarie.
Per la diagnosi di ematuria il sedimento deve mostrare la presenza di emazie.
Urobilinogeno
Normalmente presente in quantità irrilevante, aumenta in caso di epatite, tumori, infezioni, cirrosi,e tutte quelle malattie in cui vi è una compromissione della funzionalità epatiche. Vi può essere un aumento di urobilinogeno anche in caso di fegato perfettamente funzionante a causa di un aumento della produzione di bilirubina.
Esame microscopico del sedimento urinario
L’esame microscopico serve a valutare le sostanze sospese nell’urina. Riempire una provetta conica da centrifuga con 10 ml di urina ben mescolata e centrifugare a 2000 giri per 5 minuti. Il basso numero di giri serve a evitare la rottura di elementi patologici quali i cilindri. Scartare il sovranatante, scuotere la provetta e depositare una goccia di sedimento su di un vetrino portaoggetti pulitissimo. Coprire con copri oggetto e osservare a 100 ingrandimenti al microscopio con diaframma quasi completamente chiuso. Una volta esplorato tutto il reperto si può passare a un ingrandimento maggiore. Il sedimento può essere distinto in sedimento organizzato (elementi cellulari) e sedimento non organizzato (sostanze in cristalli). La presenza di cellule delle basse vie urinarie riconoscibili per la loro forma piatta e il loro piccolo nucleo è da considerarsi fisiologica. La forte presenza di cristalli, di emazie e batteri deve essere valutata attentamente dal medico.
Funzione
L’esame delle urine è praticato per dimostrare o escludere:
- lesioni strutturali attraverso l’ analisi quantitativa e qualitativa delle emazie per lo screening nella differenziazione tra ematurie glomerulari e non glomerulari (urologiche);
- presenza di agenti infettivi attraverso l’analisi quantitativa di batteri, leucociti, miceti per un efficace screening nella diagnosi delle infezioni urinarie;
- alterazioni della funzione renale attraverso la misura della conduttività: parametro utile per la valutazione della diuresi e della capacità di riassorbimento del tubulo renale (marker precoce di alterazioni e danni renali);
- test antidoping e/o antidroga, molti dopanti e stupefacenti vengono eliminati tramite i reni e di conseguenza è possibile verificare l’assunzione di questi da parte dell’esaminato;
La qualità dell’esame urina è direttamente collegata alla qualità del campione raccolto e all’accuratezza dello screening.
Analisi Cliniche
AZOTEMIA – Misura la concentrazione nel sangue dei composti azotati dei quali l’Urea è il più importante ed è indice del funzionamento del Rene. Nel caso di insufficienza renale l’Urea si eleva al di sopra dei valori normali, compresi tra 10 e 45 mg. per 100 ml. Piccoli aumenti si possono riscontrare anche in soggetti particolarmente muscolosi.
COLESTEROLO – È uno dei grassi circolanti nel sangue. Può provenire dai cibi che assumiamo o essere prodotto dal nostro organismo. Si deposita lungo le pareti delle arterie impedendo il flusso del sangue (arteriosclerosi). Un alto tasso di colesterolo può portare al rischio di contrarre malattie cardiovascolari oppure l’infarto.
ELETTROFORESI – È un esame che consente di analizzare le proteine (una trentina di classi), in genere però si guardano solo 5 classi:
- Albumina – valori normali dal 50 al 65%
- Alfa Globuline – 4,6 a 14
- Beta Globuline – 7,9 a 15,5
- Gamma Globuline – una loro presenza oltre il 20% indica una malattia infettiva in corso.
EMOCROMO – Conteggio dei globuli bianchi e globuli rossi e nell’emoglobina, la molecola che trasporta l’ossigeno dai polmoni all’interno dell’organismo. L’aumento dei globuli bianchi oltre i valori normali (4.000 – 10.000 x mm.³) significa che è in atto un’infezione. Quando sono in numero inferiore possiamo essere di fronte all’azione tossica di un farmaco.
ESAME URINE – La presenza nelle urine di proteine è segno di cattivo funzionamento del rene o una semplice infiammazione delle vie urinarie.
ESAME FECI – Si cercano parassiti intestinali e tracce di sanguinamento che possono provenire da ulcere, polipi, emorroidi e da qualche zona dell’apparato digerente. È un mezzo di diagnosi precoce del cancro del colon.
GLICEMIA- È la quantità di glucosio, cioè di zucchero presente nel sangue. I valori in genere non scendono al di sotto dei 65 milligrammi per 100 millimetri di sangue, né salgono al di sopra dei 110 mg. per 100 ml.
TRANSEMINASI – Sono enzimi presenti nelle cellule dell’organismo, in particolare nei muscoli e nel fegato (Got e Gtp). Un aumento delle transeminasi Gtp può denunciare un’epatite virale, mentre un tasso elevato di Got è sintomo di un recente infarto del miocardio. I valori normali vanno da 3 a 23 unità internazionali per litro.
TRIGLICERIDI– Sono grassi di origine alimentare oppure endogena. Il loro aumento nel sangue può essere indice di disordini alimentari, abuso di alcolici, obesità, diabete. I valori normali vanno da: 64 a 200 mg. x ml. per gli uomini – e da 55 a 160 mg. x ml. per le donne.
URICEMIA – L’acido urico è il prodotto finale del metabolismo delle proteine contenute nella carne. Un aumento oltre i valori normali (da 3,4 a 7 mg. per 100 ml. x gli uomini e da 2 a 6 mg. x 100 ml. per le donne) è un tipico sintomo di gotta.
V.E.S. – Si misura prelevando un campione di sangue mettendolo in provetta con anticoagulante e osservando quanto tempo occorre perché i globuli e il plasma si separino.
GIURAMENTO DI IPPOCRATE
Il Giuramento di Ippocrate viene prestato dai medici-chirurghi e odontoiatri prima di iniziare la professione. Prende il nome da Ippocrate a cui il giuramento è attribuito; la data di composizione non è definita, ma pare certo non preceda il IV secolo a.C.
Giuramento antico
La versione italiana: « Giuro per Apollo medico e Asclepio e Igea e Panacea e per tutti gli dei e per tutte le dee, chiamandoli a testimoni, che eseguirò, secondo le forze e il mio giudizio, questo giuramento e questo impegno scritto:
- di stimare il mio maestro di questa arte come mio padre e di vivere insieme a lui e di soccorrerlo se ha bisogno e che considererò i suoi figli come fratelli e insegnerò quest’arte, se essi desiderano apprenderla, senza richiedere compensi né patti scritti; di rendere partecipi dei precetti e degli insegnamenti orali e di ogni altra dottrina i miei figli e i figli del mio maestro e gli allievi legati da un contratto e vincolati dal giuramento del medico, ma nessun altro.
- Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio; mi asterrò dal recar danno e offesa.
- Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo.
- Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia arte.
- Non opererò coloro che soffrono del male della pietra, ma mi rivolgerò a coloro che sono esperti di questa attività.
- In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l’altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi.
- Ciò che io possa vedere o sentire durante il mio esercizio o anche fuori dell’esercizio sulla vita degli uomini, tacerò ciò che non è necessario sia divulgato, ritenendo come un segreto cose simili.
- E a me, dunque, che adempio un tale giuramento e non lo calpesto, sia concesso di godere della vita e dell’arte, onorato degli uomini tutti per sempre; mi accada il contrario se lo violo e se spergiuro. »
Giuramento moderno
Il giuramento, nella forma qui sotto riportata, è stato deliberato dal comitato centrale della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri il 23 marzo 2007. La versione precedente risaliva al 1998.
« Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro:
- di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento rifuggendo da ogni indebito condizionamento;
- di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale;
- di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno, prescindendo da etnia, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica e promuovendo l’eliminazione di ogni forma modello contrattualistico di Hugo Engelhardt, secondo il quale il principio di autonomia è più importante del principio di beneficenza, un modello di tipo impersonale con orientamento deontologico;
- modello utilitaristico, secondo cui “una norma è buona quando produce il miglior bene”;
- modello paternalistico di Pellegrino e Thomasma, secondo i quali il miglior modello è quello centrato sull’alleanza terapeutica: il medico non deve solo fare il bene fisico del paziente, ma anche quello psicologico, sociale e spirituale, oltre al fatto di valorizzare l’autonomia e riscoprire il reciproco senso di fiducia tra medico e paziente;
- modello di Veatch, secondo il quale debba esserci un rapporto contrattualistico tra medico e paziente che, però, debba basarsi anche sui cinque punti fondamentali (autonomia, giustizia, mantenere le promesse, dire la verità e non uccidere).
di discriminazione in campo sanitario; - di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di una persona;
- di astenermi da ogni accanimento diagnostico e terapeutico;
- di promuovere l’alleanza terapeutica con il paziente fondata sulla fiducia e sulla reciproca informazione, nel rispetto e condivisione dei principi a cui si ispira l’arte medica;
- di attenermi nella mia attività ai principi etici della solidarietà umana contro i quali, nel rispetto della vita e della persona, non utilizzerò mai le mie conoscenze;
- di mettere le mie conoscenze a disposizione del progresso della medicina;
- di affidare la mia reputazione professionale esclusivamente alla mia competenza e alle mie doti morali;
- di evitare, anche al di fuori dell’esercizio professionale, ogni atto e comportamento che possano ledere il decoro e la dignità della professione;
- di rispettare i colleghi anche in caso di contrasto di opinioni;
- di rispettare e facilitare il diritto alla libera scelta del medico;
- di prestare assistenza d’urgenza a chi ne abbisogni e di mettermi, in caso di pubblica calamità, a disposizione dell’autorità competente;
- di osservare il segreto professionale e di tutelare la riservatezza su tutto ciò che mi è confidato, che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell’esercizio della mia professione o in ragione del mio stato;
- di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera, con diligenza, perizia e prudenza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione. »
Diversi punti del giuramento fanno sorgere dubbi sul fatto che sia stato Ippocrate a dettare il giuramento. Il giuramento inizia con un’invocazione a diverse divinità. Eppure, Ippocrate è considerato il primo ad aver separato la medicina dalla religione e ad aver ricercato le cause delle malattie non nel soprannaturale ma nel razionale.
Oltre a ciò, diverse delle cose vietate nel giuramento non erano in conflitto con le pratiche mediche seguite ai tempi di Ippocrate. Per esempio, in quel periodo l’aborto e il suicidio assistito non erano condannati dalla legge, né dalla maggioranza dei precetti religiosi. Inoltre chi pronunciava il giuramento prometteva di non operare nessuno tramite la pratica della litotomia, ma di lasciarlo fare a chi era esperto. Tuttavia le tecniche chirurgiche sono parte integrante del Corpus Hyppocraticum, la collezione delle opere mediche spesso attribuite a Ippocrate e ad altri scrittori dell’antichità.
Anche se la questione è ancora dibattuta fra gli studiosi pare piuttosto plausibile che il giuramento di Ippocrate in effetti non sia stato scritto da quest’ultimo. La filosofia espressa nel giuramento sembra armonizzare maggiormente con il pensiero dei pitagorici del IV secolo a.C., che sposavano gli ideali della sacralità della vita ed erano contrari alle procedure chirurgiche.
Le origini del paternalismo medico
Contrariamente alla vulgata, è improbabile che il Giuramento di Ippocrate (460-377 a.C.) abbia fornito uno standard di regole morali per i medici dell’Antichità, ed Edelstein ha concluso che è probabile che raggiunse lo status ad oggi attribuitogli solo in epoca cristiana. Più dell’etica deontologica del giuramento, nell’antichità era fortemente presente l’etica teleologica delle virtù di origine platonica. Per i secoli successivi all’epoca cristiana, durante il Medioevo ed il Rinascimento, le regole che disciplinano il rapporto guaritore-malato si sono invece basate sul Giuramento, che circolava in una varietà di traduzioni. L’etica che il padre della medicina moderna occidentale ha trasmesso rispecchia l’ideale del medico come filantropo al servizio di tutta l’umanità, ed al di sopra di qualsiasi divisione tra gli uomini.
Sin dalle sue origini, il rapporto tra medico e paziente, così come si è andato configurando nel mondo occidentale con la tradizione ippocratica, si è attenuto ad un ordine preciso: il dovere del medico è fare il bene del paziente, e il dovere del malato è di accettarlo. Un rapporto di tipo paternalistico, in cui la responsabilità morale del medico sta nella certezza che egli operi per il bene assoluto del malato.
Il medico greco, infatti, era considerato come un mediatore tra dèi e uomini e, in virtù delle sue conoscenze, era considerato un essere dotato di privilegio, autorità morale e impunità giuridica. Questo modello di medicina corrispondeva ad una visione paternalistica della vita e della società, in cui gli ideali erano ordine, tradizione e obbedienza alle leggi universali.
Le origini dell’autonomia
A partire dal XVI secolo, s’assiste a un’emancipazione della persona: le grandi rivoluzioni politico-religiose e i grandi pensatori da Locke a Kant, trasformeranno questa sudditanza in rispetto reciproco in cui ogni persona è un individuo autonomo e indipendente, in grado di servirsi della propria ragione.
Tuttavia, bisognerà aspettare il XX secolo per vedere riconosciuta anche all’individuo malato la propria libertà e autonomia di scelta.
Modelli di relazione medico-paziente
Esistono diversi tipi di relazione medico-paziente, ma i più importanti sono:
- modello contrattualistico di Hugo Engelhardt, secondo il quale il principio di autonomia è più importante del principio di beneficenza, un modello di tipo impersonale con orientamento deontologico;
- modello utilitaristico, secondo cui “una norma è buona quando produce il miglior bene”;
- modello paternalistico di Pellegrino e Thomasma, secondo i quali il miglior modello è quello centrato sull’alleanza terapeutica: il medico non deve solo fare il bene fisico del paziente, ma anche quello psicologico, sociale e spirituale, oltre al fatto di valorizzare l’autonomia e riscoprire il reciproco senso di fiducia tra medico e paziente;
- modello di Veatch, secondo il quale debba esserci un rapporto contrattualistico tra medico e paziente che, però, debba basarsi anche sui cinque punti fondamentali (autonomia, giustizia, mantenere le promesse, dire la verità e non uccidere).
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A Verona il nuovo strumento che cura il Parkinson
Verona, 13 Febbraio 2018
A Verona (Borgo Trento) arriva un macchinario sanitario in grado di eliminare in tutto o in parte, nell’80% dei pazienti trattati, i gravi tremori provocati dal morbo di Parkinson lavorando, assicurano gli esperti, senza nessuna invasività, senza chirurgia, senza dolore e senza effetti collaterali.
È stata presentato oggi al pubblico dopo un periodo di utilizzo che ha permesso di testarne l’efficacia.
La macchina si chiama “MRgFUS Magnetic Resonance guided Focused Ultrasound”, è prodotta in Israele, ed è costata 7 milioni e 087 mila euro, dei quali 1 milione 360 mila come contributo della Fondazione Cariverona e il rimanente investito dall’azienda ospedaliera veronese utilizzando, come ha tenuto a sottolineare il Direttore Generale, gli utili ottenuti nel corso della gestione. “MRgFUS” è la prima in Italia, ma anche la prima installata in Europa a piattaforma multipla per trattamenti termo ablativi “neuro” e “body” con guida Risonanza Magnetica ad alto campo 3 Tesla, che consente trattamenti terapeutici non invasivi per mezzo di due tecnologie integrate: Ultrasuoni Focalizzati ad alta intensità che producono termo ablazione nel punto focale del tessuto da curare e Risonanza Magnetica 3 Tesla che abilita l’operatore a localizzare, centrare e monitorare la parte anatomica da curare.
Le applicazioni possibili sono multidisciplinari: in neurochirurgia per il tremore essenziale, il tremore dominante da Parkinson, il dolore neuropatico; in oncologia per la denervazione ossea dei tumori benigni e per l’osteoma osteoide; nel campo della salute della donna per attaccare i fibromi uterini e l’adenomiosi, la forma dell’endometriosi che infiltra la parete muscolare dell’utero.
Nel futuro, si conta di poter utilizzare “MRgFUS” anche per il rilascio di farmaci nel cervello attraverso la barriera emato-encefalica e per combattere il tumore alla prostata e le metastasi ossee.
Numerosi e importanti sono i benefici per i malati: procedure non invasive, terapie eseguite senza ospedalizzazione e anestesia, rapido ricovero; nessun uso di sala operatoria e decorsi post operatori; nessun rischio di infezioni; assenza di dispositivi di cura da impiantare; procedura a singola sessione con risultati immediati; non uso di radiazioni e controllo termometrico della termo ablazione in tempo reale con Risonanza Magnetica; massima precisione e accuratezza sub-millimetrica nei tre assi spaziali per il centraggio e la terapia delle parti anatomiche da curare.
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Ringiovanite ovaie di due donne
Una terapia a base di cellule staminali ha permesso di ringiovanire le ovaie di due donne che soffrivano di menopausa precoce. Le cellule sono state prelevate dalle stesse donne per essere poi iniettate per la prima volta direttamente nelle ovaie delle pazienti con una tecnica innovativa. Il risultato è dei ricercatori dell’università dell’Illinois Chicago, che ora vogliono estendere la sperimentazione ad altre 33 donne.
Grazie a tale terapia a base di staminali, i sintomi della menopausa nelle due donne sono stati alleviati e a sei mesi dall’iniezione le donne hanno avuto di nuovo il ciclo mestruale.
“Il loro livello di estrogeni è aumentato tre mesi dopo le iniezioni e l’effetto è durato per almeno un anno”, commenta Ayman Al-Hendy, coordinatore dello studio. Le cellule staminali mesenchimali impiegate sono state ricavate dal midollo osseo delle stesse pazienti e poi iniettate direttamente dentro solo una delle due ovaie, mentre l’altra è stata usata come test di controllo. Un risultato analogo era stato ottenuto qualche mese fa da un gruppo di ricercatori della Clinica Ivi di Valencia, che però avevano iniettato le staminali attraverso l’arteria ovarica. E’ “la prima volta che le staminali vengono iniettate direttamente nelle ovaie. Anche se si tratta di dati preliminari, che riguardano solo due pazienti, sono molto interessanti”, rileva Pasquale Patrizio, direttore del centro di fertilità dell’Università di Yale.
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Tecnica mini invasiva per operare la spalla e il ginocchio
Ginocchio
di Federica Buroni – 3 giugno 2018
L’artroscopia come cura privilegiata di lesioni alle articolazioni, in particolare, alla spalla e al ginocchio. Una manna dal cielo per sportivi e non, considerando le patologie sempre più frequenti in questo ambito. Nelle Marche, Villa Pini a Civitanova Marche è uno dei centri di eccellenza, all’avanguardia su questa tecnica mininvasiva e dalla diagnosi certa. Proprio in questa struttura convenzionata, nei giorni scorsi, una sessantina di medici di famiglia, fisiatri, radiologi e ortopedici hanno partecipato ad un corso con tanto di live surgery. Un evento interamente dedicato alla cosiddetta cuffia dei rotatori della spalla e relative lesioni. «Abbiamo approfondito tutte le tecniche connesse, uno stage importante per far capire la semplicità e la praticità di questo sistema», fa sapere Stefano Albanelli, 48 anni, direttore scientifico del corso e componente dello staff del professor Raul Zini che opera a Villa Pini.
Villa Pini e l’artroscopia
Spiega Albanelli: «A Villa Pini, siamo in prima linea su questo fronte, con una media di 400 interventi annui solo per la spalla; siamo tra i più importanti centri in ortopedia e chirurgia artroscopia delle Marche». Dati alla mano, questa tecnica, molto innovativa ma anche complessa, è il fiore all’occhiello. È lo stesso medico a chiarirne i dettagli: «È una metodica dall’invasività ridotta al minimo e che permette, tramite due fori molti piccoli, di entrare nell’articolazione con una telecamera ad alta definizione. La diagnosi delle lesioni è certa, l’intervento dura circa mezz’ora».
Spalla
Ad oggi, si può applicare a qualsiasi «segmento scheletrico ma, soprattutto, al ginocchio e alla spalla». Non a caso, il corso, della durata di un giorno, è stato promosso proprio dagli esperti di Villa Pini. “Ha riguardato i metodi artroscopici e, poi, attraverso un collegamento diretto con la sala operatoria, è stato possibile assistere direttamente ad un intervento chirurgico”, dice Albanelli.
I vantaggi
La tesi è semplice: “Questa è la tecnica migliore per intervenire da un punto di vista chirurgico rispetto a quella tradizionale, cosiddetta a cielo aperto”, chiosa l’esperto. Ormai, “in questo ambito, l’artroscopia è la più diffusa perché poco invasiva e consente di riparare la lesione con una precisione millimetrica». Con questo sistema, frutto di anni di ricerche e di esperimenti, si possono curare varie lesioni ai tendini e trattare numerosi problemi e condizioni articolari. La tecnica, in particolare, può essere utile a studiare dolori articolari, rigidità articolari o gonfiori sempre di natura articolare ma anche lussazioni o lassità articolari. «Non è utile invece per l’artrosi, specie se è avanzata», ricorda Albanelli. Va sottolineato che questa tecnica non ha età nel senso che «anche un paziente anziano di oltre 70 anni può considerarsi un soggetto in grado di recuperare la funzionalità dell’arto e la qualità della vita». Naturalmente, «l’intervento deve essere supportato da una buona diagnostica e prevedere tutti i vari percorsi riabilitativi». Le percentuali di recupero sono buone. Dice infatti Albanelli: «Se la patologia viene inquadrata bene e trattata nel modo giusto chirurgicamente, nel 95% del casi c’è un recupero molto buono con l’eliminazione del dolore». Soddisfatti, allora, gli sportivi che potranno così riprendere la loro attività.
Focus su spalla e ginocchio
Chiarisce il medico: «La spalla ha tante patologie ma, in particolare, c’è la cuffia dei rotatori. Con l’artroscopia, però, si possono riparare vari tipi di tendini». Quanto al ginocchio, il metodo può consentire d’intervenire sulle cartilagini, anche in questo caso su tendini e legamenti danneggiati, si può rimuovere un tessuto infiammato.
Anche i dettagli sono importanti
I miracoli dell’artroscopia sono molteplici. I dettagli sono importanti. Tra le altre cose, infatti, è possibile rimuovere piccole sezioni di osso e cartilagine che, essendosi staccate, sono libere nell’articolazione. E’, inoltre, possibile drenare quantità eccessive di liquido sinoviale cioè il liquido che lubrifica l’articolazione. Il recupero, naturalmente, varia a seconda dei casi. Spiega Albanelli: “Per la spalla, per esempio, ci vogliono dai 3 ai 4 mesi di terapia, per il menisco circa un mese, per il crociato circa 3”. Tra le condizioni che si possono trattare con questa tecnica, ci sono anche le cisti di Baker, la spalla congelata cioè dolore e rigidità che gravano sulla spalla appunto, la sindrome del tunnel carpale, una sensazione di formicolio, intorpidimento e talvolta dolore di mano e dita, artofibrosi e cioè tessuto cicatriziale in eccesso, dovuto ad un trauma pregresso, che ostacola il funzionamento normale dell’articolazione. E poi ci sono gli speroni ossei che sono formazioni ossee abnormi che possono causare dolore persistente. Nell’elenco delle condizioni dove si può intervenire, è fondamentale ricordare anche la sinovite ovvero l’infiammazione del rivestimento interno dell’articolazione.
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